I limiti del riformismo di sinistra
Michele Salvati,
Dottor Jekyll e Mister Hide?
Nel Novecento di vero riformismo di sinistra ne è
esistito uno solo, quello socialdemocratico. Segnato da solide tradizioni
nazionali di solidarismo pubblico, sindacalismo e cooperazione sociale (come in
Inghilterra, Germania, paesi scandinavi), severo antifascismo ma anche
altrettanto duro anticomunismo. Distinto da ottime prove di governo, innervate
da politiche economiche fondate sulla programmazione, l'alta tassazione dei
ceti abbienti, il welfare, la concertazione, e soprattutto una base o
rappresentanza sociale diffusa che andava dai ceti operai a quelli medi. In
Italia, non è mai esistita una tradizione riformista con queste
caratteristiche. Ci sono state correnti di pensiero e figure prestigiose, ma
isolate, di estrazione culturale e politica differente (da Turati e Saragat,
passando per i liberalsocialisti), ma mai forze politiche riformiste nel senso
specifico e forte della grande socialdemocrazia europea.
Questa premessa aiuta a capire i limiti dell'attuale
riformismo di sinistra italiano. Che oltre a non vantare le tradizioni
politiche e sociali di cui sopra, viene dopo la fine del comunismo novecentesco
e dopo la profonda crisi del welfare state (dopo la Thatcher e Reagan).
Pertanto si tratta di un riformismo più liberale che socialista, dal momento
che non avendo solide tradizioni welfariste, ha sbrigativamente accettato il
mercato come unico strumento di produzione e redistribuzione della ricchezza
economica e sociale. Per un socialdemocratico vecchio stampo, fatto salvo il
capitalismo come unico quadro istituzionale, la sola forma accettabile di
economia era, ed è, quella mista (stato + mercato), mentre per un riformista
italiano di oggi la sola forma di economia valida è quella pura (o solo di mercato).
E quest'ultima scelta è fonte di confusione e contraddizioni politiche.
Un esempio a riguardo è sicuramente rappresentato dagli
interventi giornalistici del professor Michele Salvati, economista,
collaboratore del "Corriere dell Sera", e direttore della prestigiosa
rivista "Stato e Mercato". Un serio studioso, apprezzabile, che tra
l'altro scrive molto bene. Che tuttavia pur di riuscire a conciliare riformismo
debole (non socialdemocratico) e mercato (forte), cercando per giunta di tenere
insieme le diverse anime del centrosinistra, finisce per comportarsi,
probabilmente suo malgrado, come il Dottor Jekyll e il Mister Hyde, scaturiti
dall'immaginazione di Robert Louis Stevenson
Intervistato dal "manifesto"(31 marzo 2006, p.
13) si comporta come il buon Dottor Jekyll e parla solo di declino italiano,
senza accennare alle ricette, se non vagamente in termini di investimenti
strutturali. E' noto "il manifesto" ama il castrofismo. E il
professore Jekyll-Salvati lo accontenta.
In un articolo sul "Corriere Economia" (3
aprile 2006, p. 11) si comporta invece come il cattivo Mister Hyde. Accenna
alla mancata crescita italiana, e ne imputa la causa alla mancata estensione a
tutti i lavoratori della flessibilità. Pertanto a suo avviso l'ingiustizia
sarebbe nel fatto che i soli a soffrire di un lavoro precario siano solo i
giovani e le donne. Mentre giustizia sociale vorrebbe che "questi costi,
disagi e sofferenze [siano] ripartiti". Il "Corriere della Sera"
ama il "riformismo a senso unico confindustriale" e Mister Hyde-Salvati,
dispiace dirlo, accontenta anche Mieli.
Va detto che questa ambiguità, non distingue solo il
professor Salvati-Jekyll-Hyde, ma è presente anche nel programma del
centrosinistra. Prodi, finora, si è tenuto sul vago. Per non parlare di Margherita
e dintorni.
Tuttavia non è possibile andare d'accordo con tutti. La
politica è decisione e conflitto. Le socialdemocrazie sceglievano. E, comunque
sia, restavano sempre dalla parte, come si diceva, dei "lavoratori".
Ma che riformismo è un riformismo che per un verso è
catastrofista, e per l'altro vuole, per così dire, "socializzare" la
precarietà? Che insomma risponde al catastrofismo economico col catastrofismo
sociale?
La risposta agli (e)lettori.
Carlo Gambescia
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