I giovani e la professione più bella del mondo
Piccoli giornalisti crescono?
Provocazione.
Oggi l’unica strada per diventare “giornalisti” famosi, sembra sia quella di
non essere giornalisti… Pare, infatti, prevalere il modello “Le Iene” o
“Striscia la notizia”. E in che cosa consiste? Nel mettere l’aggressività
verbale al servizio dei diritti del cittadino. Ma non sempre, perché più spesso
la si mette al servizio di un pettegolezzo “orientato”. E da chi? Dalla
“notiziabilità” o meno di un fatto, stabilita dai grandi media. I quali
decidono quando sia necessario dare spazio a personaggi come Corona e quando
no… Sulle base, ovviamente, del colore delle braghe del padrone. Ma evitiamo la
dietrologia. Un grande politologo francese, Maurice Duverger, una volta disse,
che i media, era liberano da tutto, eccetto che dal denaro.
Ma allora cosa significa, oggi, essere (buoni) giornalisti? Che cosa conta
veramente? Dal punto di vista “tecnico”, e sorvolando sulla natura del media in
cui si eserciti l’attività, possono essere distinte due scuole: il Passion-Driven Journalism e il Market-Driven Journalism… Tradotto: la
scuola del giornalismo impegnato civilmente, si pensi al “modello Saviano”,
merce sempre più rara; e quella del giornalismo dedito alle banalità, oggi
strabordante, spesso non svolto da professionisti. E dominato dalla
commercializzazione della notizia. Si pensi al “modello Le Iene” .
Da alcuni dati Censis per agli anni Duemila,
sui giovani dai venticinque ai trent’anni frequentanti scuole di giornalismo,
emerge un fatto interessante (http://www.censis.it/277/280/339/430/453/3279/3289/content.asp):
chi vuole abbracciare la professione è mosso nella maggioranza dei casi da
“ragioni vocazionali”: il 63,2% . In questo senso, quello del giornalista,
resta un mestiere che si fa per passione. Infatti la “scelta ragionata”
riguarda solo il 24,1%. Tuttavia il 74,4% desidera ottenere dalla professione
“soddisfazioni personali” Mentre il 56,9 è alla ricerca della “possibilità di
svolgere un ruolo utile per la società” .
Quindi tra coloro che vogliono praticare giornalismo professionalmente due su
tre aspirano “a sistemarsi” in modo soddisfacente, mentre un futuro giornalista
su due vuole “ aiutare il prossimo”. Di qui probabilmente, una volta entrati in
redazione la scelta di praticare la “via di mezzo”: un colpo cerchio (la
carriera) e uno la botte (il prossimo).
Potremmo perciò parlare “tipologicamente” di un giornalista “postmoderno”, tra
l’altro laureato e padrone delle nuove tecniche di comunicazione. Che,
soprattutto nelle nuove generazioni ( i trentenni), proverà a volare alto con
Saviano, per poi - magari non sempre - planare sul pettegolezzo o quasi:
politico, economico, culturale eccetera.
Concludendo: grandi ideali, piccolo cabotaggio. Anche perché il settore è in
crisi, soprattutto quello della carta stampata. E perciò primum vivere.
Carlo Gambescia
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