giovedì 31 marzo 2016

Perché gli italiani odiano Renzi



Se volete capire le ragioni dell’odio verso Renzi di larga parte dell’opinione pubblica ai vari livelli, a cominciare dai social network,  consigliamo di osservare attentamente la foto sopra.
Siamo davanti al ritratto della modernità, attenzione,  di una modernità che scoppia di salute: la sfida dei grattacieli, quindi la modernità verticale; lo jogging, il rito del buon esercizio fisico, altra celebrazione della modernità, come dire, orizzontale, on the road; Chicago,  metropoli degli Stati Uniti, nazione  culla ed emblema della modernità capitalistica, verticale e orizzontale (1).
Chiaro, no?  Non si digerisce la  straripante  modernità di Renzi.  Del resto,  parliamo dell'Italia:  nazione dove tuttora si idolatrano Pasolini e Berlinguer (2).  Certo, per  caratteristiche politiche, il Presidente del Consiglio  resta  un leader italiano:  semplificando,  che "inciucia", strizza l’occhio, si atteggia a furbetto,  eccetera.  Però - ecco il punto - Renzi ha sposato la causa della modernità:  consumi,  crescita economica, ottimismo, meritocrazia, pragmatismo, voglia di fare e di cambiare il mondo. Il che spiega la simpatia  (ricambiata) di Sergio Marchionne nei suoi riguardi. Una specie di pietra tombale per gli antimoderni d'Italia...  Inoltre, a  riprova di quanto appena detto, basta leggere i commenti sotto la  foto:   tutti all’insegna di  un collettivo  antimodernismo piagnone. Roba da brividi.
Il problema italiano -  questione che  solca tutto il Novecento -  è  di non aver mai accettato la modernità. C’è veramente di che inorridire, quando si rileggono  le polemiche Strapaese-Stracittà,  le critiche populiste  al decollo economico degli anni Sessanta  e   il successivo  distillato di  odio verso la televisione commerciale.
Per fare solo un esempio, banalissimo:  che cosa si rimprovera a Renzi?  Di aver partecipato da giovane  a una trasmissione condotta da Mike Bongiorno. Non sia mai...  
Tuttavia un fenomeno come l’antimodernismo, che viene da lontano ( di derivazione clericale,  prolungatosi nel fascismo e  nel  consociativismo culturale catto-comunista)  non può essere contrastato da un uomo solo comando. Non basta la bacchetta magica per cambiare la mentalità arcaicizzante di larga parte degli italiani.  Al riguardo,  le parabole di  Craxi e Berlusconi, due modernizzatori (comunque la si pensi),  potrebbero  essere istruttive. Occorre perciò  una nuova classe politica determinata a modernizzare il Paese. Che non si forma in un giorno. Quindi, anche Renzi potrebbe fallire, come detto, per limiti politici (resta comunque un uomo di sinistra), ma anche per il  clima ostile che circonda il suo governo, nonché per la disastrosa evoluzione del quadro politico internazionale.   
Del resto, tre sole rondini, magari  due, pure azzoppate (Craxi, Berlusconi),  e un rondinotto  (Renzi), in quarant’anni non possono fare primavera…  Possono però  indicare la strada.  O no?

Carlo Gambescia                      
        

        

(2) Non è elegante autocitarsi, però sull’asse culturale  Pasolini- Berlinguer  si veda il mio Sociologi per caso, Edizioni Il Foglio 2016, cap. IX. 

mercoledì 30 marzo 2016

Caso Regeni, Manconi e i “nazifascisti” egiziani
Come non  si difende il regno dei fini



La sinistra  si è buttata a pesce sulla tragica vicenda di Giulio Regeni.  Vuole, declamandolo ai quattro venti,  "la verità".  Sarebbe interessante chiedere a Luigi Manconi,  sempre  in prima fila quando si tratta di difendere i diritti violati, dove fosse quando i diritti venivano calpestati in Unione Sovietica e Cambogia.  A scrivere articoli per "Lotta Continua".  Questo però  è gossip politico. Robaccia  da “Libero” e “Giornale”.  Il discorsetto andrebbe esteso anche ad Amnesty, da sempre spostata a sinistra ( i suoi  primi  rapporti sull'Unione Sovietica, risalgono agli anni Ottanta del secolo scorso...).  Ma, per ora, lasciamo stare.  
Ieri parlavano della necessaria difesa del kantiano  regno dei fini, quale patrimonio etico-politico dell’Occidente euro-americano (*). Qualche lettore potrebbe però chiedersi: che cosa c’è di più elevato  della battaglia per difendere i diritti di libertà calpestati di Giulio Regeni? E infatti, nessuno vieta a  Manconi di dire la sua, come Senatore della Repubblica e di attivarsi, come ieri è avvenuto, quale  Presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani.   
Il punto è un altro. E riguarda gli errori della politica.  Il Governo Renzi avrebbe dovuto prevenire il polverone mediatico-giudiziario, intorno alla morte di Regeni,  imponendo all’Egitto, per vie informali (imparando da Cia e Mossad), di  fornire una versione dei fatti  se non autentica almeno più attendibile di quelle finora offerte. E soprattutto nomi e cognomi dei colpevoli. O comunque di realistici capri espiatori. Qualcuno, amante dell’etica dei principi,  dirà, ma allora la verità assoluta? Non è di questo mondo. Lo sanno tutti, anche quelli come Manconi che ci marciano. 
Adesso invece il caso è esploso, assumendo rilievo politico. Il rischio è  di  screditare un alleato prezioso nella  battaglia in  prima linea - che noi ci guardiamo bene dall’intraprendere -  contro il Califfato.  Già si parla  di metodi di tortura  nazifascisti... La frase  sembra essere della madre di Giulio Regeni,  per carità,  distrutta dal dolore per la gravissima perdita.  Ma serve ottimamente, se ripresa e rilanciata (come sarà),  per confondere,  le acque politiche e - siamo in guerra - favorire la quinta colonna:  “Non sia mai, noi alleati dei nazifascisti egiziani…”. 
Dicevamo del regno dei fini… La  libertà di  critica  di  Manconi  - libertà della quale egli avrebbe privato gli italiani se quarant’anni fa  avesse preso il potere insieme ai suoi sodali politici -   è parte integrante del regno dei fini.   Però ricordare i natali politici del Senatore,  ripetiamo,  è robaccia da “Libero” e “Giornale”, di cattivo gusto,  saldi di magazzino.  
Insomma,  il regno dei fini è  un  lusso etico, che solo in Occidente, e giustamente, possiamo permetterci. Qualcosa di cui,  come scrivevo ieri,  dobbiamo andar  fieri. Tuttavia, se dovesse  vincere il Califfato, il regno dei fini farebbe  la fine dei libri bruciati dai nazisti, quelli veri.  
Pertanto la scelta, da subito,  doveva essere tra "la verità"  sul caso Regeni e l’indebolimento  di un importante alleato politico.  Si chiama etica della responsabilità. E su di essa l’Occidente  ha potuto edificare il suo splendido  regno dei fini.  


