C’è una tesi accettata dai trumpiani, e che gira, perfino tra gli oppositori e gli sconfitti (si veda ad esempio l’intervista a Nadia Urbinati su “l’Unità” di oggi): che la vittoria di Trump sia legata a un malessere sociale oggettivo, che il miliardario ha saputo intercettare, eccetera, eccetera. In sintesi: Trump passa, la malattia liberal-capitalista resta.
Ora, la bontà o meno della tesi del recidere l’albero capitalistico dalle radici, degli antitrumpiani di sinistra, non ci interessa. Almeno qui. Si rifletta su un punto però: come per le sofferenze mentali, le sofferenze sociali a meno non siano evidenziate da fatti oggettivi, sotto gli occhi di tutti, e sottolineiamo tutti, non sono facilmente diagnosticabili. Di conseguenza tra la realtà e l’immaginazione della realtà, cioè la sua razionalizzazione-giustificazione politica, si registra uno spazio enorme.
Detto alla buona: ognuno vede la realtà a suo modo. Ad esempio, tra la fame irlandese degli anni Quaranta dell’Ottocento, e chi oggi frequenti i Centri per l’impiego o sfogli un giornale, anche digitale, in cerca di lavoro, c’è una distanza siderale. Però certi osservatori, per ragioni di parte tendono a mettere sullo stesso piano il giornaliero irlandese senza terra e l’addetto alle vendite disoccupato. E qui si pensi ai libri mitologizzanti la povertà di Piketty. Come nel caso della Urbinati, anche Piketty, disprezza il liberalismo, e vede in Trump l’ ennesimo generale della guardia bianca capitalista.
Ci interessa invece un altro aspetto che va a collegarsi con il concetto, ispirato da Hannah Arendt, di banalità del male.
Per tornare a Trump: chiunque conosca la sua biografia, sa benissimo di che pasta è fatto, una specie di gangster politico, che non uccide, ma che, come nell’assalto a Capitol Hill, sarebbe comunque disposto a passare all’atto.
L’antropologia culturale di Trump è l’esatto contrario dell’antropologia liberale, ad esempio di un Reagan o di un Roosevelt, che hanno comunque usato la violenza, ma non contro la democrazia liberale. Reagan ordinò un attacco aereo contro il dittatore Gheddafi, Roosevelt si oppose vittoriosamente al nazifascismo bombardando a tappeto dal cielo.
Che poi Reagan e Trump siano stati oggetto di attentati, è cosa che negli Stati Uniti fa parte dei rischi del mestiere di presidente, rischi che accomunano, diciamo, buoni e cattivi. Ma questa è un’altra storia.
Il problema è che coloro che lo hanno votato giudicano il comportamento anti-istituzionale di Trump, come qualcosa di perfettamente normale. Non degno di nessuna riflessione. Si comportano come l’ Adolf Eichmann, studiato dalla Arendt: che non era uno stupido, come non sono stupidi coloro che votano Trump, ma era e sono semplicemente soggetti sociali privi di qualsiasi idea. Come la maggior parte delle persone comuni. Cosa che in sè non è una colpa.
Però, ecco il punto, ne fa individui predisposti a trasformarsi negli strumenti, quando la storia ne sforna uno, di soggetti potenzialmente eversori dell’ordine politico. Cosa che il liberalismo, una volta istituzionalizzato, rende più semplice proprio perché tale.
In questo consiste la tentazione totalitaria – o se si preferisce fascista – che può trasformare un uomo, scollegato dalla realtà e dalla responsabilità, privo idee, nella rotellina di un ingranaggio che porta a privilegiare la normalità di ciò che fa ogni giorno, anche al proprio tavolo di lavoro, un vivere normale fatto di statistiche, promozioni, pratiche, e assalti a Capitol Hill (*).
Si può evitare? No, l’uomo è sempre a rischio. Si può però mitigare. Di qui l’importanza di élite liberali, capaci di vegliare e sorvegliare, perché ciò non accada. Tuttavia per il liberalismo, proprio perché tale, come detto, ciò è difficilissimo. La tirannia democratica come ben vide Tocqueville, della maggioranza delle teste vuote è sempre in agguato. Ma lasciamo da parte, almeno per oggi, una questione, quella del rapporto tra liberalismo e democrazia, di non facile soluzione in una democrazia di massa.
Concentriamoci invece sulla banalità del male. Citiamo un altro fatto interessante, che non riguarda gli Stati Uniti di Trump, ma l’Italia di Giorgia Meloni.
Matteo Piantedosi, il suo Ministro dell’Interno, come giustifica la deportazione dei migranti? Si legga qui, si tratta di una dichiarazione che risale a ieri.
“Si è detto: come mai l’Albania? Io ricordo che il regolamento europeo (sulle nuove procedure di frontiera nell’ambito del Patto su migrazione ed asilo) ha assegnato all’Italia, in quanto Paese di frontiera, l’obiettivo di realizzare al 2026 più di 8mila posti disponibili per il trattenimento/accoglienza di migranti. Dobbiamo quindi predisporci per realizzarli” (**).
Qui non si tratta di tagli al bilancio, più o meno opinabili, ma
della deportazione di esseri umani, fatto che passa in seconda linea,
rispetto alla delega, in termini di mancanza di qualsiasi senso di
responsabilità, a un iter burocratico, dietro il quale si nascondono
il Ministro Piantedosi e coloro che lo hanno votato e scelto, come
pure accade agli elettori di Trump quando votano un soggetto
potenzialmente eversore del garantismo liberale. Probabilmente è in questo elemento eversore che consiste il "legame strategico" con gli Stati Uniti, rivendicato da Giorgia Meloni, nel congratularsi con Trump. L'esatto contrario dell'Atlantismo liberale.
Altra conferma, scegliendo una chiave letteraria, che il sonno della ragione genera mostri.
Carlo Gambescia
(*) Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli 2003, pp. 288-292 ( nell’appendice sulle polemiche successive all’uscita del libro).
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