Il libro della settimana. Juan J. Linz, Democrazia e autoritarismo, il Mulino, Bologna 2006, pp. 614, euro 40,00.
https://www.mulino.it/isbn/9788815109941 |
Finalmente una gradita sorpresa editoriale. Parliamo
della raccolta di scritti del politologo Juan J. Linz, ancora fresca stampa,
curata da Marco Tarchi (Democrazia e autoritarismo. Problemi e
sfide tra il XX e il XXI secolo, il Mulino, Bologna 2006, pp. 614, euro
40,00).
Chi scrive, ricorda di aver scoperto tanti anni fa Juan J. Linz, leggendo la sua densa introduzione al celebre libro di Roberto Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, riedito dal Mulino nel 1966, e mai più ristampato (tra l’altro sarebbe interessante scoprire perché…). In quello scritto Linz, notava che Michels, con la “sua figura di uomo politico romantico deluso, di patriota di una patria adottiva, e di scienziato, riflette come poche altre i conflitti di realtà e le contraddizioni che caratterizzano i primi decenni del XX secolo” (p. XXXVIII). Circa trent’anni dopo, tornando sull’argomento, scriverà che il suo interesse, “forse” era dovuto al fatto che anche Michels, come lui, si “collocava nel punto di intersezione di molti problemi e ‘circoli vitali’ ” (si veda l’Introduzione di Tarchi, p. 28).
Linz come Michels? Non proprio. Eppure qualcosa li accomuna. Probabilmente, da un lato, la visione di una scienza politica che per verificare le ipotesi faccia finalmente largo ricorso alla storia e alla comparazione tra regimi, e dall’altro la consapevolezza del ruolo dinamico e sulfureo delle élite politiche. Due affinità alle quali può esserne aggiunta una terza: l’idea che storia e società abbiano matura magmatica. I regimi politici e sociali sarebbero soggetti a continue trasformazioni. Di qui l’ interesse, particolarmente in Linz, per le crisi e le transizioni politiche: dalla democrazia al totalitarismo (e all’autoritarismo), e viceversa: la storia come un immenso e tragico laboratorio. Con tutti i “problemi” e “circoli vitali”, che inevitabilmente sorgono e si intrecciano… Di qui, per affrontarli, quella sua necessaria apertura umana e “metodologica”, da alcuni liquidata come eclettica (come avvenne, puntualmente, anche con Michels).
Del resto la stessa vita di Linz, nato in Germania nel 1926, da padre tedesco e madre spagnola, non assomiglia, come si dice, a una passeggiata. Perde il padre, ancora piccolo. Lascia la moribonda Repubblica di Weimar, per trasferirsi nella Spagna sull’orlo della guerra civile. Dove si laurea in Scienze politiche e Diritto (1947-1948). Ma all’inizio degli anni Cinquanta mette le ali della libertà e vola negli Stati Uniti. Prende il Ph.D in Sociologia alla Columbia University (1959), dove resta nei dieci anni successivi (1960-1968), per poi passare, lo stesso anno, a Yale, dove ancora insegna. Concedendosi però frequenti soggiorni in Europa, soprattutto in Spagna, come in occasione della transizione democratica post-franchista, da autorevole politologo. Nonché poliglotta, e stando ai suoi collaboratori, gran fumatore di “Ducados”… E con un piccolissimo, e ormai giudicato con distacco, peccato di gioventù: un adolescenziale entusiasmo per José Antonio Primo de Rivera.
Ma veniamo al libro.
Va dato atto a Marco Tarchi, politologo di lungo corso, dell’ottima e aggiornata scelta. La raccolta è divisa in tre blocchi tematici: Problemi di teoria politica (pp. 61-203); Problemi dell’autoritarismo (pp. 207-422); Problemi della democrazia (pp. 425- 614). Risulta evidente che si tratta di un grosso e denso volume, di cui non è facile riferire integralmente, nell’esiguo spazio di una recensione giornalistica. Ci limiteremo perciò ad alcune indicazioni selettive.
