Il 30 novembre di centocinquant’anni fa nasceva Winston Churchill (1874-1965).
Nel 1874 l’Europa era qualcosa di assolutamente differente rispetto all’Europa del 2024. E questo è un importante elemento storico per capire che genere di uomo politico fu Churchill.
Fino al 1914 l’Europa e in particolare la Gran Bretagna erano allo Zenit. Dopo di che le cose mutarono. Churchill che si era formato politicamente negli anni d’oro dell’Impero britannico, si ritrovò a gestirne tra il 1914 e il 1945 il declino. Nonostante ciò, capì prima di altri il pericolo del totalitarismo e fece del suo meglio per contrastarlo. Il trionfo della liberal-democrazia fu merito del gigantesco riarmo americano, ma soprattutto della capacità di resistenza della Gran Bretagna, che nel 1940 avrebbe potuto arrendersi alla Germania nazista, che si era impadronita di quasi tutta l’Europa libera.
L’uomo che seppe interpretare fino in fondo il ruolo di Katechon fu proprio Churchill. Che, forte della fibra di combattente del popolo britannico, si rifiutò di cedere alle profferte di pace di Hitler, puntando sull’insularità britannica e sulla grandezza del suo impero, fucina comunque di risorse, anche morali. Dalle frontiere occidentali dell’India all’Oceano atlantico, dall’Africa al Mediterraneo, Churchill contrastò, per dirla in termini di teologia politica, la manifestazione del male.
Il realismo politico di Churchill fu di lungo periodo, di larghe prospettive, non legato agli interessi immediati, che se assecondati avrebbero inevitabilmente spinto la Gran Bretagna, tramutata in pensionata di lusso, nelle braccia di Hitler.
Lo statista britannico intuì che il comunismo e il nazionalsocialismo rappresentavano due sfide mortali di civiltà. In una prima fase, grosso modo negli anni Venti, Churchill vide, pragmaticamente, nel fascismo italiano, un movimento politico anticomunista: lo scoglio capace di opporsi all’ondata sovietica. E lo riconobbe anche pubblicamente. Per contro, diffidò sempre di Hitler, e quando intuì che Mussolini sarebbe inevitabilmente caduto nella rete psico-politica del nazionalsocialismo, lo abbandonò al suo destino.
Quanto al comunismo, fino al 1945, Churchill fece buon viso a cattivo gioco. Serviva una armata, non importa se rossa, in grado di contrastare Hitler a Est. E così fu.
Non furono rosei neppure i rapporti con Roosevelt, ma, al di là delle persone, Churchill credeva fermamente nell’unità geopolitica dell’universo anglofono e soprattutto nella capacità reattiva del liberalismo. Un tema al quale dedicò una magnifica opera storica in quattro tomi (Storia dei popoli di lingua inglese). Superiore, per certi aspetti alla pur interessante e premiata, Storia della Seconda guerra mondiale. Opera, quest’ultima, che resta comunque un’originale ricostruzione di prima mano dell’immane conflitto tra libertà e totalitarismo che tra il 1939 e il 1945 incendiò il mondo.
Cosa resta della grande lezione di Churchill? Un uomo che “faceva” e rifletteva sulla storia al tempo stesso? Ciò che noi chiamiamo realismo politico ad quem. Cioè un realismo che non si lascia intrappolare nel gioco degli interessi immediati, come nel caso del realismo a quo, a breve termine: quello per capirsi (cosa che fortunatamente non fu) della resa a Hitler per salvare il salvabile. Pensiamo invece a un realismo che, senza disdegnare gli interessi, collega la dinamica degli interessi ai valori di lunga durata, come nel caso della difesa della civiltà occidentale aggredita da coloro che Churchill liquidò giustamente come “gangster”: Hitler e Mussolini. E ai quali si oppose, in quell’estate del 1940, con tutte le sue forze, da solo, fino alla discesa in campo degli Stati Uniti (*).
Oggi qual è il nemico principale dell’Occidente? Come allora, il totalitarismo. Oggi però è di moda parlare, a proposito di Cina e Russia, di autocrazia, ma per dirla alla buona se non è zuppa e pan bagnato. Non si vede però in giro un altro Churchill. Oppure, non lo si vuole vedere.
Vladimir Zelenzky, che avrebbe potuto fuggire al primo rumore dei cingoli russi, accolto a braccia aperte dagli americani ( e con un sospiro di sollievo), è invece finora rimasto coraggiosamente al suo posto. Ha preferito la vita dura del combattente. La fermezza di quest’uomo, pur considerate le differenze storiche e di formazione, non ricorda forse quella di Churchill? .
Riteniamo di sì. Perché nell’ uomo politico, anzi di stato, coragggio e risolutezza sono tutto. Però, come dicevamo, si distoglie lo sguardo da Zelensky. O peggio ancora si accetta e rilancia, come fu per Churchill quando si sottrasse all’abbraccio mortale di Hitler, la versione del nemico: l’immagine dell’ubriacone, del fanfarone e del corrotto. Questo fu Churchill per nazisti e fascisti. Questo è Zelensky per russi e filorussi.
In realtà, chiunque oggi celebri Churchill non può non onorare Zelensky. Anzi, deve. Addirittura? Certo. Solo così si può provare di non essere dalla parte del nemico. Ieri Hitler, oggi Putin. Anche qui, fatte le debite differenze storico-culturali. Benché, se ci si perdona l’espressione, sempre di due mascalzoni si tratta.
Carlo Gambescia
(*) Sui due realismi si veda Carlo Gambescia, Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni Il Foglio. Piombino (LI), 2019, pp. 23-31.
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