Ci ha incuriosito una nota Adnkronos sul ritorno di Dostoevskij in libreria dopo l’invasione russa dell’Ucraina . Ovviamente, oltre a Dostoevskij si vendono altri scrittori russi e opere storiche. Per capire meglio la cultura russa, si suppone. E soprattutto, come si legge, per avere un’informazione “certificata dai libri”. Un’informazione al momento, in particolare sui social, drogata dalle fake news sul conflitto (*).
Intanto, si potrebbero fare due riflessioni.
Per un verso, sull’approccio illuminista e liberale dell’Occidente alla cultura come strumento (einaudiano) del “conoscere per deliberare”, in teoria, si dice, alla portata di tutti, dal momento che, come alcuni ripetono, “basta volere”.
Per altro verso, su Dostoevskij, scrittore grande ma difficile. Certamente non alla portata di tutti. Quindi non “basta volere”, non è sufficiente leggere: occorre capirlo, e per capire Dostoevskij serve un’istruzione superiore. E soprattutto, piaccia o meno, una forma mentis elitaria.
Le due questioni, appena ricordate, si potrebbero però unificare così: la cultura russa incarnata dal grande scrittore ha natura tragica. L’esatto contrario dell’ Occidente, che, a certo punto del suo sviluppo intellettuale e politico, per compiacere le masse, ha rimosso il tragico, sostituendogli da un lato il piacevole, il gradevole, il sereno, dall’altro il crudele, il sinistro, il violento.
Praz, Mosse, ma anche Croce e altri, ne ravvisano le radici nella sbornia tardo romantica, mai smaltita, come provano tuttora musica, arte, cinema e letteratura imbevute di cinismo, antieroi, vampiri e pagliacci che ridono di tutto.
Allora si pensi alla reazione del lettore medio occidentale, che della cultura russa non sa nulla, e che corre in libreria sperando di trovare in Dostoevskij il truculento, oppure il piacevole… Dopo poche pagine introspettive, di un’ introspezione che arriva fino al midollo di un dio imperscrutabile, di cui gli occidentali hanno perduto memoria, cala la palpebra. Romanzi come I fratelli Karamazov e Delitto e castigo non possono non annoiare il lettore medio della Elena Ferrante e di qualche romanziere americano che osserva il proprio ombelico puritano maledicendolo e copulando.
Il lettore vuole intrattenimento e basta. Passare il tempo. E se proprio desidera arrivare fino alle ultime pagine per deliberare, come ad esempio davanti a un saggio storico sulle relazioni tra russi e ucraini dalla notte dei tempi, si pone come un arbitro davanti al Var. Niente sfumature, solo sciabolate. Insomma, decisioni nette.
Per contro, quando per forza delle cose le decisioni nette non possono essere prese, allora il lettore medio sprofonda nel dibattito dopopartita, senza fine, all’insegna del né vero né falso. Insomma, né vincitori né vinti… Tutto è possibile. Quindi indeterminato.
Ci si perdoni le metafore calcistiche… Nessuno è perfetto.
Però, riprendendo un’altra metafora, quella iniziale dell’ informazione “certificata”, si può arrivare alla conclusione, che di questi tempi, per la gente comune, ogni medico ha la sua diagnosi, sicché un certificato vale l’altro.
Quindi non si crede più a niente, però si continua a vivere, tranquilli, nel culto, perfino pubblico, “del conoscere per deliberare”. Principio, assolutamente corretto, che però riguarda pochi. Coloro che per formazione e cultura sarebbero in grado di conoscere e deliberare.
Per quale ragione il condizionale? Perché la ratio illuminista e liberale ha subito un processo di degradazione democratica. Del resto inevitabile, come intuì Tocqueville. E politici e cittadini, specie dopo l’ascesa dei populismi di fine secolo, si somigliano e “si pigliano”. Purtroppo.
Ecco la vera tragedia dell’Occidente, tra l’altro ben intuita da Dostoevskij. Un Occidente che ha lo strumento per deliberare, la ragione, che però quando diventa di tutti, si degrada ad abitudine sofistica di massa. A mitologia vestita da ragion storica e sociale, perfino psicologica. Che si nutre di argomenti capziosi e fallaci che si rivolgono contro la ragione stessa, quella buona. Che dorme, magari grazie all’uso collettivo di psicofarmaci.
Si prenda ad esempio il tema della guerra. Le masse occidentali non ne vogliono sentir parlare. Come diceva ieri un nostro acuto lettore, in Italia la gente comune si augura addirittura che Kiev cada presto, per “farla finita” per tornare alla normalità. La gente, ancora non del tutto uscita da due anni di segregazione sociale, è affamata di normalità. Così si sbuffa: “ Ora, anche la guerra in Ucraina!”. “Morire per Kiev? Mai”. Precisando subito: “Come per ogni altra guerra”.
A che serve perciò conoscere i torti e le ragioni se già si è deliberato, a buon mercato, che la guerra è inutile? Al massimo per scoprire l’assassino, come davanti a un libro giallo…
A che serve leggere Dostoevskij se pregiudizialmente si rifiuta la guerra e con la guerra la inestirpabile tragicità sociologica insita nell’ uomo quando entra in relazione con i suoi simili ?
Tolstoj – è vero – si tramutò in pacifista, però dopo aver immolato all’imparziale dio della guerra e della pace, come pure agli dei del caso e del necessità. Dostoevskij – è altrettanto vero – non rinunciò mai all’idea di riforma interiore, bellissima ma per pochi veri eletti.
Ma quando tuona il cannone, si può parlare di riforma interiore? E soprattutto a uomini e donne che fanno finta di non udirlo? Oppure che sperano, correndo spericolati sui monopattini urbani, che smetta presto, come per incanto, senza alcun intervento umano?
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Non sono consentiti nuovi commenti.