Carlo Gambescia     

martedì 29 marzo 2016

 Denso  articolo di Giuliano Compagno
 Male ignorante  o banalità del male... 



Giuliano  Compagno è  scrittore raffinato e complesso. Diremmo,  una delle poche voci,  che pur avendo  lontane radici in  un  mondo culturale oggi  fantasmatico - quello dei Veneziani, dei Buttafuoco, personaggi che si straparlano addosso, come se imperasse ancora Almirante I - riesce a suscitare nel lettore, anche il più smaliziato,  l'emozione dell'intelligenza al lavoro.  
Non è facile seguire fino in fondo i  suoi  sillogismi. Compagno vola alto, seziona l’anima umana con la precisione del chirurgo e la pietà dello scrittore post-romantico. Da ultimo, a proposito di stragi islamiste, delitti urbani, e vittime collaterali del turismo di  massa, egli ha coniato , trafiggendo nell'ordine il nemico esterno ed interno,  il concetto di “male ignorante”:  

Questa lotteria della morte appare infinitamente meno vera rispetto a un tempo in cui il male attivava una relazione con chi lo avvertiva se non, addirittura, con chi lo aveva subito. Era una parte minima della vita. Tant’è che, se i loro odierni autori fossero in grado di percepire l’ineffettualità di quel che combinano, forse smetterebbero. Ma il male ignorante è davvero una brutta bestia. Alcuni auspicano che gli si risponda con la medesima forza, cieca. Altri non sanno dove andare a parare. Probabilmente una risposta reale sarebbe ora di darla. Non sarà la guerra, non l’è mai stata. Forse sarebbe un’azione, una decisione vera. Tanto forte a annientare il niente. Si può? (*) 
           
Un passo indietro. La signora Arendt, superbamente, parla  di banalità del male:  di un male che si fa routine, nutrito di ordinaria  consapevolezza professionale,  che tuttavia, in qualche misura, continua a conservare un fine distinto dai mezzi.  Si scivola nella recita di  un copione sociale. Per contro, secondo Compagno,  il  “male ignorante”  è il nulla che si affanna, insensatamente,  ad abbattersi sul nulla: mezzi su mezzi. Non c'è copione.  Manca il fine, anche se c'è lo scopo come vedremo più avanti.  Eppure, il sociologo, non può accontentarsi di registrare. Compagno parla  di “un’azione, una decisione vera”,  in grado “di annientare il niente”, ma  dubitando, crediamo di intuire, anche di questa possibilità.  
Che fare allora? Dobbiamo riscoprire i fini.  Ma come? La banalità del male, secondo  Hannah  Arendt, era il  frutto avvelenato  di una società che scorgeva nel male  un mezzo per giungere al bene: il fine.   Il male ignorante è solo questione di mezzi, non c’è alcun fine.  Ovvero,  solo scopi distruttivi, ai quali - ecco il punto -  vanno opposti  i  fini, ma come  qualcosa di più elevato.  Si pensi alla distruttiva sfida hitleriana. Si vinse ricorrendo - nessuna vergogna nel riconoscerlo -  a un mix di bombe e di etica kantiana,  quale regno dei fini, ovvero di un' etica  che celebrava  e può  tornare a celebrare la libertà umana, come  irrinunciabile conquista.  Certo, con tutte le sue controindicazioni filosofiche e sociologiche. Ma altro non c'era e non c'è, almeno in questo mondo.  Giustissimo,  il male, anche quello praticato dalle cosiddette forze del bene, si sporcò le mani, si banalizzò  (Dresda, docet, per non ricordare di peggio...).  Ma c'era un fine, non uno scopo. Insomma, ripetiamo,  non l'insensata distruzione per la distruzione perseguita dal  male ignorante. 
 "Un’azione, una decisione vera"  può acquisire senso solo attraverso il   recupero dell' etica della libertà, intesa nel suo senso più alto. Si chiama battaglia di civiltà (liberale): parola grossa e spesso sporcata.  Che può però aiutarci a battere il  nemico interno (il nichilismo) e al tempo stesso riconquistare la certezza di essere dalla parte giusta. E così  fare guerra al nemico esterno (l'islamismo totalitario). Come? Entrando nel  regno del male necessario. L'insensatezza del "male ignorante", lasciamola a un Papa, che è tutto  fuorché liberale. 
Si rischia la  deriva della banalizzazione? Forse, anticipata, per farla breve,  dai volgari titoli, come da copione,  del "Giornale" e di  "Libero"?  Sì.   Però, ecco il punto che ci sta a cuore,  la scelta sociologica è tra un rischio, la  banalità del male , e una realtà,  il male ignorante.  Tertium non datur.  O di qua o di là.  
                                                                                                                             Carlo Gambescia      


