mercoledì 11 ottobre 2006




Il libro della settimana.: Amartya Sen, Identità e violenza, Editori Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 221, Euro 15,00.

http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=99&task=schedalibro&isbn=9788842085751



Si può “demolire” il libro di un premio Nobel Economia come Amartya Sen? Chi si accinge a scrivere questa recensione, è già assodato, il Nobel non lo vincerà mai… E poi, molto modestamente, ha una formazione sociologica. Pertanto di titoli per incrociare la spada con il celebre economista anglo-indiano ( uno che dal tu a Blair e Clinton), ne avrebbe pochini. Però talvolta non si può farne a meno. Soprattutto quando, un pensatore delude. Infatti il primo Sen, e in particolare l’attento studioso dello sviluppo economico come fenomeno qualitativo (si veda per tutti Risorse, valori, sviluppo (Bollati Boringhieri 1992), meritava pienamente ogni attenzione: una volta letti, si chiudevano i suoi libri, quasi con dispiacere, perché ricchi di stimoli. Dopo il Nobel Economia, conferitogli nel 1998, Sen ha invece subito una metamorfosi. E’ seccante ammetterlo, ma il primo Sen, il creativo studioso di economia, è finito in soffitta, per fare spazio a un secondo Sen: un tuttologo, abile a parlare di tutto senza in realtà dire niente. Il che spiega, soprattutto negli ultimi tre-quattro anni, l’apparizione di una pletora di volumi lontanissimi dai suoi interessi accademici, come ad esempio Libertà individuale come impegno sociale (Editori Laterza 2003), oppure L’altra India: la tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana (Mondadori 2005).
Anche il testo di cui ci occupiamo, Identità e violenza (Editori Laterza 2006, pp. 221), purtroppo non si discosta da questa deriva. Il tema affrontato - quello dell’identità - farebbe tremare le vene dei polsi a qualsiasi sociologo. E invece l’autore, che in modo civettuolo (?), si autodefinisce “filosofo a tempo perso” (p. 20), lo affronta, come usavano dire i nonni, alla “garibaldina”. La sua tesi è semplice se non semplicistica: “Un ruolo centrale nella vita di un essere umano, scrive, è occupato dalle responsabilità legate alle scelte razionali. Per contro, a promuovere la violenza è la coltivazione di un sentimento di inevitabilità riguardo a una qualche presunta identità unica - spesso belligerante - che noi possederemmo e che apparentemente pretende molto da noi (spesso cose del genere più sgradevole). L’imposizione di una presunta identità unica spesso è una componente fondamentale di quell’arte che consiste nel fomentare conflitti settari” (p. IX). Perciò “la speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede[rebbe] in gran parte nella comprensione più chiara della pluralità dell’identità umana e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separazione lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile” (p.X).
In sostanza, per Sen, un cristiano, un musulmano, un indù, un buddista non dovrebbero essere “solamente” cristiani, musulmani, eccetera, ma soprattutto padri di famiglia, lavoratori, tifosi di una squadra sportiva, di una band musicale, hobbysti, membri di una onlus, eccetera. Perché più le varie identità si riducono a una sola, più crescono i rischi della radicalizzazione politica e dunque di una violenza diffusa. Di riflesso, il pericolo di guerre e conflitti sarebbe massimo nelle società totalitarie teocratiche, dove le affiliazione sociali si riducono a una sola (Sen parla di “solitarismo” identitario, termine linguisticamente traballante, come del resto tutta la traduzione del libro).
Ora, la sociologia insegna che la violenza, non dipende dalla quantità di affiliazioni ma dalle attribuzioni valoriale e sociali che la violenza riceve. Tradotto dal sociologhese: dall’importanza che una società conferisce al “valore conflitto”. E ciò implica che il pericolo sarà massimo nelle società in cui si celebra il conflitto in quanto tale, e minima in quelle dove il conflitto viene sublimato, o comunque rimosso culturalmente. E proprio le società moderne, a partire dall’economia, sono altamente conflittuali. Dato che Sen, sembra ignorare. Fermo restando, che il conflitto è presente in misura fisiologica, come del resto la cooperazione, in ogni società.
