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Ora
basta. E’ veramente stucchevole l’insistenza della destra finian-fumettara sul
valore mitico-epico di film come “Il Gladiatore” “Trecento” e ora “Avatar”. Per
giunta si vuole affibbiare a tutti gli spettatori, soprattutto se giovani, una
presuntiva voglia di miti politici e di conseguente action… Quasi da Balilla - spesso si ammicca - del XXI
secolo.
Ma in che modo? Sicuramente sopra le righe, da magliari: costruendo su un
prodotto hollywoodiano come “Avatar” una sovrastruttura in plastica culturale,
dove un Martin Heidegger mal digerito va a braccetto con i Manga. E dove i
giudizi di Quentin Tarantino assurgono a massime platoniche.
Probabilmente sotto la vernice post-moderna affiora a livello inconscio il
vecchio discorso del cinema come arma più potente del regime, di mussoliniana
memoria. Per capirsi, visto che siamo in tema, si pensi allo stralunato Dottor
Stranamore di Kubrick: scienziato atomico arruolato dagli americani, ma con il
braccio pavlovianamente condizionato dalla springtime
hitleriana, che scatta in automatico nel saluto nazista.
Ora, come scoprirà chi avrà la pazienza di seguirci fino in fondo, anche la
destra finian-fumettara è pavloviana: il “Fare Futuro” spesso rischia di
trasformarsi in “Fare Remoto”, come notava Angela Azzaro sul “Fondo Magazine”
di Miro Renzaglia.
Ma torniamo alla “questione mito”.
All’interno della “tentazione fascista”, ma anche comunista ( si pensi
soprattutto alla cinematografia sovietica tra le due guerre), pensare il mito
politico ha una ragion d’essere. Perché il cinema totalitario può tradurlo in
uno strumento di mobilitazione delle masse. E dunque di action. Roba però ideologicamente
esplosiva.
Inoltre il mito è una cosa seria. Leggiamo quel che scriveva Georges Sorel, che
se ne intendeva, in Considerazioni sulla
violenza:
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“I miti debbono essere presi quali mezzi per
operare sul presente: ogni discussione sul modo di applicarli materialmente al
corso della realtà, è priva di significato. Soltanto l’insieme del mito è ciò
che importa; le singole parti non hanno importanza, se non per la luce che
proiettano sui germi di vita, racchiusi in quella costruzione. E’ inutile,
dunque, stare a ragionare sugli eventi che potrà offrire lo svolgersi della
guerra sociale, e sui conflitti decisivi, capaci di dar la vittoria al
proletariato. Anche se i rivoluzionari si fossero ingannati del tutto,
facendosi un quadro immaginario dello sciopero generale, questo quadro potrebbe
aver avuto, nel periodo di preparazione rivoluzionaria, un’efficacia di
prim’ordine, purché avesse compreso pienamente tutte le aspirazioni del
socialismo, e dato all’insieme dei pensieri rivoluzionari una precisione e una
fermezza, che un’altra impostazione non avrebbe potuto fornire”.
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Tradotto: il “mito” è uno strumento d’azione
e non qualcosa da consumare inforcando occhiali 3D e ingurgitando popcorn. Lo
spettatore di “Avatar” al massimo sarà disposto a correre il rischio di
mettersi in coda una seconda volta per tornare a vedere il film…
Ma oggi chi legge più Sorel? Per non parlare di Vico, che nella sua Scienza Nuova, dedica pagine pregnanti
alla componente mitopoietica della cultura umana. Ma oggi chi legge più Vico?
Insomma, il “mito politico” ha alcune precise controindicazioni: intanto quella
di essere totale, se non totalitario. Nonché quella di spingere l’uomo a
bruciarsi nel fuoco dell’azione, costi quel costi. Non si può imbracciare la
bandiera (mitica) dello sciopero generale o delle guerra come “igiene del
mondo” e poi rintanarsi in una multisala. Fascisti e comunisti queste cose le
sapevano: alla teoria deve seguire l’azione. Il che però è molto pericoloso. E
chi desidera chiarimenti in materia, si vada a leggere la ricostruzione di
Peter Viereck, Dai Romantici a Hitler,
dove si spiega per filo e per segno perché il mito politico, collegato o meno a
una qualche metafisica, rischia sempre di trasformarsi in una miscela
esplosiva.