domenica 27 marzo 2016

sabato 26 marzo 2016

 Aritanga, presunto  mancato gettito  di  circa 25 miliardi
Terrorismo fiscale




Ci risiamo,  nuovo  atto di terrorismo fiscale: secondo il Ministero del Lavoro in Italia si avrebbero quasi due milioni di lavoratori in nero,  per un mancato gettito presuntivo,  tra contributi Inps, Inail e  Imposta sul Reddito,  di  circa 25 miliardi (*).
Il campione di analisi,  200 mila imprese su 6 milioni, è così ristretto, dal punto di vista di qualsiasi estrapolazione statistica, da giustificare il titolo  del nostro post: terrorismo fiscale (e contributivo). La tecnica è facile, si prende un campione a casaccio,  e si estende il risultato altrettanto bislacco,  a tutte le imprese.  Gli scopi sono due:  uno, criminalizzare ingiustamente gli evasori, in un Paese dove la pressione fiscale è giunta a livelli insopportabili; due, far passare un messaggio caro a tutti i  socialismi welfaristi:  se tutti pagassero  le  tasse la pressione fiscale diminuirebbe…  
Una grossa stupidaggine. Ovviamente,  non siamo specialisti.  Si tratta solo di comune buon senso. Se la pressione fiscale è un rapporto tra  il gettito fiscale e  Pil, allora  all’aumentare del Pil complessivo (inclusivo dei redditi e contributi evasi),  non può non aumentare anche il gettito fiscale complessivo ( come effetto di ricaduta). Perciò in Italia, se tutti pagassero le tasse, la pressione fiscale totale, sul piano nominale (delle cifre rappresentate dal numeratore e denominatore, perché di una frazione si tratta...), crescerebbe, mentre su quello del rapporto ( tra numeratore e denominatore) resterebbe costante.  Per fare un esempio, sarebbe come spostare durante una gara  la linea del traguardo sempre più avanti. Detto altrimenti: a torta più grande, fette più grandi per il fisco. E così via.
Ma non è tutto. Ciò significa che  l’idea-forza che piace tanto al welfarismo catto-social-fascista,  quella “del pagare tutti per pagare meno”,  non riguarda la  pressione fiscale in sé,  che  nella migliore delle ipotesi, ripetiamo,  potrebbe restare costante ( torta più grande, fette più grandi)  ma  la redistribuzione attraverso la manipolazione delle aliquote fiscali. Un fatto politico, non economico: non spontaneo ma  istituzionale.  E, cosa importante, successivo al recupero dell’evasione fiscale e della conseguente crescita,  più nominale che reale, del Pil.
Il trucco (per semplificare) è  fare finta che pressione fiscale e redistribuzione fiscale siano la stessa cosa.  Invece,  se tutti pagano la pressione non scende subito, anzi sale nominalmente insieme al Pil;  se e quando scende, scende successivamente. E non per tutti.  Perché  qui, come dicevano i nonni, cade l’asino.  Per alcuni scenderà ( i redditi medi, meglio medio-bassi), forse;  per altri (redditi medio alti e alti) continuerà invece  a salire. Si chiama progressività. Altro frutto avvelenato della "Costituzione più bella del mondo" (Articolo 53, comma 2). Scelta socialista  che meriterebbe un discorso a parte, perché si tratta di un  principio che invece di premiare i più capaci, coloro che producono ricchezza, li penalizza. Distruggendo così  quelle motivazioni  personali che rendono prospera l' economia di mercato. 
Ovviamente,  la pressione fiscale  non scende per nessuno, se lo stato continua a spendere e spandere, mangiandosi, anche le fette più grandi del Pil. Pertanto, senza  tagli e razionalizzazioni, il terrorismo fiscale serve solo come strumento ideologico e coercitivo per obbligare i cittadini  a  gettare i propri  soldi nel pozzo senza fondo  della spesa pubblica.      

Carlo Gambescia             
     


venerdì 25 marzo 2016

Terrorismo jihadista e sociologia  delle catastrofi
 I pericoli dell' "effetto spugna"



La sociologia delle catastrofi è una delle tante specializzazioni di una disciplina che ormai ha perduto qualsiasi capacità di sintesi, in nome della parcellizzazione  delle cattedre e delle epistemologie . Ma non è  della crisi della sociologia  che desideriamo scrivere oggi.
Diciamo però che la sociologia delle catastrofi, se si esce dall'angusto specialismo di cui sopra,  ci aiuta invece a capire  la reazione delle persone comuni al   terrorismo,  quale braccio militare di  guerra  né dichiarata né finora voluta dall’Occidente euro-americano.  Tanto per essere precisi.
La sociologia delle catastrofi in linea principale  studia gli effetti sociali dei disastri provocati dall’uomo  (ad esempio, incidenti di tipo tecnologico) e in linea secondaria quelli naturali (ad esempio, un terremoto) (1). Quel che è stato  rilevato, come tipico effetto ex post, è ciò che  definiamo (con parole nostre) l’effetto-spugna.  Nel senso che  gli individui che subiscono il disastro tecnologico o naturale, dopo una prima fase di  spaesamento, e una seconda di elaborazione del dolore tendono a tornare, per quanto possibile, alla loro vita normale. Insomma,  la sociologia rileva una tendenza collettiva  a rimuovere o assorbire l’evento. Per farla breve l’uomo è un essere sociale affamato di normalità (fatta di abitudini, riti, consuetudini) alla quale vuole tornare al più presto.  E -  attenzione - quando più  prevale, a livello di senso comune,  l’idea che la catastrofe avvenuta  era in fondo inevitabile, tanto più si accorciano i tempi di sublimazione collettiva degli eventi. L’ idea di inevitabilità  favorisce l’effetto spugna.
Per venire al punto che qui interessa, qual è la posizione politico-mediatica sull’evento-catastrofe dell’attacco jihadista?  Per un verso, di rassicurare, e giustamente,  che gli effetti traumatici ex post saranno gestiti al meglio  sul piano medico, psicologico, sociale. Per l’altro però, si  ribadisce, che nonostante il massimo impegno delle forze di sicurezza,  permarrà  un certo margine di alea, neppure piccolo, intorno alla possibilità di evitare altri attentati. Di qui, la raccomandazione, che dovremo tutti imparare a convivere con qualcosa di inevitabile.       
Ora, la  riduzione politico-mediatica del terrorismo jiadista  a evento inevitabile, di cui però possono essere ben gestite sul piano "assistenziale" le conseguenze, resta in fondo l’unica “narrazione”  capace di favorire, quel che è già tendenziale  nel comportamento sociale post-catastrofi: l’effetto spugna come esito di  una voglia di normalità. Il che non è del tutto sbagliato.  Tuttavia,  l’effetto spugna tende a  diventare meno forte e vincolante quanto più gli eventi “inevitabili” si ripetono (e avvicinano) nel tempo  producendo conseguenze sempre più gravi e destabilizzanti  sul piano dei comportamenti collettivi di routine.  Sicché, superata una determinata soglia  (certo, difficile da individuare empiricamente), la voglia di normalità, può innescare processi e dinamiche di tipo conflittuale e  oppositivo, andando incidere, e pesantemente, per usare la terminologia di Albert Hirschman, sui livelli di lealtà sistemica (Loyalty), provocando protesta (Voice) e possibile defezione (Exit) (2).
Pertanto la politica  dell’ “Adelande, Pedro con juicio”, riferita da Manzoni al Cancelliere Ferrer e, come pare, condivisa dall’attuale establishment europeo e protuberanze mediatiche, se spinta oltre un certo limite, potrebbe non pagare politicamente, provocando addirittura  effetti destabilizzanti: totalmente opposti a quelli desiderati.  Soprattutto se non accompagnata da adeguata risposta militare a una questione che, come si preannuncia,  non ha nulla a che vedere con l’eccezionalità di uno tsunami.
Realismo politico, come sostiene l’amico Jerónimo Molina, è soprattutto “immaginazione del disastro” (3), non    tirare a campare politicamente  sui disastri.


