Il libro della settimana: Roger
Scruton, Il suicidio dell’Occidente, Intervista a cura
di Luigi Iannone, Le Lettere, Firenze 2010, pp. 72, euro 9,50.
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Non c’è dubbio che il sessantenne Roger
Scruton, filosofo britannico, sia il più interessante tra gli esponenti viventi
del pensiero conservatore. Va perciò elogiata l’idea di Luigi Iannone di
proporre “in pillole”, intervistandolo, le sue idee in un ghiotto volumetto: Il suicidio dell’Occidente, (Le
Lettere, Firenze 2010, pp. 72, euro 9,50). Impresa, tra l’altro, già ben
riuscita al curatore, che nella stessa collana (“Il Salotto di Clio”), ha
pubblicato nel 2008 una altrettanto brillante intervista a Ernst Nolte (Storia, Europa e modernità). Iannone è
uno studioso, serio e preparato, che oltre a padroneggiare il pensiero europeo
della crisi, pratica la non facile arte di porre ai suoi ben scelti
interlocutori le domande giuste. E senza fare sconti.
Veniamo a Scruton. Davanti a che tipo di conservatore ci troviamo? Non è un
pessimista storico, nel senso che ritiene possibile fermare la caduta libera
dell’Occidente. Non è un fondamentalista religioso, dal momento che, come
Tocqueville, attribuisce alla religione il compito di contrastare non la
democrazia, ma il materialismo democratico. Non è un fanatico del mercato, pur
credendo nel valore morale dell’iniziativa privata.
Si può perciò asserire, con Giuliano Ferrara, che Scruton, si ponga il
“problema di fissare il limite della modernità dal di dentro della modernità”?
Sì. Ecco come il filosofo risponde a una affilata domanda di Iannone sulla
natura pervasiva della tecnica moderna:
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“La scienza entra nelle cose come technè mai come aretè. Non può dirci come dovremmo
vivere, ma solo come scegliere i mezzi per i nostri fini. C’è tanto spazio per
la fede, ma la disciplina per la fede è dura; ed è per questo motivo che noi
fuggiamo da essa”.
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In realtà, come ribadisce Scruton qualche
pagina più avanti,
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“saremo sempre capaci di tenere la
tecnologia sotto controllo; ma vorremmo sempre farlo? Tutto dipende dalla
nostra determinazione che è stata fortemente indebolita” .
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Tuttavia, su come curare l’indebolimento
della volontà, Scruton, sembra non avere ricette precise. Il filosofo pare non
andare oltre il generico appello alle “radici”, alle piccole comunità, alla
sana educazione di una volta, al buon senso, ai valori tradizionali. Dispiace
dirlo, ma purtroppo siamo davanti a un pensatore non sistematico. Scruton, “pensa”,
e anche bene, ma “per saggi”. Come risulta anche dalla composizione del suo Manifesto dei conservatori e dallo
stesso modo di scrivere: offre qui e là spunti, spesso però non collegati tra
di loro, rischiando così di cadere in contraddizione. E oggi un conservatorismo
forte, di tutto ha bisogno eccetto che di incoerenze.
Un esempio? Incalzato da Iannone (“Quali sono i valori cardini a cui deve
ispirarsi nel terzo millennio un cittadino che non vuole abbandonarsi alla
deriva modernista?”), Scruton risponde così:
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“L’amore, la conoscenza e il perdono”.
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Valori nobili che però non si conciliano con
quanto il filosofo sostiene alcune righe più avanti:
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“Immagino un terzo possibile scenario.
Un’alleanza di tutte le nazioni democratiche per difendersi dai poteri
dittatoriali ed espansionisti capaci di contenere la Cina e la Russia e anche di
controllare le emigrazioni”…
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E a proposito di queste ultime:
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“Un politico deve avere un carattere forte
per dire ‘sto difendendo gli interessi degli italiani indigeni’, piuttosto che
gli interessi degli zingari romeni, degli immigrati africani o dei lavoratori
emigranti dall’Europa. E’ ancora possibile farlo. Il coraggio non è interamente
svanito dal nostro mondo” .
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Il che può pure andar bene. Ma, se le parole
significano qualcosa, il coraggio è virtù guerriera, mentre amore, conoscenza
(di Dio, di noi stessi, dei nostri simili) e perdono fanno parte del repertorio
francescano dell’accoglienza e della pace. Delle due l’una: gli zingari o vanno
amati o vanno cacciati.
O no, professor Scruton?
Carlo Gambescia
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