venerdì 6 ottobre 2006


Prodi sotto  attacco
La duplice opposizione. 



E’ molto facile criticare in modo qualunquistico il governo Prodi, come sta facendo certa destra. Ma in effetti c’è un aspetto che va sottolineato. Mentre il governo Berlusconi era attaccato dal centrosinistra, il governo Prodi è attaccato dal centrodestra e da una parte della sinistra, sia moderata (sindaci, Margherita, democristiani di sinistra), sia radicale (Verdi, neocomunisti, movimenti, si vedano le reazioni agli sgomberi di Roma e in altre città, per non parlare delle critiche alla politica sociale prodiana). Si può così ritenere che il governo Prodi, rispetto a quello Berlusconi sia due volte instabile: rispetto all’opposizione (esterna) di centrodestra e rispetto all’apposizione (interna di centrosinistra). In queste condizioni non può assolutamente andare lontano. Anche perché Prodi non ha alcuna forza politica sulla quale contare, se non un ristretto numero di colonnelli, privi di esercito, a partire da Parisi. Ma questa è politica politicante. Non ci interessa ( o comunque fino a un certo punto…)
Infatti la colpa di come stanno le cose non è solo di Prodi. Il vero problema è che le democrazie rappresentative pluripartiche sono in crisi in tutta Europa. Esclusa ovviamente la Gran Bretagna, tradizionalmente bipartitica. Come al solito la prendiamo da lontano. Ma ne vale la pena.
Il bipartitismo non è certamente la più alta forma di democrazia, ma è sicuramente più stabile ( o meno instabile) del pluripartismo, anche se di coalizione, ad esempio come in Italia. Non vogliamo però qui sciogliere alcun peana in onore del bipartitismo. Anche perché come mostra la letteratura in argomento i partiti democratici tendono poi a dividersi in correnti sulla base delle consuete divisioni (destra, sinistra, centro), oppure intorno a leader interni. Perciò anche nel bipartismo, alla fin fine i “partiti” (divisi in correnti) finiscono per essere almeno sei, se non di più. Pertanto, e può sembrare paradossale, una riforma elettorale maggioritaria, dovrebbe essere collegata a un riforma nello stesso senso dei sistemi elettorali interni dei singoli partiti. Insomma, la stabilità di un sistema politico democratico, richiede metodi di voto capaci di ridurre la democrazia interna alle istituzione e ai partiti. Ci spieghiamo meglio.
Nelle democrazie rappresentative il processo democratico, come è noto, si divide in tre fasi: quella del voto elettorale, quella della discussione parlamentare e quella della decisione politica finale. Ora, di regola, la democrazia rappresentativa per funzionare, richiede che nella fase di discussione come in quella decisionale siano in pochi a discutere e soprattutto decidere: il popolo vota, e dunque esercita la sua sovranità, ma poi le discussioni politico-tecniche, e principalmente le decisioni devono assolutamente essere prese da pochi, decisi e affidabili uomini. In caso contrario: quanto più la fase della discussione risente di pressioni esterne (economiche, sociali, culturali, morali), tanto più i temi affrontati perdono significato e valore primitivi . Fino al punto che la decisione politica finale, finisce per essere una forma di cattivo compromesso tra posizioni completamente diverse, e dunque priva di qualsiasi riferimento con le posizioni iniziali delle diverse fazioni politiche.

Insomma, la democrazia rappresentativa "funziona" solo se si regge sul governo dei "pochi", come accade in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Ovviamente, ciò che può essere funzionale sul piano politico può non esserlo su quello sociologico. Infatti gli effetti di ricaduta sociale delle democrazie rappresentative bipartitiche e decisioniste (come assenza di qualsiasi compromesso, anche cattivo), spesso sono dannosi. Ridurre al solo voto il momento democratico, provoca nell’elettore un crescente disinteresse per la politica, che favorisce il rafforzamento delle cosiddette élite del potere. Inoltre, non è detto che una volta venute meno le pressioni esterne sociali, culturali e morali, non possano continuare a esercitare un ruolo determinante i gruppi di pressione economica, spesso contigui per formazione e frequentazione sociale alle élite politiche. Un ruolo rilevante viene poi giocato dalla élite militare, ovviamente in relazione alle diverse tradizioni nazionali. Di solito, nelle società a sistema politico bipartitico (si pensi in particolare agli Stati Uniti), il predominio delle élite politiche, economiche e militari (segnato dall’approvazione di leggi favorevoli alle classi abbienti) conduce inevitabilmente a grandi sperequazioni e discriminazione sociali. Si pensi, anche in questo caso, alla società statunitense.
Per tornare al governo Prodi, si può ritenere, che all’interno della democrazia rappresentativa, pur nelle sue due forme (pluripartitica e bipartitica), non abbia alcuna alternativa. Se dovesse cadere verrebbe sostituito da un governo di centrodestra o di grande coalizione, dalle stesse caratteristiche. Più o meno. Mentre un eventuale (per quanto difficile) passaggio al bipartitismo (magari rafforzato dal presidenzialismo), rischia di favorire, magari proprio  mettendoli fuori del gioco parlamentare, gli estremismi di piazza.  Quindi  la stabilità sarebbe solo apparente. E solo politica...
Secondo alcuni osservatori,  servirebbero altre forme di democrazia. Ma quali? 

Carlo Gambescia

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