Carlo Gambescia

(1)Enrico L. Quarantelli, Disastri,  ad vocem,  Enciclopedia Italiana delle Scienze Sociali, vol. III,  pp. 140-150, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1993.
(2) Albert O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese dei partiti e dello stato, Bompiani, Milano 2002.
(4) J.  Molina, El realismo politico, in  E. Anrubia e Á. de Rueda, Felicidad y conflictoFilosofías para el mundo de mañana, Editorial Comares, Granada 2015, p. 21. Consultabile qui:  https://www.academia.edu/20374719/El_realismo_pol%C3%ADtico .
     

giovedì 24 marzo 2016

Riflessioni
Il lato tragico del liberalismo



Non diciamo nulla di originale quando affermiamo che l’uomo al  comprendere privilegia il  credere. Ciò significa che anche l’argomentazione più complessa non può non  partire da una premessa di tipo valutativo, nel senso che si crede in qualcosa, e su quelle basi, date per certe, si argomenta, magari in modo impeccabile, sotto il profilo della logica deduttiva e  induttiva.
Perciò, carte in tavola subito.  Chi scrive, si riconosce nei valori della libertà,  principalmente formali (1),  incarnati dalle nostre società, e quindi condivide il modo in cui esse  sono  socialmente strutturate,  sulla   base di diritti e  procedure in grado di garantire la libertà del singolo. Società che ovviamente non sono perfette, ma che, oggettivamente, sempre a parere di chi scrive,  sono più libere di altre. Il paragone con le altre società è di tipo storico, sociologico, economico. Quindi basato su dati concreti, retrospettivi. Si può perciò parlare di un approccio realista, che teme il salto nel buio  di un  mondo peggiore di quello reale. 
Per contro, chiunque non si riconosca nell’idea di libertà formale dell’Occidente, preferendone ad esempio una sostanziale, partirà da differenti premesse di valore: si crede, insomma, in altro.  In questo caso, però, il paragone con le società altre,  pur essendo di tipo storico, tende a preferire il progetto. Cioè qualcosa che ancora non esiste, che verrà costruito se gli uomini crederanno possibile l’edificazione di una società futura. Quindi un meccanismo basato su dati astratti. Si può pertanto parlare di approccio costruttivista, di prospettiva:  del genere facciamo tabula rasa, per poi costruire un mondo migliore, quello che tutti noi prospettiamo.
Ma veniamo al punto (finalmente,  dirà il lettore).
Va detto che sul piano ideologico, per dar ascolto, al buon Giuseppe Ferrari (2), esistono quattro fasi di sviluppo ideologico (da lui legate all’alternarsi di generazioni successive) quella dei precursori (che immaginano), quella del rivoluzionari (che praticano le idee immaginate), quella dei reazionari (che aspirano al colpo di spugna), quella dei risolutori, (che mediano tra le idee immaginate e la realtà).
Perciò è fin troppo ovvio che tra un precursore e un risolutore -  parliamo di tipologie sociali che possono coesistere nello stesso periodo storico -  non potrà mai esserci  ponte comunicativo, perché le premesse  di valore sono differenti se non del tutto contrarie.  Di qui, i conflitti intellettuali. Che, però ecco il punto, per diventare reali, devono rispondere a determinati bisogni storici, culturali sociali, ed economici. Il liberalismo dei precursori (e dei rivoluzionari), vinse la sua battaglia, trasformandosi nel liberalismo dei risolutori perché seppe interpretare perfettamente i bisogni del suo tempo.
Oggi,  per alcuni  il  liberalismo  avrebbe fatto il suo tempo, per altri la rispondenza tra immaginazione e realtà, sarebbe invece perfetta, per altri, imperfetta, quindi  servirebbero aggiustamenti. Chi ha ragione?  Difficile dire. Sulle difficoltà, se non impossibilità,  di comunicazione tra tipologie sociali, nel senso attribuito da Giuseppe Ferrari, abbiamo detto. Il precursore vola troppo alto; il reazionario vorrebbe tornare indietro, fino a qualche leggendaria età dell’oro; il rivoluzionario, sarebbe disposto anche al patto con il  diavolo pur di abbattere l’ordine esistente; il risolutore, accusato di volare basso, si difende celebrando i risultati conseguiti.
Sullo sfondo del dibattito intellettuale e politico, appena ricordato, resta la società, con i suoi inesorabili determinismi riproduttivi, legati alla routine istituzionale, alla reiterazione di pratiche conosciute, alla regolarità dei  comportamenti imitativi ed emulativi.  Le società -  che naturalmente sono composte di individui -  privilegiano sempre il noto all'ignoto, la sicurezza alla libertà. Pertanto, sociologicamente parlando, l’innovazione politica è l’eccezione, la conservazione la regola. In qualche misura la società liberale, con la sua forte carica sociale  di innovazioni e libertà politiche, rappresenta un’eccezione storica, che andrebbe difesa.  Tuttavia  il liberalismo realizzato, quello dei risolutori, ha un lato tragico:  non si è potuto  non piegare, anch’esso, alle esigenze della routine sociale, quindi in qualche misura corrompersi (il movimento, come insegna la sociologia, che non può non farsi istituzione). Di qui, la metamorfosi, per ricaduta, del cittadino in un bambino viziato e capriccioso,  per il quale  le abitudini sono tutto, la libertà nulla.  Un  tirannico "puer  aeternus" che crede che il liberalismo sia una specie di gigantesca e benevola macchina distributrice dei più cervellotici e costosi diritti sociali e soprattutto dispensatrice di  sicurezza e assistenza dalla culla alla tomba per tutti.  Sicché,  più si argomenta che il liberalismo è l’esatto contrario, più il liberalismo perde popolarità. Una tragedia.  
Carlo Gambescia     
                      
   

(1) Nel senso di parità formale, nei termini di eguaglianza dei diritti, ossia dei punti di partenza. Non  libertà sostanziale, nel senso di eguaglianza sociale, per tutti,  dei punti di arrivo.
(2) Giuseppe Ferrari, Teoria dei periodi politici, Hoepli, Milano 1874.     