Si può cominciare a leggerlo dalla seconda parte (Problemi dell’autoritarismo) dove è raccolto il meglio della produzione sul fascismo del Linz “comparativista” : due notevoli studi sul fascismo come fenomeno storico-sociologico e come “latecomer”. Un fascismo “ultimo arrivato” (in senso cronologico-politico), che doveva forzosamente ragionare per “nuove sintesi”, e soprattutto opporsi e distinguersi dalle ideologie precedenti. E che dunque innovava originalmente il dibattito politico e ideologico. Ovviamente semplifichiamo, e soprattutto non assolviamo… Ma ad esempio, secondo Linz, il fascismo italiano, pur restando una dittatura, non va incluso nella categoria del totalitarismo. Lo studioso di Yale parla del fascismo come di un “regime autoritario di mobilitazione in società post-democratiche”. Si dirà, sottigliezze da politologi… Eppure come nota Tarchi, la definizione “ha alienato a Linz le simpatie di alcuni storici, che dell’equazione fascismo-totalitarismo hanno fatto una sorta di dogma più ideologico-politico che scientifico (p. 29, nota 63). Anche italiani.
Quanto alla prima parte (Problemi di teoria politica), si raccomanda in particolare la lettura del saggio sull’Uso religioso della politica e/o l’uso politico della religione (pp. 95-126). Dove Linz, seziona abilmente il rapporto tra politica e religione. Da un lato vi sono le religioni politiche, come quelle rappresentate dal nazionalsocialismo tedesco (ma anche forme pure, teocratiche e cesaro-papistiche, storicamente più rare), e dall’altro la religione politicizzata, come certo cattolicesimo nazionale spagnolo, anni Trenta, di stampo più autoritario che totalitario. Mentre al centro vi è la separazione tra Stato e Chiesa (consensuale e pacifica, oppure conflittuale, come nella Spagna repubblicana pre-guerra civile). Il discorso di Linz è meno astratto di quel che appare. Perché riesce a dimostrare come il separatismo conflittuale (si pensi a quello dei repubblicani spagnoli del 1936), provochi controreazioni altrettanto dure di natura cattolico-nazionale (la guerra civile…). Mentre una saggia separazione consensuale, o comunque un blando autoritarismo, come nell’ultima parte del franchismo, può facilitare il passaggio a forme di democrazia liberale e consensuale. Anche religiosa. Sono argomenti sui quali Zapatero dovrebbe riflettere…
Infine la terza parte (Problemi della democrazia), ospita un magnifico saggio sulla Legittimità democratica e il sistema socioeconomico (pp. 483-539). Il titolo non deve spaventare, perché lo scritto in pratica analizza i gradi di consenso (degli europei) al sistema economico capitalistico. I dati usati da Linz, riguardano sondaggi di opinione che risalgono alla prima metà degli anni Ottanta (1981-1985). Ne viene fuori un quadro sostanzialmente consensuale. Benché Linz, già mostri di intuire, possibili fonti di delegittimazione nell’ascesa di nuovi valori (e movimenti) post-materialisti, e dunque critici del capitalismo. Come poi in parte è avvenuto. L’aspetto interessante è che Linz fa dipendere la legittimità economica da quella politica: dove c’è fiducia nella democrazia, è probabile che presto o tardi fiorisca anche quella nel mercato. Ecco ciò che scrive dei paesi di recente democratizzazione: “La valutazione positiva delle istituzioni democratiche, a prescindere dalla loro capacità di cambiare il sistema socio-economico, può rivelarsi il fattore che consente alla macchina capitalistica di continuare a funzionare e di raggiungere livelli accettabili di rendimento. A sua volta questo, successo legittimerebbe molte delle istituzioni sistemiche (le organizzazioni degli imprenditori, i sindacati), anche se non è scontato che crei nei confronti del sistema capitalistico un clima di legittimazione analogo a quello che si respira nelle prime democrazie dei paesi industriali dell’Occidente” (p. 539).
Ecco, quel “non è scontato”, riassume magnificamente lo spirito della sua opera: rispetto dei fatti e soprattutto del divenire storico, così pieno di sorprese. Ma anche realismo sociologico, come rifiuto di idealizzare la politica, a cominciare dalla figura dell’elettore: “La qualità della classe politica, nota Linz, non è indipendente dalla ‘qualità dell’elettorato’ e si potrebbe stilare un elenco delle caratteristiche negative di quest’ultimo. Non è sempre chiaro se siano i cattivi leader a ‘corrompere’ gli elettori - spesso è così - o se siano questi a perdonare le azioni che vanno a detrimento della qualità della democrazia, quando non si curano di chi li rappresenti e li governi” (p. 613).
