mercoledì 3 febbraio 2010

“Avatar” 
e i Balilla del XXI secolo…

i balilla e avatar


.
Ora basta. E’ veramente stucchevole l’insistenza della destra finian-fumettara sul valore mitico-epico di film come “Il Gladiatore” “Trecento” e ora “Avatar”. Per giunta si vuole affibbiare a tutti gli spettatori, soprattutto se giovani, una presuntiva voglia di miti politici e di conseguente action… Quasi da Balilla - spesso si ammicca - del XXI secolo.
Ma in che modo? Sicuramente sopra le righe, da magliari: costruendo su un prodotto hollywoodiano come “Avatar” una sovrastruttura in plastica culturale, dove un Martin Heidegger mal digerito va a braccetto con i Manga. E dove i giudizi di Quentin Tarantino assurgono a massime platoniche.
Probabilmente sotto la vernice post-moderna affiora a livello inconscio il vecchio discorso del cinema come arma più potente del regime, di mussoliniana memoria. Per capirsi, visto che siamo in tema, si pensi allo stralunato Dottor Stranamore di Kubrick: scienziato atomico arruolato dagli americani, ma con il braccio pavlovianamente condizionato dalla springtime hitleriana, che scatta in automatico nel saluto nazista.
Ora, come scoprirà chi avrà la pazienza di seguirci fino in fondo, anche la destra finian-fumettara è pavloviana: il “Fare Futuro” spesso rischia di trasformarsi in “Fare Remoto”, come notava Angela Azzaro sul “Fondo Magazine” di Miro Renzaglia.

Ma torniamo alla “questione mito”.

All’interno della “tentazione fascista”, ma anche comunista ( si pensi soprattutto alla cinematografia sovietica tra le due guerre), pensare il mito politico ha una ragion d’essere. Perché il cinema totalitario può tradurlo in uno strumento di mobilitazione delle masse. E dunque di action. Roba però ideologicamente esplosiva.
Inoltre il mito è una cosa seria. Leggiamo quel che scriveva Georges Sorel, che se ne intendeva, in Considerazioni sulla violenza:

.
“I miti debbono essere presi quali mezzi per operare sul presente: ogni discussione sul modo di applicarli materialmente al corso della realtà, è priva di significato. Soltanto l’insieme del mito è ciò che importa; le singole parti non hanno importanza, se non per la luce che proiettano sui germi di vita, racchiusi in quella costruzione. E’ inutile, dunque, stare a ragionare sugli eventi che potrà offrire lo svolgersi della guerra sociale, e sui conflitti decisivi, capaci di dar la vittoria al proletariato. Anche se i rivoluzionari si fossero ingannati del tutto, facendosi un quadro immaginario dello sciopero generale, questo quadro potrebbe aver avuto, nel periodo di preparazione rivoluzionaria, un’efficacia di prim’ordine, purché avesse compreso pienamente tutte le aspirazioni del socialismo, e dato all’insieme dei pensieri rivoluzionari una precisione e una fermezza, che un’altra impostazione non avrebbe potuto fornire”.

.

Tradotto: il “mito” è uno strumento d’azione e non qualcosa da consumare inforcando occhiali 3D e ingurgitando popcorn. Lo spettatore di “Avatar” al massimo sarà disposto a correre il rischio di mettersi in coda una seconda volta per tornare a vedere il film…