mercoledì 23 marzo 2016

Bombe a Bruxelles  e talk show
Solo chiacchiere e neppure  un distintivo




Ieri è stata la giornata trionfale  del talk show: parole, parole, parole, sulle cause immediate, sul colpe storiche dell’Occidente, sulle storie di vita delle vittime  e perfino sul gossip. Panorama vario, ricco e abbondante.   Vediamo.
Dal tecnocrate  dei servizi che sosteneva che dovremo abituarci  a convivere eccetera, eccetera: il modello israeliano, insomma (però, quando si dice il caso, solo in chiave difensiva, di autoreclusione), al medico senza frontiere, in genere un comunista mai pentito, che parlava di  attentato contro “i migranti”, rifiutando qualsiasi controllo dei flussi (oscurando il carattere militare e ideologico dell’attacco); dal razzista leghista e dal postfascista mai dimentico delle leggi del 1938,  che vorrebbero mettere tutti i “bastardi”  alla porta ( rischiando così di aumentare  le schiere dei nemici della liberal-democrazia, abilissimi a reclutare adepti tra i  delusi dell’Occidente), al cretino catto-sociale  che crede invece basti porgere l’altra guancia per  convincere il nemico a risparmiarci.   Senza dimenticare infine il liberal  infantile  e della lacrimuccia, della vignetta  under tre anni, delle prossime marce (sul "non cambieranno il nostro stile di vita", con maschera antigas sotto il cappotto),  del mantra sulle  psicoterapie in funzione antiterroristica, e così via.  Nichilismo puro.
D’altronde, questa mattina, anche  i giornali italiani ( ma  non solo),  riflettendo lo spirito di una opinione pubblica demoralizzata e impaurita,  si guardano bene dal pronunciare la parola guerra, nel senso  - attenzione - di un necessario e immediato passaggio alla controffensiva militare.  La stessa stampa di  destra, che dovrebbe invece chiederla energicamente,  attacca, e in modo stupido e barbaro, gli immigrati e tutti coloro che, fuggendo dalla guerra in Medio Oriente,  chiedono asilo politico in Europa. Insomma, bombe come occasione per insulti razzisti. Soprattutto la destra  italiana - probabilmente la più stupida al mondo - non capisce che la grande lezione  della guerra americana in Europa ( parliamo del secondo conflitto mondiale), rimane quella - parole forti, certamente  - del bombardare e proteggere. Essere spietati con i nemico in armi,  ma al tempo stesso aiutare e liberare le popolazioni bombardate perché  vittime del fondamentalismo. Parliamo di  un’attività di sostegno alle popolazioni che viene prima del  Nation-Rebuilding (che è altra cosa e riguarda eventualmente il dopoguerra). In questo modo,  si possono separare, anche nell’immaginario collettivo (non storiografico),  i governanti colpevoli  dai governati vittime, purtroppo innocenti, di una guerra senza esclusione di colpi, ieri provocata da Hitler, oggi,  dall’Isis e dal feroce fondamentalismo islamista. Fare il contrario, ossia prendersela con i rifugiati e gli immigrati è nichilismo puro.     
Bombardare e proteggere: certo, si tratta di un equilibrio difficile, come mostrano alcune cantonate americane in Afghanistan e l'impossibilità, anche fisica,  di aprire le porte a tutti. Ci chiedeva ieri l’amico Jorge Sànchez, come comportarsi con le quinte colonne del nemico e soprattutto come organizzare una campagna bellica in un sistema  dove i militari praticamente non hanno nessun potere. Non lo sappiamo. E non siamo esperti di queste cose. Pensiamo solo  che adesso  serva  una reazione forte e immediata: dal cielo, da terra, dal mare? O tutte e tre le cose  insieme? Non sapremmo dire. Però sappiamo che la supremazia militare è ancora nostra e che quindi possiamo distruggere il nemico. Dovremmo imparare dagli americani, che dopo le Due Torri, reagirono subito come un solo uomo, attaccando l’Afghanistan (inciso per i complottisti: diamo per scontata le genuinità dell'attacco, e comunque sia quel che a noi interessa, analiticamente, è la reazione sociologica della popolazione).
E qui purtroppo, si apre un grosso problema. L’Occidente euro-americano può essere definito “anche” una civiltà del discorso. Ossia una civiltà capace di riflettere su se stessa  criticamente. E per questo grande, non si discute. Attenzione però,  tutto ciò  non è soltanto l' eredità dell’Illuminismo, ma risale almeno al mondo greco e romano, passando per tutte le forme di cristianesimo eterodosso. Naturalmente, l’Occidente è anche la patria degli uomini di azione, a tutti i livelli sociali, nei campi dell’economia della politica eccetera.
Diciamo però che nella seconda metà del Novecento, probabilmente a causa dei disastri provocati dall’superomismo attivistico e totalitario, la riflessione critica, anche in chiave strumentale, come formula per rinviare o camuffare la decisione politica, ha preso il posto dell’azionismo, ossia della tendenza ad agire, a realizzare, a fare, se non nel campo economico, dove siamo tuttora “forti”.  Va detto che negli Stati Uniti, terra contraddistinta da un ricca tradizione pragmatista, gli spazi concessi al criticismo, e soprattutto all’influenza del suo pericoloso pendant, il  nichilismo intellettuale, sono tuttora contenuti meglio,  come  si è  visto in occasione dell’aggressione militare alle Torre Gemelli.
Per contro  in Europa tutto è più difficile. Siamo discorsivi. Il che in assoluto non è un male, anzi è un segno distintivo eccetera eccetera, ma esiste un limite a tutto: in particolare quando si scivola, come abbiamo visto, nel nichilismo mediatico E soprattutto, quando la discorsività, diventa nei politici un furbo camuffamento per rinviare qualsiasi decisione.  Purtroppo, faremo guerra quando avremo l’acqua alla gola. E sarà troppo tardi.


Carlo Gambescia  

martedì 22 marzo 2016

Guerra all'Isis? 
Quando avremo l'acqua alla gola...




Ho notato che il  Social Network, a poche ore di distanza dal nuovo eccidio di Bruxelles,  si è impantanato nella analisi delle cause, per prendersela con questo o con quello. Su cosa fare di concreto,  silenzio  totale.  
Quindi i social network non ci salveranno, si parlano addosso  punto e basta.  Prevedibile. Chi ci salverà? In un mio precedente post ho scritto della necessità di agire. Ma chi deve agire? I militari. Però i dietro i militari c'è la politica, o meglio  le élite dirigenti.  Ora,  tutti avranno notato, nelle ultime ore, le consuete dichiarazioni, non solo in italia, all'insegna del grande dolore per le vittime eccetera.  Si parla della solita   megariunione europea, dalla quale sortirà poco o nulla, se non qualche altro giro di vite sulla sicurezza come se gli attentati fossero  una questione di criminalità pura e semplice.
Allora che  succederà?  Niente. Si giungerà all'intervento militare  quando il tasso di attentati sarà così alto da mettere in discussione il potere delle élite politiche dirigenti. Quando il pacifismo non pagherà più in termini di conservazione del potere, perché sarà  la stessa gente, stanca di vivere nella paura, a invocare un'azione militare, allora la politica, finalmente,  darà l'ordine.  Solo allora. Il che significa che nel frattempo si preparano altri attentati, altri morti, altre inutili chiacchiere e lacrimucce. Prepararsi, cari amici. Purtroppo.
Per quale ragione  questa  attesa?  Perché la guerra fa paura ai politici democratici:  può provocare rivolgimenti  interni,  favorire la leadership dei militari, e magari per ricaduta  il  potere di qualche homo novus con le stellette.  Alla base, per così dire,  della politica dei tempi lunghi c'è l'idiosincrasia dei politici verso i militari.  Naturalmente, i politici si nascondono dietro i grandi principi per prendere tempo, sperando che le cose si risolvano da sole, pacificamente o per intervento di altri. Il tutto, come dicevamo,  si regge sulla  condiscendenza dei cittadini, fino a quando però - attenzione -  la vita quotidiana non diventa intollerabile. Dopo di che il gioco (del potere) non vale più la candela...  
L'attesa, ovviamente è un errore, perché il nemico si rafforza, anche psicologicamente, interpretando la titubanza come debolezza. E tutto si complica.  Ma non c'è nulla da fare, è così. Quindi, sarà guerra, quando avremo l'acqua alla gola.

