Cavalcare la tigre dell’informazione?
Sì, ma serve coraggio
Oggi
i giornalisti scioperano contro la “legge bavaglio” sulle intercettazioni. Mah…
Il nostro parere in merito lo abbiamo già espresso. Perciò non
torneremo sull’argomento specifico.
Vorremmo però affrontare con parole semplici la questione dei meccanismi
informativi. Come funzionano? Come sempre Karl Kraus, già ai suoi tempi, aveva
visto lungo: “La missione della stampa è quella di diffondere lo spirito e al
tempo stesso distruggere la ricettività”, ossia la capacità di riflessione (Sprüche und Widersprüche. Aphorismen, 1909) . Parole durissime.
Ma cerchiamo di capire meglio.
I meccanismi dell’informazione ricordano quelli di una grande macchina (ma non
solo, come vedremo più avanti) che riceve notizie, le filtra, e le trasforma in
eventi. Si può chiedere a una “macchina” di essere obiettiva? No, perché
l’obiettività riguarda gli uomini. Si può però parlare di una sua
impersonalità, e non in senso positivo. Facciamo un esempio: il “delitto di
Cogne, triste storia di violenza familiare, almeno secondo i giudici.
Una notizia, inizialmente uguale a tante altre simili, trasformata in un evento
che continua ad appassionare alla gente, certo meno di qualche anno fa (ma
questo fa parte del gioco…). Un ruolo decisivo è stato giocato dall’iniziale e
massiccia presenza dei mass media (giornali e televisioni), richiamati dal
drammatico coinvolgimento di un bambino in un gravissimo fatto di sangue. Su
questo elemento, che oggettivamente fa “audience”, si è subito messa in moto la
macchina dell’informazione. E così si è innescato il consueto meccanismo
competitivo-iterativo: dare la notizia prima degli altri, dare più dettagli
capaci di suscitare interesse e di funzionare come "moltiplicatori"
dell’ ”audience”, ripetendo le stesse operazioni informative di base (volte a
“scavare” nella notizia sempre più a fondo). Grazie, si fa per dire, a un uso
razionale (le tecniche informative) dell’ “energia motrice”, trasmessa alla
“macchina” da un “evento” in apparenza misterioso.
Quel che però va sottolineato è l’impersonalità. Una volta che la macchina
informativa si è messa in moto è difficile fermarla. E’ tuttavia possibile
puntare i riflettori su altre notizie-evento, e quindi determinare uno
spostamento di interesse, fino al punto di sostituire un argomento all’altro,
ricorrendo alla giustificazione “circolare” del calo di audience (o di
lettori). In tal senso restano esemplari le vicende dei vari “faccendieri”,
usate, di volta in volta, con sapiente dosaggio, dai media di destra e di
sinistra per coprire o scoprire le magagne dei rispettivi fronti politici.
Certo, la macchina informativa ha comunque una sua forza politica (come il
Watergate insegna, ma non troppo...), o più genericamente una buona capacità
“competitivo-iterativa” di scavare a fondo, soprattutto quando si tratta di
"cronaca nera". Si pensi al caso, tuttora aperto, della povera
Simonetta Cesaroni, dove la stampa romana ha giocato un ruolo di pungolo nei
riguardi della magistratura.
Ad ogni buon conto, Henry Louis
Mencken - grande giornalista statunitense - aveva già compreso tutto e molto
prima di tanti spocchiosi professori di Scienze della comunicazione. E in due
battute: “Tutti i giornali sono incessantemente queruli e bellicosi. Se possono
evitarlo, non difendono mai nessuno e nulla; se sono costretti a farlo,
assolvono questo compito denunciando qualcuno o qualcos’altro” ( Prejudices. First Series , 1919).
Mencken si riferiva al modello "esemplare", quello americano, che poi
ha fatto (e fa) scuola in tutto il mondo.
Va tuttavia ricordato che i giornalisti non sempre agiscono in modo
impersonale. Stretti tra l’imperativo della macchina (“scavare” più degli altri
colleghi) e gli imperativi editoriali (“scavare” fin dove la proprietà
consente), spesso i giornalisti si trovano al centro di conflitti tra scelte
politico-professionali individuali e necessità di non perdere il lavoro.
Pertanto è comprensibile (ma non giustificabile) come in uno spazio morale così
ridotto e conflittuale, il giornalista non sempre riesca a conservare il
necessario equilibrio per svolgere con obiettività il suo lavoro.
Si trova nella difficile situazione di dover cavalcare la tigre, per usare
l’incisiva metafora evoliana: una tigre informativa che però appartiene ad
altri. Da qui discende la difficoltà di far coincidere, la propria sensibilità
politica, sia con gli istinti “predatori” di una tigre, che reclama sempre
carni o notizie fresche, sia con gli “spostamenti di riflettori” graditi e
imposti dalla proprietà, o comunque, detto brutalmente, da chi paga conti e
stipendi.
Sotto tale aspetto il massimo di libertà può essere goduto solo dal giornalista
(fortunato) che lavora presso una testata di cui condivide, e non per ragioni
venali, la linea editoriale. E che può così continuare a cavalcare una tigre,
di cui però, in qualche misura, si sente parte.
Quanto all’obiettività nei riguardi dei lettori è difficile dire. Spesso, come
mostra la maggior parte degli studi in argomento, i giornali, sono acquistati
in base a precise abitudini ideologiche (non in senso stretto, politico): il
lettore cerca e vuole conferme, più che informazione obiettiva. E in certo
senso un’informazione oggettiva può essere rappresentata solo come possibilità
di poter leggere, se ci sono voglia e tempo, più giornali politicamente
differenti.
Quanto alla tigre informativa, solo il giornalista che riuscirà a cavalcarla a
lungo, può sperare, mantenendo però ben stretta la presa, di avere la meglio. O
comunque di non essere sbranato.
Il "problemino" è che serve coraggio. Virtù - dal momento che
conosciamo i nostri polli... - che pochi giornalisti possiedono. E che non si
misura “collettivamente”, abbaiando una
tantum secondo i voleri del sindacato, ma “individualmente” nel
normale lavoro di redazione, ogni giorno, mettendo a rischio la propria
scrivania.
Carlo Gambescia
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