Il libro della settimana: Stefano
Zamagni, Avarizia, il Mulino 2009, pp. 144, Euro 12,00.
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Ottima
idea, quella della casa editrice il Mulino, di pubblicare una “minicollana” sui
vizi capitali (sette volumetti sette), diretta da Carlo Galli. Sono già usciti Superbia (Laura Bazzicalupo), Gola (Francesca Rigotti), Accidia (Sergio Benvenuto) e ora Avarizia (pp. 144, euro 12, 00), testo
di cui qui ci occuperemo.
Diciamo subito che l’autore, Stefano Zamagni, docente di economia politica, si
è prodotto in una riuscita e gradita invasione di campo. Perché ha scritto un
profilo dell’avarizia più sociologico che economico.
A suo avviso, l’avarizia, di cui traccia un notevole excursus
storico-filosofico, resta legata alla mancanza di relazionalità, o se si
preferisce di fiducia, ricambiata, verso l’altro: concetto sociologico per
eccellenza. L’avaro - di tutti i tempi - è un essere che vive per se stesso.
Che - e qui però fa capolino l’economista - usa la ragione in modo limitato, o
se si vuole incompleto: la rivolge, per così dire, solo sull’arte di far
quattrini su quattrini, cercando di cederne il meno possibile agli altri. Per
l’avaro l’economia, soprattutto quella capitalistica, è il fine e non uno dei
mezzi a disposizione dell’uomo per migliorarsi e, soprattutto, migliorare la
società.
Naturalmente abbiamo semplificato. Ma qual è il rapporto tra economia
contemporanea e avarizia? Quello di aver sopravvalutato il ruolo di
quest’ultima. Scrive Zamagni:
.
“ E’ un fatto che da quando ha iniziato a
prendere forma quel fenomeno di portata epocale che è la globalizzazione, la
finanza non solamente ha via via accresciuto la sua influenza economica, ma ha
progressivamente contribuito a modificare il sistema di valori delle persone e
con esso le loro mappe cognitive. E’ a quest’ultimo aspetto che si fa
riferimento quando, nel linguaggio corrente, si parla di finanziarizzazione
dell’economia, vera e propria ideologia - travestita da presunta scientificità
- secondo cui a partire dall’assunto antropologico dell’ homo oeconomicus , cioè dall’assunto di
comportamento avido, si arriverebbe alla conclusione che tutti i mercati
(inclusi quella finanziari) sono assetti istituzionali in grado di
autoregolarsi e ciò nel duplice senso sia di assetti capaci di darsi da sé le
regole del proprio funzionamento sia di farle rispettare” .
.
E con quei risultati negativi che, ora, sono
sotto gli occhi di tutti. Di qui, secondo Zamagni, la necessità di recuperare
il legame tra democrazia e mercato. E soprattutto di ricondurre un mercato
dominato dall’avidità dell’homo
oeconomicus, nell’alveo della ragionevolezza e della generosità
dell’ homo democraticus (se
ci si passa il latino maccheronico, o quasi). Nel senso di un ritorno all’Adam
Smith, più sociologo che economista, soprattutto quando
.
“insisteva che un ordine sociale
autenticamente liberale ha bisogno non di una ma di due mani per durare nel
tempo: invisibile l’una - quella di cui tutti parlano, anche se spesso a
sproposito… - e visibile l’altra quella dello Stato che deve intervenire in
chiave sussidiaria, come diremo oggi, tutte le volte in cui l’operare della
mano invisibile rischia di condurre verso la monopolizzazione dell’economia e,
più in generale, verso la produzione di effetti perversi” .
.
Non per nulla, Zamagni, da
anni, teorizza la necessità di un’“economia civile”. Per un verso ricostruendo
genealogie intellettuali, che affondano le radici nell’umanesimo civile
italiano, e per l’altro lavorando intorno a un’economia della reciprocità,
capace di assegnare alla qualità della relazione sociologica con l’altro un
“valore” capace di influire sulla scelta economica, di regola, puramente
quantitativa. E dunque tutto il contrario di un’ economia dell’avarizia, che
invece sembra assegnare un ruolo determinante alla sola ricerca individuale del
profitto per il profitto
Ecco perché se qualcosa manca, al pur ricco volume di Zamagni, è un accenno
alle belle pagine di François Perroux, grande economista francese, scomparso
nel 1987. In
particolare quelle sull’ ”avarizia della nazioni”, racchiuse ne L’économie du XXéme siècle (1964). Dove
Perroux criticava un’ economia capitalistica, che proprio nelle nazioni più
progredite, si manifestava come rifiuto, “per avidità”, di comprendere il
valore di sostituire al capitalismo senza freni un capitalismo umanizzato:
welfarista.
Non dimentichiamo che Perroux scriveva queste cose negli anni Sessanta del
Novecento, molto prima delle cosiddetta rivoluzione neo-liberista: in una fase
storica segnata da grandi aperture sociali e ingenti risorse economiche. Eppure
già allora vi erano forti resistenze - alcuni noteranno come sempre… - a un
capitalismo più sociale, non esclusivamente fondato sull’avarizia dell’ homo oeconomicus.
Comunque sia, il libro di Zamagni merita di essere letto e meditato, proprio
per l’ approccio sociologico, non solo all’avarizia, ma all’economia nel suo
insieme: apertura oggi non comune tra gli economisti.
E Perroux, di lassù, avrà certamente gradito.
Carlo Gambescia
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