Carlo Gambescia          
    
Bombe a Bruxelles
Agire! Agire! Agire!



Dopo quel che è accaduto, poche ore fa a Bruxelles,  è inutile discutere sulle ragioni, sulle cause, o peggio ancora sulle nostre possibili colpe di un  passato coloniale. O addirittura  di stupide ipotesi complottiste che fanno solo il gioco del nemico:  l'esercito islamista e le sue basi territoriali (ovunque si trovino)  in Europa  e in Medio Oriente.  Insediamenti, non solo militari,   che  vanno distrutti. Immediatamente. Inutile, infine, tirare fuori la solita storiella pacifista, del se attacchiamo facciamo il gioco del nemico... Qui non ci sono alternative, se non  fermiamo subito il nemico, andrà sempre peggio. Eventualmente, si potrà trattare, ma dopo, da vincitori.
E'  perciò venuto il momento di agire.  Chi scrive non è un esperto militare e   purtroppo  non si nasconde un fatto molto grave:  che oggi le forze armate, in tutta Europa,  sul piano decisionale e organizzativo, probabilmente per loro scelta,  contano meno di zero.  E che la popolazione è largamente "debellicizzata".  E che infine   permane  la difficoltà, ai tempi di Obama e Putin,  di mettere in piedi una coalizione internazionale di tipo militare. 
Tuttavia, e pensiamo alle classi dirigenti,   coloro che  credono nel valori di libertà e democrazia, che hanno fatto grande, anche economicamente, l' Europa e  l' Occidente,  dovrebbero cercare di  superare differenze, incomprensioni, e battersi come un solo uomo contro  un nemico che vuole cancellare la nostra civiltà. Quindi interessi ma  anche  valori comuni. Che si aspetta?   
La reazione dovrebbe  essere  di tipo militare, sul piano esterno e interno. Quindi tribunali di guerra e azioni di tipo militare su larga scala e di una potenza devastante, per distruggere il nemico  ovunque si  trovi.  Sappiamo anche, per educazione e studio,  che quanto andiamo scrivendo può apparire retorico, altisonante. Si dice, ed in parte  è vero, che le guerre iniziano tra le fanfare e finiscono in tragedia... Diciamo però che qui è iniziata con le bombe. Sui nostri civili. E quindi non ci sono altre scelte. Si deve agire. E subito.  Chi cincischia - frase fatta, certamente, ma  non scorgiamo espressione più calzante - è UN TRADITORE.   

Carlo Gambescia 
 Erasmus, Obama a Cuba, Salah Abdeslam
Lezioni di giornalismo 
(e di realismo politico)







A dar retta ai media,  che  riflettono la banalità organizzata, l’Erasmus dovrebbe essere sospeso, Barack Obama avrebbe conquistato il portafoglio e il cuore dei dirigenti politici cubani, Salah Abdeslam il kamikaze islamista spuntato, con il suo bel  faccino,  sarebbe un pentito, un povero ragazzo traviato, che può essere tranquillamente recuperato.
Le sfumature  mediatiche possono essere differenti, ma nell'insieme riflettono tre miti del nostro tempo: a) dell' eliminazione di qualsiasi rischio; b) del commercio che converte tutti alla democrazia; c) del far finta che il remake dell’Islam militarizzato non ci abbia dichiarato guerra.
Insomma, si ignorano ( o si fa finta di) tre questioni fondamentali   : uno,  che  il rischio è  un fattore di libertà, (se Cristoforo Colombo, avesse rinunciato al suo Erasmus su tre caravelle, per paura di affogare  chissà…);  due,  è vero che il commercio facilita relazioni, apre porte eccetera,  ma è altrettanto vero che non converte nessuno ipso facto alla democrazia  (vedi Cina,  nonché la vecchia Russia Zarista);  tre, che Salah Abdeslam  non è un mafioso o un criminale, magari con  inclinazioni terroristiche, bensì un soldato  che combatte per  uno Stato  che punta a  distruggerci ( alla stregua dei soldati nazionalsocialisti che, su ordine di Hitler, volenterosamente tentarono di  ridurre l’Europa in schiavitù).
Abbiamo parlano di banalità organizzata, non nel senso del grande vecchio dietro le quinte eccetera, bensì di un sentire comune - quindi un fattore sociologico -  fondato su tre pilastri ideologici,  tre convincimenti sbagliati che però stanno rovinando l’ Europa e l’Occidente: l’assistenzialismo, l’economicismo e il pacifismo.  Del resto, che c'è di meglio del sentirsi sicuri e protetti? E sopratutto rassicurati?  Il meccanismo di rinforzo è collettivo, in qualche misura democratico: i media non fanno altro che ricevere e moltiplicare un desiderio di pace e tranquillità che giunge dal basso.  Del  resto si tratta di  ciò che le persone comuni amano sentirsi ripetere, almeno a far tempo dalla fine delle guerre civili europee della della prima metà del Novecento. E in teoria la gente comune  non avrebbe torto. Senonché la sicurezza personale non può essere garantita dalla culla alla tomba, per tutti  e per sempre, a parte il costo economico ( tasse elevatissime),  ne andrebbe di mezzo la libertà che è responsabilità individuale e  rischio.  Inoltre, i buoni affari, come abbiamo visto, non portano sempre alla democrazia; le guerre, infine non possono essere bandite per sempre,  perché è il nemico a designarti come tale.  E purtroppo,  di questa melassa, i media sono i ripetitori organizzati. Anche per un politico deciso, sarebbe molto  difficile opporsi al  buonismo imperante. Certo,  dando per scontato il suo desiderio di mantenersi al potere...   
In realtà, tre soluzioni  le avremmo. Politicamente scorrette.  
In primo luogo, l’Erasmus, andrebbe  reso il più scomodo e difficile  in termini economici e di severità degli studi. Il che significa  cancellare  gli aspetti vacanzieri, In questo modo - detto ovviamente con grande rispetto per le vittime -   l'Erasmus  attirerebbe solo  i più motivati, disposti a studiare punto e basta.  Certo, poi tutto può accadere, ma  non all'interno di un'ottica  turistica di massa.  
In secondo luogo,  anche  il commercio è  buona cosa, mai però aspettarsi  tanto o troppo dal mercante. Infatti, quando si aprono agli affari,  i primi a beneficiarne e  arricchirsi,  soprattutto nei regimi autoritari o dittatoriali,  sono quelli in cima alla scala sociale. E perché (dal loro punto di vista, ovviamente) dovrebbero autoliquidarsi politicamente  in favore del popolo? 
In terzo luogo,  per il soldato islamista, tribunali di guerra, senza tante chiacchiere e telenovelas. Perché siamo in guerra.
Certo, sono verità sgradevoli che la gente non vuole  sentire. Il classico comportamento dello struzzo. Una deriva  favorita  dalla  condiscendenza seriale dei media.   Il risveglio però potrebbe essere molto brusco... 