Giusto. Spesso la libertà per alcuni è un peso. E questo non è un problema “politologico” ma morale. Tuttavia, si può costringere l’uomo a essere libero? Linz, da studioso delle istituzioni democratiche, risponderebbe di no: perché la democrazia è consenso ma anche rischio.
Proprio come la libertà.
Chi scrive, ricorda di aver scoperto tanti anni fa Juan J. Linz, leggendo la sua densa introduzione al celebre libro di Roberto Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, riedito dal Mulino nel 1966, e mai più ristampato (tra l’altro sarebbe interessante scoprire perché…). In quello scritto Linz, notava che Michels, con la “sua figura di uomo politico romantico deluso, di patriota di una patria adottiva, e di scienziato, riflette come poche altre i conflitti di realtà e le contraddizioni che caratterizzano i primi decenni del XX secolo” (p. XXXVIII). Circa trent’anni dopo, tornando sull’argomento, scriverà che il suo interesse, “forse” era dovuto al fatto che anche Michels, come lui, si “collocava nel punto di intersezione di molti problemi e ‘circoli vitali’ ” (si veda l’Introduzione di Tarchi, p. 28).
Linz come Michels? Non proprio. Eppure qualcosa li accomuna. Probabilmente, da un lato, la visione di una scienza politica che per verificare le ipotesi faccia finalmente largo ricorso alla storia e alla comparazione tra regimi, e dall’altro la consapevolezza del ruolo dinamico e sulfureo delle élite politiche. Due affinità alle quali può esserne aggiunta una terza: l’idea che storia e società abbiano matura magmatica. I regimi politici e sociali sarebbero soggetti a continue trasformazioni. Di qui l’ interesse, particolarmente in Linz, per le crisi e le transizioni politiche: dalla democrazia al totalitarismo (e all’autoritarismo), e viceversa: la storia come un immenso e tragico laboratorio. Con tutti i “problemi” e “circoli vitali”, che inevitabilmente sorgono e si intrecciano… Di qui, per affrontarli, quella sua necessaria apertura umana e “metodologica”, da alcuni liquidata come eclettica (come avvenne, puntualmente, anche con Michels).
Del resto la stessa vita di Linz, nato in Germania nel 1926, da padre tedesco e madre spagnola, non assomiglia, come si dice, a una passeggiata. Perde il padre, ancora piccolo. Lascia la moribonda Repubblica di Weimar, per trasferirsi nella Spagna sull’orlo della guerra civile. Dove si laurea in Scienze politiche e Diritto (1947-1948). Ma all’inizio degli anni Cinquanta mette le ali della libertà e vola negli Stati Uniti. Prende il Ph.D in Sociologia alla Columbia University (1959), dove resta nei dieci anni successivi (1960-1968), per poi passare, lo stesso anno, a Yale, dove ancora insegna. Concedendosi però frequenti soggiorni in Europa, soprattutto in Spagna, come in occasione della transizione democratica post-franchista, da autorevole politologo. Nonché poliglotta, e stando ai suoi collaboratori, gran fumatore di “Ducados”… E con un piccolissimo, e ormai giudicato con distacco, peccato di gioventù: un adolescenziale entusiasmo per José Antonio Primo de Rivera.
Ma veniamo al libro.
Va dato atto a Marco Tarchi, politologo di lungo corso, dell’ottima e aggiornata scelta. La raccolta è divisa in tre blocchi tematici: Problemi di teoria politica (pp. 61-203); Problemi dell’autoritarismo (pp. 207-422); Problemi della democrazia (pp. 425- 614). Risulta evidente che si tratta di un grosso e denso volume, di cui non è facile riferire integralmente, nell’esiguo spazio di una recensione giornalistica. Ci limiteremo perciò ad alcune indicazioni selettive.
Si può cominciare a leggerlo dalla seconda parte (Problemi dell’autoritarismo) dove è raccolto il meglio della produzione sul fascismo del Linz “comparativista” : due notevoli studi sul fascismo come fenomeno storico-sociologico e come “latecomer”. Un fascismo “ultimo arrivato” (in senso cronologico-politico), che doveva forzosamente ragionare per “nuove sintesi”, e soprattutto opporsi e distinguersi dalle ideologie precedenti. E che dunque innovava originalmente il dibattito politico e ideologico. Ovviamente semplifichiamo, e soprattutto non assolviamo… Ma ad esempio, secondo Linz, il fascismo italiano, pur restando una dittatura, non va incluso nella categoria del totalitarismo. Lo studioso di Yale parla del fascismo come di un “regime autoritario di mobilitazione in società post-democratiche”. Si dirà, sottigliezze da politologi… Eppure come nota Tarchi, la definizione “ha alienato a Linz le simpatie di alcuni storici, che dell’equazione fascismo-totalitarismo hanno fatto una sorta di dogma più ideologico-politico che scientifico (p. 29, nota 63). Anche italiani.
