Il libro della settimana, John Lukacs, Democrazia e populismo, Longanesi, Milano 2006, pp. 230, Euro 17,60.
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Vi sono libri che vanno assolutamente letti. Perché, anche se magari possono apparire irriverenti, poi si rivelano originali. Democrazia e populismo di John Lukacs (Longanesi, Milano 2006, pp. 230, euro 17,60) appartiene sicuramente a questa categoria. Ma prima vanno dette due parole sull’autore, un vero battitore libero del conservatorismo americano.
Lukacs, nato nel 1924 a
Budapest, ha vissuto intensamente il “secolo breve”. Prima in Ungheria,
sfuggendo per un pelo, lui di madre ebrea e padre borghese e cattolico, al
mortale abbraccio di nazionalsocialisti e comunisti. E poi nel 1946 negli Stati
Uniti, come professore di storia, presso il Chestnut Hill College, dove ha
insegnato fino al 1994. Ha
scritto un ventina di libri e assunto spessissimo posizioni contrarie a quelle
della destra americana, nelle sue varie versioni. Ecco qualche esempio: negli
anni Cinquanta, pur essendo anticomunista e neocittadino americano, critica la
demagogia del senatore McCarthy. Negli anni Sessanta, rifiuta il ribellismo
sociale di Barry Goldwater. Negli anni Ottanta, condanna l’attivismo
iperliberista di Ronald Reagan. E negli anni Novanta e seguenti, quello in
politica estera dei due Bush.
Lukacs non è favorevole alle guerre di conquista, al capitalismo puro, ma non
ama neppure l’assistenzialismo, il libertinismo morale, e detesta
l’individualismo consumistico. E’ cattolico, ma in un celebre libro dedicato ai
pensatori cattolici americani (Catholic Intellectuals and Conservative
Politics in America, 1950-1985, Cornell University Press), lo storico
Patrick Alitt, pur affiancandolo a personaggi del “mainstream conservative
Catholics” come William F. Buckley, John Courtney Murray e Michael Novak, gli
attribuisce due doti in particolare: come intellettuale, una smisurata
indipendenza politica, e come storico, “ uno stile meraviglioso e grande
capacità di penetrazione psicologica”. Lo si potrebbe definire, nel linguaggio
della politica americana, un “paleoconservative”. Un’ etichetta che però Lukacs
rifiuta, preferendo autodefinirsi, tra lo sconcerto della destra politicamente
corretta, “reazionario” e “nemico del progresso”. Comunque sia, gli dobbiamo,
tra gli altri, un bellissimo libro su Churchill, del quale è grande ammiratore
(Churchill. Visionario, storico, statista, Il Corbaccio ). Per capirne di più
forse varrebbe la pena di leggere le sue memorie, Confessions of an
Original Sinner ( Ticknor and Fields), ricche di osservazioni e stimoli
che permettono di scoprire come il “reazionario” Lukacs, sia invece un liberale
alla Tocqueville e all’Ortega: uno strenuo difensore delle istituzioni
liberali, in un’epoca però dominata da masse mediatizzate e inclini più che al
ragionamento alla violenza…
Ma veniamo ora a Democrazia e populismo. Abbiamo osservato che il
libro è originale. Per quale motivo?
Perché va a inserirsi tra libri, apparentemente più ponderosi e diversi, come
quelli di Furet (Il passato di un’ illusione) e Hobsbawm (Il secolo breve),
offrendo un’ interpretazione del Novecento ( ma non solo) che al tempo stesso
integra e innova i testi citati. Secondo Lukacs, dietro l’illusione (Furet) o
la credenza morale nel comunismo (Hobsbawm), vi sarebbe invece stato l’avvento
della democrazia di massa coniugato al rifiuto totale delle istituzioni
liberali. O se si preferisce, un populismo nazionalistico che avrebbe distinto
anche il nazionalsocialismo e il fascismo (seppure Lukacs lo definisca come una
forma di autoritarismo).
Fin qui, si dirà, nulla nuovo. E invece non è così, perché Lukacs, dal momento
che utilizza la categoria “ democrazia di massa”, ricomprende in essa anche le
democrazie odierne. A suo avviso, quanto più le democrazie si piegano ai canoni
psicologici e sociologici di un populismo nazionalistico, che mescola odio e
paura nei riguardi dell’Altro, tanto più rischiano di scivolare nel
totalitarismo, certo non in camicia bruna o rossa, ma altrettanto vischioso,
perché mediatizzato.