Carlo Gambescia
                       

lunedì 21 marzo 2016


Arma dei Carabinieri (*) 
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2016, lunedì 21 marzo, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO

Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. 453/1, autorizzazione 5398/3a [Operazione DIGOS “QUANTO SEI BELLA ROMA” N.d.V.] è stato effettuata in data 20/03/2016, ore 10.37, l’intercettazione di una conversazione telefonica intercorsa tra le utenze  333***, in dotazione alla On. COCOMERI GIORGINA,  Presidente “Fratelli & Sorelle d’Italia”,   347***, in dotazione all’ On. SALTINI MATTIA, Segretario “Italianord”, e 338*** FONTANESI LORENZO, consulente per la comunicazione “Italianord”.  Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]


On. COCOMERI GIORGINA: “E se va male?”
On. SALTINI MATTIA: “Male in che senso?”
On. COCOMERI GIORGINA: “Se prendiamo un bagno, Mattia. Per voi Roma non sarà importante, ma noi qui abbiamo una tradizione da difendere.”
On. SALTINI MATTIA: “Voi a Roma avete i ministeriali, Giorgina, e per quelli adesso non c’è trippa.”
On. COCOMERI GIORGINA: “Guarda che non siamo solo quello. Ci sono le borgate, ci sono gli ideali…”
On. SALTINI MATTIA: “Bella cosa gli ideali, ma per le borgate serve la trippa, e la trippa non c’è.”
On. COCOMERI GIORGINA: “Ma fammi un po’ capire: tu vuoi proprio perdere?”
On. SALTINI MATTIA: “Perdere, vincere, sono parole…bisogna vedere.”
On. COCOMERI GIORGINA: “Cioè?”
On. SALTINI MATTIA: “Se vinciamo a Roma, gli elettori vogliono la trippa, e la trippa non c’è. Così vinciamo oggi per perdere domani. Io voglio perdere oggi, per vincere domani.”
On. COCOMERI GIORGINA: “Mai sentita quella dell’uovo oggi e della gallina domani?”
On. SALTINI MATTIA: “E tu l’hai mai sentita quella che a un cane vecchio non si insegnano trucchi nuovi?”
On. COCOMERI GIORGINA: “Il cane sarebbe?”
On. SALTINI MATTIA: “Sarebbe Silvano, Giorgina. Il nostro Silvano B. ha ottant’anni, non vuole voltare pagina e se anche volesse non sarebbe capace. Ha già tirato fuori che lui è antifascista. Sta’ a vedere che adesso tira fuori i comunisti, la rivoluzione liberale, il milione di posti di lavoro...”
On. COCOMERI GIORGINA: “Sarò io che sono limitata, ma a questa storia di perdere oggi per vincere domani ci credo poco.”
On. SALTINI MATTIA: “Ma non vedi che tu sei in una botte di ferro? Se proprio proprio te la vedi veramente brutta, sei incinta: dici che sono insorte complicazioni, e ti ritiri per il bene del bambino. Sai quanti voti vale una notizia così? Quanta simpatia per te?”
On. COCOMERI GIORGINA [pausa]. “Mah, forse hai ragione tu. Ci devo pensare. Adesso scusa, stacco che ho il corso preparto.” [chiude la comunicazione]
[PAUSA di 12’. L’ On. SALTINI MATTIA chiama l’utenza 338*** summenzionata]
FONTANESI LORENZO: “Com’è andata?”
On. SALTINI MATTIA: “Se l’è bevuta.”
FONTANESI LORENZO: “Sul serio?!”
On. SALTINI MATTIA: “ Sì sì. ‘Perdere oggi per vincere domani’.”
FONTANESI LORENZO: “Non ci credo. Non te l’ha chiesto chi vince e chi perde?”
On. SALTINI MATTIA: “No. Guarda che me l’hai suggerita tu questa.”
FONTANESI LORENZO: “Sì, ma mai pensavo che ci cascasse subito…”
On. SALTINI MATTIA: “Sai, è felice, povera stella, un po’ intontita dalla gravidanza…”
FONTANESI LORENZO: “Cioè non ha capito che a Roma oggi perdono loro, e domani a Roma vinciamo noi?”
On. SALTINI MATTIA: “No.”
FONTANESI LORENZO: “Che cosa commovente, la maternità…”
[ridono per 11’]

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.o  Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...