Quanto alla prima parte (Problemi di teoria politica), si raccomanda in particolare la lettura del saggio sull’Uso religioso della politica e/o l’uso politico della religione (pp. 95-126). Dove Linz, seziona abilmente il rapporto tra politica e religione. Da un lato vi sono le religioni politiche, come quelle rappresentate dal nazionalsocialismo tedesco (ma anche forme pure, teocratiche e cesaro-papistiche, storicamente più rare), e dall’altro la religione politicizzata, come certo cattolicesimo nazionale spagnolo, anni Trenta, di stampo più autoritario che totalitario. Mentre al centro vi è la separazione tra Stato e Chiesa (consensuale e pacifica, oppure conflittuale, come nella Spagna repubblicana pre-guerra civile). Il discorso di Linz è meno astratto di quel che appare. Perché riesce a dimostrare come il separatismo conflittuale (si pensi a quello dei repubblicani spagnoli del 1936), provochi controreazioni altrettanto dure di natura cattolico-nazionale (la guerra civile…). Mentre una saggia separazione consensuale, o comunque un blando autoritarismo, come nell’ultima parte del franchismo, può facilitare il passaggio a forme di democrazia liberale e consensuale. Anche religiosa. Sono argomenti sui quali Zapatero dovrebbe riflettere…
Infine la terza parte (Problemi della democrazia), ospita un magnifico saggio sulla Legittimità democratica e il sistema socioeconomico (pp. 483-539). Il titolo non deve spaventare, perché lo scritto in pratica analizza i gradi di consenso (degli europei) al sistema economico capitalistico. I dati usati da Linz, riguardano sondaggi di opinione che risalgono alla prima metà degli anni Ottanta (1981-1985). Ne viene fuori un quadro sostanzialmente consensuale. Benché Linz, già mostri di intuire, possibili fonti di delegittimazione nell’ascesa di nuovi valori (e movimenti) post-materialisti, e dunque critici del capitalismo. Come poi in parte è avvenuto. L’aspetto interessante è che Linz fa dipendere la legittimità economica da quella politica: dove c’è fiducia nella democrazia, è probabile che presto o tardi fiorisca anche quella nel mercato. Ecco ciò che scrive dei paesi di recente democratizzazione: “La valutazione positiva delle istituzioni democratiche, a prescindere dalla loro capacità di cambiare il sistema socio-economico, può rivelarsi il fattore che consente alla macchina capitalistica di continuare a funzionare e di raggiungere livelli accettabili di rendimento. A sua volta questo, successo legittimerebbe molte delle istituzioni sistemiche (le organizzazioni degli imprenditori, i sindacati), anche se non è scontato che crei nei confronti del sistema capitalistico un clima di legittimazione analogo a quello che si respira nelle prime democrazie dei paesi industriali dell’Occidente” (p. 539).
Ecco, quel “non è scontato”, riassume magnificamente lo spirito della sua opera: rispetto dei fatti e soprattutto del divenire storico, così pieno di sorprese. Ma anche realismo sociologico, come rifiuto di idealizzare la politica, a cominciare dalla figura dell’elettore: “La qualità della classe politica, nota Linz, non è indipendente dalla ‘qualità dell’elettorato’ e si potrebbe stilare un elenco delle caratteristiche negative di quest’ultimo. Non è sempre chiaro se siano i cattivi leader a ‘corrompere’ gli elettori - spesso è così - o se siano questi a perdonare le azioni che vanno a detrimento della qualità della democrazia, quando non si curano di chi li rappresenti e li governi” (p. 613).
Giusto. Spesso la libertà per alcuni è un peso. E questo non è un problema “politologico” ma morale. Tuttavia, si può costringere l’uomo a essere libero? Linz, da studioso delle istituzioni democratiche, risponderebbe di no: perché la democrazia è consenso ma anche rischio.
Proprio come la libertà.
Carlo Gambescia
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