Certo, resta l’umano bisogno di essere qualcosa di più di quel che mangia. E
perciò di “nutrire” anche la propria fantasia. E il cinema in questo ha svolto
un ruolo importante. Nessuno lo nega.
Ma rimane fuorviante voler assegnare a “Avatar” (e al cinema) in un contesto
democratico, divertentistico e relativistico, come quello attuale, un
improbabile ruolo mobilitante, nel senso della voglia di action. Dal momento
che, sociologicamente parlando, come ha notato Luisella Farinotti, studiosa di
storia del cinema, al di là del film proiettato, la multisala ad alta qualità
tecnologica e ricca di servizi collaterali, costituisce per un consumatore
onnivoro e indifferente alla qualità del film proposto, un’ “isola di consumo”.
Altro che l’austero mito soreliano…
In questo senso, conclude la Farinotti,
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“a più di un secolo dalla sua nascita, il
cinema sembra proporre un’esperienza di visione molto simile a quella delle sue
origini: il baraccone da fiera che offriva la nuova meraviglia del cinematografo
insieme ad altre esperienze incredibili, non è molto distante da questa nuova
organizzazione della fruizione affidata allo zapping di visione e consumo” .
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Quanto al relativismo che anima la nostra
cultura, basti un’aurea citazione di Søren Kierkegaard. Il quale aveva
acutamente notato ne Il concetto di angoscia”, che “nessun tempo è stato così
veloce nel costruire i miti intellettuali come il nostro che, volendo
distruggere tutti i miti, ne crea esso stesso di nuovi”. Concetto ribadito da
André Malraux, ne La Speranza: “i miti sui quali viviamo sono contraddittori:
pacifismo e necessità di difesa, organizzazione e miti cristiani, efficienza e
giustizia, e così via”…
Altrimenti detto: il nostro tempo, soddisfa anche troppo la fame di immaginario…
Fino al punto di renderci sazi e inoffensivi come tacchini… Piaccia o meno, ma
questo è il prodotto del mix democrazia-consumismo-relativismo. E chi va a
vedere “Avatar”, perciò, rivela solo voglia di divertirsi. Altro che i Balilla
del XXI secolo…
Qui - ripetiamo - non si nega che il cinema possa svolgere una funzione di tipo
epico-mitico. Ma ciò può avvenire compiutamente solo nell’ambito, di una
concezione totalitaria della politica: dove non ci sia spazio per i popcorn, ma
solo per la spada. Una visione che si ritrova in Guillaume Faye, autore molto
apprezzato negli ambienti neofascisti più scalmanati. Il quale, e qui cade
l’asino, viene spesso citato anche dalla destra educata, “finian-fumettara”.
Che evidentemente non riesce a controllare il suo braccetto, proprio come il
Dottor Stranamore...
Del resto le democrazie hanno sempre guardato, almeno ufficialmente, con
diffidenza al mito. Perché contrastante con una visione della politica come
pacato discorso pubblico.
Perciò delle due l’una: o si accetta, una volta per tutte, la democrazia
postmoderna, dove il mito va a braccetto con i popcorn. Che sarebbe la scelta
intellettualmente più onesta. Oppure si riparte da Sorel. Rinunciando agli
occhiali 3D. Scelta in fondo altrettanto onesta, ma pericolosa per la
democrazia. Perché optando per la mitografia soreliana la “tentazione fascista”
potrebbe sempre riaffacciarsi.
Mentre quel che resta disonesto è continuare a contrabbandare le infiocchettate
pappine di Hollywood come cibo mitopoietico. E solo per poter svolazzare sulla
tavola imbandita della politica. Per farla breve: inneggiare all’ epica di
“Avatar” strizzando l’occhio, per le regionali, all’UdC…
Carlo Gambescia
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