sabato 19 marzo 2016

In difesa della democrazia rappresentativa
 Lucciole per trivelle



I referendum regionali sulle “trivelle”, in sé privi di grandi conseguenze legislative,  hanno però assunto, come prevedibile,  un deciso  valore politico, anzi diremmo filosofico, perché  i  sì e i  no riflettono   precise, o quasi,   visioni del mondo.
Dietro il no alle trivelle si scorgono  gli antimoderni, i sognatori delle lucciole. Proprio ieri ci è capitato di rivedere Magnificat di Pupi Avati, film che spiega, con grande obiettività, su quali criteri sociali, assai rigidi, funzionava un mondo dove si vedevano ancora le lucciole…  Certo, resta un film, però.
Per contro,  il fronte del sì alle trivelle  è  favorevole alla modernità,  ma in modo titubante, almeno così  sembra. I favorevoli, per cosi dire, controvoglia,  dovrebbero anch’essi rivedere il film di Pupi Avati…  Insomma,  chi difende le trivelle  invece di esserne fiero,  per principio,  come i grandi semplificatori delle lucciole, ne ha quasi ne ha vergogna.   E chi vacilla, prima o poi cade.
Tra i due fronti, come dire in  mezzo,  ci sono gli italiani. I quali  sognano di coniugare  il massimo del capitalismo con il massimo delle sicurezza. La quadratura del cerchio.  A dire il vero,  specialmente a sinistra, ma anche al centro, si invoca sulla questione ambientale il cosiddetto principio di responsabilità, che impone vincoli, controlli e alti tributi fiscali. Il tutto per garantire, quella modernità sicura, bella e impossibile,  che sembra così piacere agli italiani.
Ciò indica, che affrontare  tematiche, molto complicate (che per l’appunto richiedono prudenza), ricorrendo allo strumento del  referendum, dove  finisce sempre per prevalere il richiamo politico della foresta, è un grave errore sociologico.  Quindi il nostro discorso, non riguarda i contenuti (perché sì o perché no alle trivelle eccetera, eccetera) ma il metodo (perché sulle trivelle o questioni simili, debba sempre essere evitato qualsiasi approccio emotivo-politico di tipo referendario).
Si dirà, ma è la democrazia. Il POPOLO eccetera, eccetera.  Certo, però le maggioranze, soprattutto se referendarie, sono scatole vuote: si  vota a contenuto libero ed emozionale; dentro, sull'onda del fanatismo, ci si può mettere di tutto, dalle trivelle alle leggi anti-ebraiche (come nella Germania hitleriana). Quindi certe decisioni andrebbero attentamente discusse in Parlamento, confrontandosi con quella prudenza necessaria  che dovrebbe animare un gruppo ristretto di saggi legislatori.
Ma si dirà, ancora: la democrazia parlamentare non funziona.  "Pensano solo a rubare", come sottolinea il mio portinaio.  Certo, spesso capita,   però quella abbiamo, ed è costata grande  fatica edificarla. Ed è l’unico strumento, con tutti i suoi difetti, che ci mette al riparo da coloro, e non sono pochi, che scambiano lucciole per trivelle…

Carlo Gambescia                  

venerdì 18 marzo 2016

Ma quale studio della Costituzione a scuola!
L'Educazione Civica va eliminata come l’ora di religione



Secondo uno studio della Associazione Treelle, quasi i  due terzi dei diplomati  ritengono che  a scuola la Costituzione italiana  è studiata poco o punto (*). Sicché, gli studenti chiedono un maggiore insegnamento  dell' Educazione Civica in classe, quale disciplina  dedicata allo studio della Costituzione.  Talvolta capita addirittura di leggere che la nostra Carta  andrebbe insegnata anche ai bambini...  L'immagine dei Balilla della Costituzione,  come poi il lettore scoprirà,  ci  lascia a dir poco perplessi.
L’ idea del cittadino che divenga tale per educazione, e dunque per  conoscenza è indubbiamente un’idea liberale. Si pensi al famoso deliberare per conoscere di Luigi Einaudi (sul quale poi ritorneremo).  Però, come tutte le idee astratte,  ha alcune importanti controindicazioni. 
In primo luogo, le costituzioni non sono un testo sacro, quindi possono risentire del tempo ed essere soggette a revisioni. La sacralizzazione, maleodora di visione totalitaria della politica. Tradotto:  una costituzione, uno stato,  un popolo. Vengono i brividi.  
In secondo luogo, e a tale proposito,  l’insegnamento a scuola dell’educazione civica, implica che cosa?  Gli insegnanti, of course. I quali, oggi come oggi, o sono totalmente impreparati o sono politicizzati. Di conseguenza,  l’insegnamento della Costituzione italiana risentirebbe delle diverse ideologie professate, o peggio dell’ impreparazione in argomento dei docenti. Un minestrone costituzionale ideologicamente insipido o troppo salato. Altri brividi.
Del resto, e in terzo luogo, quando si parla di scuola laica o repubblicana,  ci si riferisce  a un’idea astratta,  facendo finta di non sapere  che la scuola in realtà si compone di  insegnanti, burocrazie pubbliche centrali e periferiche, sindacati, alunni, famiglie più o meno politicizzate. Tante teste (e interessi) tante idee (e interessi). Altro che Stato Etico (con le maiuscole). Ciò significa che la tanto strombazzata neutralità dello stato non sarà mai di casa nella aule scolastiche,  a meno che, ma sarebbe un passo indietro verso la dittatura, non li si metta tutti (insegnanti, burocrati, sindacalisti, cittadini) in divisa come durante il fascismo. Brividi e febbre alta. 
In quarto luogo,  il che (tante teste eccetera)  potrebbe sembrare un bene. E invece no. Perché  in realtà, esiste il  rischio  opposto: quello di produrre negli studenti ulteriore confusione, nonché, come per tutto ciò che si deve apprendere per costrizione,  indifferenza se non odio verso le costituzioni, la politica, i partiti, lo stato, eccetera.  Febbre altissima.
In realtà, quel deliberare per conoscere einaudiano, concerne la volontà di sapere individuale: la libera scelta di informarsi, documentarsi, per così dire, non in orario scolastico.  Pertanto l’idea di  fondo, condivisa da Einaudi e da ogni vero liberale,  non può che essere quella del cittadino per scelta -  non per suolo o per sangue -  che decide  liberamente di documentarsi sulla sua condizione civile e politica. E che documentandosi, sempre liberamente, comprende e poi condivide le ragioni della sua appartenenza storica. Ma può anche accadere il contrario. E, che si decida,  in qualche misura, di  votare con i piedi...  Insomma, contratto non status.  Mai sacralizzare le costituzioni, può essere molto pericoloso, come illustra, fin dall'inizio, l'esperienza giacobina. 
Ma allora, gli studenti che chiedono più Educazione Civica a scuola?  Sono liberali disadattati: statalisti senza saperlo. Dal momento che  hanno ricevuto e introiettato, per diffusione ambientale, l’idea rousseauiana che l’uomo, per il suo bene,  può essere costretto ad essere libero, idea infondata (chi conosce  meglio di se stesso, il proprio bene?), via via abbracciata da giacobini, socialisti, comunisti, cattolici democratici e sociali, e perfino fascisti e nazionalsocialisti. Non per niente la Costituzione italiana è frutto di un compromesso tra democristiani, socialisti e comunisti. 
Di qui, per tornare sul punto,  il ruolo fondamentale,  perché ritenuto formativo ( una specie di busto di gesso),  delle costituzioni moderne e dello stato che deve implementarle.  Si chiama costruttivismo (Hayek, docet).  Costituzioni, che tra l’altro, essendo  frutto di precise maggioranze, sono immagine vivente  di quell'  impalpabile tirannia della maggioranza studiata da Tocqueville.
Perché, allora, insegnare la tirannia, o peggio il totalitarismo, a scuola?  Magari fin dalle elementari... Se fosse per noi, al massimo renderemmo l’educazione civica un corso opzionale, come l’ora di religione.  Se non addirittura eliminarla del tutto. E così non pensarci più.  
Carlo Gambescia