Ma c’è dell’altro. Sen, come terapia contro il “solitarismo” identitario suggerisce la laicizzazione. Esemplare è la sua posizione verso il confessionalismo religioso scolastico inglese, oggi di ritorno, che teme e riprova. Sentiamolo: “La politica ufficiale di promuovere attivamente le ‘nuove scuole religiose’ appena istituite per i bambini musulmani, induisti e sikh (in aggiunta alle preesistenti scuole cristiane), che è la dimostrazione di questo approccio, non solo è discutibile sotto il profilo educativo, ma incoraggia anche una percezione frammentaria di ciò che è necessario per vivere in una Gran Bretagna ‘desegregata’. Molti di questi nuovi istituti stanno nascendo proprio in un momento in cui il fatto di dare la priorità alla religione rappresenta una delle maggiori fonti di violenza a livello mondiale” (p. 162).
Osservazione che non è del tutto sbagliata. Ma che in Sen sfocia nella teorizzazione di una scuola di Stato, che finalmente metta in grado gli scolari di fede non cristiana di “sviluppare la capacità di ragionare” e decidere se accettare o meno “l’ethos dei padri” (p. 163). Insomma, di saper scegliere fra tradizione e modernità”, sperando, in cuor suo, che i giovani scelgano quest’ultima… Un’opzione che, viste le difficoltà di inserimento non tanto economico quanto di legittimazione sociale (nell’interazione quotidiana faccia a faccia, come per i neri negli Stati Uniti), rischia però di trasformarsi, davanti alle quotidiane umiliazioni, in rabbiosa risposta terroristica. Quel che stupisce è l’ingenuità sociologica di Sen. In particolare il suo credere che moltiplicando le affiliazioni sociali, come per incanto, possano sparire i tutti i problemi legati all’integrazione sociale concreta, quella di tutti giorni. Se non ricordiamo male, uno dei terroristi dell’11 luglio londinese, anche rappresentativo, oltre a essere un insegnante era membro di varie istituzioni sociali. E perciò immune, almeno stando a Sen, da qualsiasi scelta violenta, E invece…
Inoltre, nonostante le critiche alle culture comunitarie. anche Sen finisce per propugnare, la solita pseudocultura unica ( e perciò in certo senso anch’essa identitaria ma livellatrice di tutte le differenze), fondata “sull’impellente necessità di interrogarsi anche sui valori, sull’etica e sul senso di appartenenza che dà forma alla nostra concezione del mondo globale” (p. 188): cultura che dovrebbe scaturire non dall’operato di uno “stato Mondiale” ma dal basso. Ma Sen non spiega come. Resta poi difficile capire come possa conciliarsi l’ etica globale (dal basso) con il confessionalismo “laico” di Stato (dall’alto)…
Evidentemente i problemi sono altri. E forse hanno a che fare, oltre che con la geopolitica, con l’immagine (immagine?) che volente o nolente l’Occidente spesso trasmette di se stesso: gaudente e ricco e poco virtuoso. Ma anche la povertà dei popoli non occidentali, gioca un ruolo fondamentale nei conflitti attuali. Di certo per estirparla non saranno sufficienti la forza pura delle armi o quella di una fittizia etica democratica globale basata sulla “discussione pubblica”, come auspica il Premio Nobel. E neppure la carità pubblica internazionale… Forse potrebbe riuscirvi l’economia di mercato, dal momento, che a detta dello stesso Sen - e qui torna a farsi sentire la concretezza dell’economista - “è impossibile raggiungere la prosperità economica generale senza fare largo uso delle opportunità di scambio e specializzazione offerte dai rapporti di mercato” (p. 139). Ma sulla base di quali valori? Quelli di mercato? Sen tace. E probabilmente fa bene. Perché la cultura di mercato, senza la cornice di una cultura comunitaria, la stessa che Sen critica, rischia di trasformarsi nel fondamentalismo di segno opposto.
E allora ? Il problema, è complesso. Andrebbe individuata una terza via tra Marte e Mercurio... Tra guerra e buoni affari, spesso buoni solo per una sola delle due parti… Ma come? Quel che occorre è un universalismo comunitario, basato sul reciproco rispetto tra le diverse identità. Un universalismo frutto di una millenaria saggezza diffusa ( filosofica, spirituale e religiosa) che non può non avere radici identitarie, almeno per quel che concerne i diversi contesti di origine e sviluppo. Quelle stesse radici che Sen invece vorrebbe estirpare in nome di una modernità assoluta.
E conflittualistica.

Carlo Gambescia

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