martedì 4 aprile 2006

I limiti del riformismo di sinistra
Michele Salvati,  
 Dottor  Jekyll e Mister Hide?  


Jekyll salvati


Nel Novecento di vero riformismo di sinistra ne è esistito uno solo, quello socialdemocratico. Segnato da solide tradizioni nazionali di solidarismo pubblico, sindacalismo e cooperazione sociale (come in Inghilterra, Germania, paesi scandinavi), severo antifascismo ma anche altrettanto duro anticomunismo. Distinto da ottime prove di governo, innervate da politiche economiche fondate sulla programmazione, l'alta tassazione dei ceti abbienti, il welfare, la concertazione, e soprattutto una base o rappresentanza sociale diffusa che andava dai ceti operai a quelli medi. In Italia, non è mai esistita una tradizione riformista con queste caratteristiche. Ci sono state correnti di pensiero e figure prestigiose, ma isolate, di estrazione culturale e politica differente (da Turati e Saragat, passando per i liberalsocialisti), ma mai forze politiche riformiste nel senso specifico e forte della grande socialdemocrazia europea.
Questa premessa aiuta a capire i limiti dell'attuale riformismo di sinistra italiano. Che oltre a non vantare le tradizioni politiche e sociali di cui sopra, viene dopo la fine del comunismo novecentesco e dopo la profonda crisi del welfare state (dopo la Thatcher e Reagan). Pertanto si tratta di un riformismo più liberale che socialista, dal momento che non avendo solide tradizioni welfariste, ha sbrigativamente accettato il mercato come unico strumento di produzione e redistribuzione della ricchezza economica e sociale. Per un socialdemocratico vecchio stampo, fatto salvo il capitalismo come unico quadro istituzionale, la sola forma accettabile di economia era, ed è, quella mista (stato + mercato), mentre per un riformista italiano di oggi la sola forma di economia valida è quella pura (o solo di mercato). E quest'ultima scelta è fonte di confusione e contraddizioni politiche.
Un esempio a riguardo è sicuramente rappresentato dagli interventi giornalistici del professor Michele Salvati, economista, collaboratore del "Corriere dell Sera", e direttore della prestigiosa rivista "Stato e Mercato". Un serio studioso, apprezzabile, che tra l'altro scrive molto bene. Che tuttavia pur di riuscire a conciliare riformismo debole (non socialdemocratico) e mercato (forte), cercando per giunta di tenere insieme le diverse anime del centrosinistra, finisce per comportarsi, probabilmente suo malgrado, come il Dottor Jekyll e il Mister Hyde, scaturiti dall'immaginazione di Robert Louis Stevenson
Intervistato dal "manifesto"(31 marzo 2006, p. 13) si comporta come il buon Dottor Jekyll e parla solo di declino italiano, senza accennare alle ricette, se non vagamente in termini di investimenti strutturali. E' noto "il manifesto" ama il castrofismo. E il professore Jekyll-Salvati lo accontenta.
In un articolo sul "Corriere Economia" (3 aprile 2006, p. 11) si comporta invece come il cattivo Mister Hyde. Accenna alla mancata crescita italiana, e ne imputa la causa alla mancata estensione a tutti i lavoratori della flessibilità. Pertanto a suo avviso l'ingiustizia sarebbe nel fatto che i soli a soffrire di un lavoro precario siano solo i giovani e le donne. Mentre giustizia sociale vorrebbe che "questi costi, disagi e sofferenze [siano] ripartiti". Il "Corriere della Sera" ama il "riformismo a senso unico confindustriale" e Mister Hyde-Salvati, dispiace dirlo, accontenta anche Mieli.
Va detto che questa ambiguità, non distingue solo il professor Salvati-Jekyll-Hyde, ma è presente anche nel programma del centrosinistra. Prodi, finora, si è tenuto sul vago. Per non parlare di Margherita e dintorni.
Tuttavia non è possibile andare d'accordo con tutti. La politica è decisione e conflitto. Le socialdemocrazie sceglievano. E, comunque sia, restavano sempre dalla parte, come si diceva, dei "lavoratori".
Ma che riformismo è un riformismo che per un verso è catastrofista, e per l'altro vuole, per così dire, "socializzare" la precarietà? Che insomma risponde al catastrofismo economico col catastrofismo sociale?

La risposta agli (e)lettori. 

Carlo Gambescia

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