Ma oggi chi legge più Sorel? Per non parlare di Vico, che nella sua Scienza Nuova, dedica pagine pregnanti alla componente mitopoietica della cultura umana. Ma oggi chi legge più Vico?
Insomma, il “mito politico” ha alcune precise controindicazioni: intanto quella di essere totale, se non totalitario. Nonché quella di spingere l’uomo a bruciarsi nel fuoco dell’azione, costi quel costi. Non si può imbracciare la bandiera (mitica) dello sciopero generale o delle guerra come “igiene del mondo” e poi rintanarsi in una multisala. Fascisti e comunisti queste cose le sapevano: alla teoria deve seguire l’azione. Il che però è molto pericoloso. E chi desidera chiarimenti in materia, si vada a leggere la ricostruzione di Peter Viereck, Dai Romantici a Hitler, dove si spiega per filo e per segno perché il mito politico, collegato o meno a una qualche metafisica, rischia sempre di trasformarsi in una miscela esplosiva.
Certo, resta l’umano bisogno di essere qualcosa di più di quel che mangia. E perciò di “nutrire” anche la propria fantasia. E il cinema in questo ha svolto un ruolo importante. Nessuno lo nega.
Ma rimane fuorviante voler assegnare a “Avatar” (e al cinema) in un contesto democratico, divertentistico e relativistico, come quello attuale, un improbabile ruolo mobilitante, nel senso della voglia di action. Dal momento che, sociologicamente parlando, come ha notato Luisella Farinotti, studiosa di storia del cinema, al di là del film proiettato, la multisala ad alta qualità tecnologica e ricca di servizi collaterali, costituisce per un consumatore onnivoro e indifferente alla qualità del film proposto, un’ “isola di consumo”. Altro che l’austero mito soreliano…

In questo senso, conclude la Farinotti,

.
“a più di un secolo dalla sua nascita, il cinema sembra proporre un’esperienza di visione molto simile a quella delle sue origini: il baraccone da fiera che offriva la nuova meraviglia del cinematografo insieme ad altre esperienze incredibili, non è molto distante da questa nuova organizzazione della fruizione affidata allo zapping di visione e consumo” .

.


Quanto al relativismo che anima la nostra cultura, basti un’aurea citazione di Søren Kierkegaard. Il quale aveva acutamente notato ne Il concetto di angoscia”, che “nessun tempo è stato così veloce nel costruire i miti intellettuali come il nostro che, volendo distruggere tutti i miti, ne crea esso stesso di nuovi”. Concetto ribadito da André Malraux, ne La Speranza: “i miti sui quali viviamo sono contraddittori: pacifismo e necessità di difesa, organizzazione e miti cristiani, efficienza e giustizia, e così via”…

Altrimenti detto: il nostro tempo, soddisfa anche troppo la fame di immaginario… Fino al punto di renderci sazi e inoffensivi come tacchini… Piaccia o meno, ma questo è il prodotto del mix democrazia-consumismo-relativismo. E chi va a vedere “Avatar”, perciò, rivela solo voglia di divertirsi. Altro che i Balilla del XXI secolo…
Qui - ripetiamo - non si nega che il cinema possa svolgere una funzione di tipo epico-mitico. Ma ciò può avvenire compiutamente solo nell’ambito, di una concezione totalitaria della politica: dove non ci sia spazio per i popcorn, ma solo per la spada. Una visione che si ritrova in Guillaume Faye, autore molto apprezzato negli ambienti neofascisti più scalmanati. Il quale, e qui cade l’asino, viene spesso citato anche dalla destra educata, “finian-fumettara”. Che evidentemente non riesce a controllare il suo braccetto, proprio come il Dottor Stranamore...
Del resto le democrazie hanno sempre guardato, almeno ufficialmente, con diffidenza al mito. Perché contrastante con una visione della politica come pacato discorso pubblico.
Perciò delle due l’una: o si accetta, una volta per tutte, la democrazia postmoderna, dove il mito va a braccetto con i popcorn. Che sarebbe la scelta intellettualmente più onesta. Oppure si riparte da Sorel. Rinunciando agli occhiali 3D. Scelta in fondo altrettanto onesta, ma pericolosa per la democrazia. Perché optando per la mitografia soreliana la “tentazione fascista” potrebbe sempre riaffacciarsi.
Mentre quel che resta disonesto è continuare a contrabbandare le infiocchettate pappine di Hollywood come cibo mitopoietico. E solo per poter svolazzare sulla tavola imbandita della politica. Per farla breve: inneggiare all’ epica di “Avatar” strizzando l’occhio, per le regionali, all’UdC… 

Carlo Gambescia

Nessun commento:

Posta un commento