E qui l’autore si accanisce particolarmente contro Bush figlio. Lo storico si
fa moralista: “Subito dopo l’attacco contro New York e Washington (con cui
l’Iraq non aveva niente a che fare) il presidente Bush e i suoi consiglieri
scelsero di lanciare una guerra in Iraq con largo anticipo sulle elezioni del
2004, essenzialmente allo scopo di conquistare popolarità. Si tratta di una
novità nella storia americana. Ci sono stati presidenti - da Polk a Wilson e
Roosevelt passando per Lincoln - che hanno voluto la guerra (e tentato di
adescare il nemico a ‘sparare per primo’) perché convinti che fosse
nell’interesse della nazione; ma non allo scopo di accrescere la propria
popolarità. (Neppure Hitler scelse la guerra nel 1939 per accrescere o
rafforzare la sua popolarità presso il popolo tedesco. Niente potrebbe essere
meno vero” (p. 189, nota 3).
Pertanto Lukacs non sbaglia, quando nota che in effetti il vero problema oggi
non sia “rendere il mondo sicuro per la democrazia: quest’infelice idea di un
presidente americano, Wilson”, che fu il primo ad usarla, e ripresa da Bush, ma
quello “di rendere la democrazia sicura per il mondo ; una grande questione che
Tocqueville avrebbe compreso all’istante” (p. 12).
Ecco, potremmo definire questo problema, proprio sulla scia del pensatore
politico francese, come il “problema Tocqueville”, che poi è quello che
affascina Lukacs: come “reintrodurre” il liberalismo nella democrazia di massa?
Dove i messaggi mediatici e gli slogan politici, rapidi, ossessivi e rivolti
verso un Altro visto come potenziale nemico, rischiano di avere la meglio sulle
istituzioni liberali, certo più “lente”, ma ragionevoli e tese alla difesa
delle minoranze. Come fare allora?
Secondo Lukacs, il problema andrebbe risolto puntando su tre fronti: su una
migliore selezione e formazione delle élite, sul rafforzamento dell’autorità
politica, e infine, sulla rinascita della moralità pubblica. Ma lo storico
individua, e per ora si limita a porre, anche un problema fondamentale: quello
di come ricondurre il contemporaneo culto del progresso all’interno di un
sistema di valori, capace di privilegiare la stabilità sociale, rispetto a un
continuo attivismo di cui tuttora non si capiscono finalità e scopi sociali.
A tale proposito merita essere citato un lungo passo, dove Lukacs indica le
future linee di frattura della politica: “In questo libro ho sostenuto che le
vecchie categorie del ‘conservatorismo’ e del ‘liberalismo’ sono divenute quasi
del tutto obsolete. Ma una tendenza è chiara. Quasi ovunque, la ‘sinistra’ ha
perso forza d’attrazione. E’ possibile che in futuro la vera divisione sarà non
tra destra e sinistra, ma tra due specie di destra: tra coloro la cui bussola è
il disprezzo (…), che odiano i liberali più di quanto amino la libertà e coloro
che amano la libertà più di quanto temano i liberali; tra nazionalisti e
patrioti; (…); tra quanti si affidano alla tecnologia e alle macchine e quanti
si affidano alle tradizioni e alle vecchie regole delle decenza umana; tra
coloro che sono favorevoli allo sviluppo e coloro che desiderano proteggere e
conservare la terra: tirando le somme, tra chi non mette in questione il
Progresso e chi invece lo fa”(p. 199).
L’analisi di Lukacs ha una sua forza argomentativa. Il progresso non può essere
assolutizzato a beneficio di masse narcotizzate da consumi crescenti ed
eccessivi, e disposte a subire e il fascino indotto dell’invidia e della forza
bruta. Perché, prima o poi, si rischia di fare i conti, con una crescente
anomia ambientale, sociale e morale. Resta però un dubbio: se le istituzioni
liberali, elitarie per eccellenza (perché nate da e per pochi notabili), siano
effettivamente in grado di governare la democrazia di massa. Anche perché il
Novecento ha mostrato, e dolorosamente, che spesso lo stesso liberalismo
(antidemocratico, o a-democratico), in alcuni occasioni, è venuto a patti se non
con il totalitarismo, almeno con l’autoritarismo, senza per questo riuscire a
fermare la massificazione della società.
Sotto questo aspetto, e malgrado tutto l’acume storico di Lukacs, il “problema
Tocqueville” resta ancora privo soluzione. E chissà se mai ne avrà una.
Carlo Gambescia
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