Immigrati
Basta con gli isterismi
Tra diversi non è facile andare d’accordo.
Ma non è neppure detto che si debba litigare per forza. Resta però comprovato
che il rischio di conflitto tende a crescere in caso di mancata integrazione
economica e sociale
Tradotto: gli scontri di via Padova tra egiziani e dominicani, vanno ascritti
al filone delle “guerre tra poveri”. Conflitti che sorgono dall’ esclusione
sociale, ossia in quei contesti dove il “povero”, di regola, se la prende con
un altro povero, finendo così tutti insieme per aggrapparsi, anche per futili
motivi, alle identità “offese”.
Pertanto, in prima battuta, la colpa degli
incidenti milanesi va ricondotta alla deprivazione economica e sociale in cui
spesso vivono gli immigrati. Degrado di cui siamo responsabili tutti: non si
può, infatti, affrontare il problema dell’immigrazione solo in termini di
chiacchiere (integrazioniste o razziste) e distintivi (repressione). Anche
perché esiste una questione di fondo: in un’economia globalizzata, ci si sposta
da un paese all’altro con maggiore facilità, ma si è anche esposti con pari
facilità agli alti e bassi del ciclo economico. E i “bassi” vanno sempre a
colpire chi sfortunatamente si trovi “in fondo alla botte”.
Va però detto che la situazione economica
dell’immigrato sembra essere meno precaria di quanto comunemente si creda. E
proprio a Milano. Riportiamo alcuni dati del “Rapporto Imprenditorialità dei
migranti in provincia di Milano”, a cura di ASIIM, l’Associazione per lo
Sviluppo dell’ Imprenditorialità Immigrata a Milano, discussi, proprio ieri
l’altro, in un convegno sul tema ( http://www.asiim.it/ ).
In provincia di Milano sono 20.144 le
imprese con a capo immigrati: il 7,6% di tutte le attività, in pratica una su
dodici. Otto su dieci sono piccola ditte. Ma esistono anche imprese complesse:
sono quasi mille infatti le società di capitali. Molte di esse operano in
settori abbandonati dai milanesi. Tra questi l’edilizia, dove crescono del
+80,9%, ma anche panifici, + 64,7%, bar +106,6%, parrucchieri dove la crescita
è del 160%. I più attivi sono egiziani cinesi, presenti nelle società di
capitale (4,4% di tutte le imprese etniche ) e di persone (circa 9%). Tra il
2005 e il 2008 le imprese “meneghine” create da immigrati sono cresciute del
33,5%. Mentre in provincia sono aumentate solo dell’1,6%. In prima fila
egiziani (6237 imprese), cinesi (4334), rumeni (2181), marocchini (1844),
albanesi (1237). Le imprenditrici sono un quinto e in percentuale crescono più
degli uomini. Nel complesso si tratta di un’ imprenditoria giovane: il 40% ha
35-40 anni .
Tuttavia la crisi economica ha colpito anche
queste imprese: sono infatti calati del 5% gli ambulanti a posto fisso e del
2,4% i padroncini del trasporto merci su strada. I più legati al territorio di
Milano sono gli egiziani; ecuadoregni e bulgari sono meno numerosi ma
presentano incrementi superiori alla media delle imprese etniche. Molti ma poco
creativi i cinesi; meno numerosi ma ben inseriti gli imprenditori filippini.
Rumeni e albanesi crescono in provincia. In diminuzione senegalesi e nigeriani.
Insomma - nonostante gli ultimi incidenti -
sembra vincere l’ integrazione economica. Perciò, malgrado il rischio crisi, la
strada dell’integrazione economica va considerata auspicabile anche per il
resto dell’Italia.Bisogna lasciare che l’economia faccia il suo corso, senza
però rinunciare a un’integrazione sociale fatta di servizi uguali per tutti.
L’immigrato deve sentirsi ospite gradito, visto che contribuisce al Pil…
Naturalmente, l’ integrazione economica e
sociale, non può significare immediata integrazione politica. Che invece
dovrebbe scattare in un terzo tempo: dopo l’integrazione culturale (frutto
dell’istruzione scolastica di primo e secondo ciclo) e l’acquisizione della
cittadinanza italiana.
Si tratta, insomma, di proporre un percorso
ragionato di riforme. Gli isterismi razzisti o integrazionisti, non servono a
nulla. Ci vuole tanto a capirlo?
Carlo Gambescia
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