*********************senza "metapolitica" si finisce sempre per fare cattiva "politica"*******************
martedì 26 giugno 2012
lunedì 25 giugno 2012
Dispiace dirlo ma Prima Pagina, rassegna stampa di
Radio 3, è in realtà la mattutina rassegna dei
peggiori vizi del giornalismo italiano: faziosità ( e non importa
se di destra o sinistra ) e strizzatine d’occhio
o velenosi silenzi verso colleghi e politici in base
alle egocentriche convenienze del conduttore settimanale.
Insomma, un brutto spettacolo all'insegna della citazione mirata,
ovviamente quasi sempre a
servizio del familismo
individuale e in subordine di cordata.
Certo, per accorgersi e comprendere il senso riposto dei
messaggi cifrati si deve essere addetti ai lavori e
quindi (ri-)conoscere personaggi, testi recitati e principalmente i sottotesti…
E qui giunge a proposito il post di oggi scritto da Roberto
Buffagn, il quale pur non essendo giornalista, di teatro (soprattutto
se "esistenziale") e storia patria un pochino se ne
intende. Buona lettura. (C.G.)
L’ Italia® di Roberto Buffagni vs
di Roberto Buffagni
In questi giorni sto lavorando in teatro, e osservo i
consueti orari di lavoro teatrali. Insomma, si comincia nel primo pomeriggio e
si finisce verso le dieci di sera. Tra cena e chiacchiere, finisco per andare a
letto tardi, ma per inveterata e paradossale abitudine continuo a svegliarmi
alle prime luci. Faccio toilette, mi vesto, esco per le strade ancora deserte
alla ricerca di un bar aperto, tiro in lungo la colazione e la lettura dei
giornali, passeggio un po’, poi mi arrendo e rientro. Guardo l’orologio.
Mancano sette ore alle due del pomeriggio, orario d’inizio delle prove.
Pensando che nell’afosa controra, invece di schiacciare un pisolino con l’aria
condizionata al massimo, mi toccherà di lavorare in una soffocante sala prove,
sento montare una generica irritazione erga omnes: lo stato d’animo più
appropriato per interessarsi alla cronaca politica italiana. Dunque accendo la
radio per seguire Prima Pagina, la rassegna stampa di Radiotre, e di tanto in
tanto, per ammazzare il tempo e sfogare un po’ il nervosismo, telefono alla
redazione per intervenire.
La scorsa settimana, a condurre Prima Pagina c’era
Alessandro Campi, politologo, docente universitario, editorialista del
“Mattino”, già ai vertici della Fondazione culturale di Gianfranco Fini. Mio
malgrado, mi aveva fatto una buona impressione. Dico mio malgrado, perché nello
stato d’animo in cui ascoltavo la trasmissione avrei preferito poter inveire
contro un conduttore sciocco e/o fazioso, tipo il Gianni Barbacetto che aveva
preceduto Campi, un personaggio ideale per fantasiose variazioni sui temi
“Povera Italia” e “Cortigiani vil razza dannata”. Invece Campi si dimostrava
preparato, equilibrato, sintetico, anche abbastanza eloquente se si esclude il
suo curioso vezzo di ripetere le ultime parole di quasi tutte le frasi. Quanto
alle sue posizioni politiche, di una destra seria, moderata, democratica,
prezzolin-weberiana, patriottica ma correttamente incravattata e liberale, di
primo acchito le trovavo persuasive, condivisibili, persino encomiabili; poi,
resomi conto che da esse ogni riferimento alla presente realtà politica e
sociale italiana era scrupolosamente espunto, e sostituito dalla presupposta
esistenza di un dignitoso paese anglo-europeo non meno immaginario dei
Granducati delle operette Belle Époque, le avevo apprezzate per la loro
impeccabile coerenza drammaturgica. Chi non ricorda la
proverbiale Ruritania del britannico Anthony Hope,
autore de Il prigioniero di Zenda, da
cui furono tratte operette, commedie musicali, film?
Bene, accettata la convenzione che l’azione si
svolge in una immaginaria Ruritalia, lo spettatore di buon gusto sospende
l’incredulità e non può fare a meno di condividere le valutazioni di Campi.
Venerdì scorso il tema centrale della rassegna stampa era la
vicenda della trattativa Stato-Mafia, con le relative intercettazioni
telefoniche di Nicola Mancino ex Ministro dell’Interno, Loris D’Ambrosio
consulente giuridico della Presidenza della Repubblica, e del Presidente
Napolitano. Come tutti sanno, alcuni giornali e commentatori, soprattutto Marco
Travaglio su “Il fatto quotidiano”, accusano la Presidenza della
Repubblica di avere esercitato pressioni sui magistrati che conducono le
inchieste per evitare coinvolgimenti di importanti uomini politici; altri
giornali e altri commentatori sostengono che a) non è vero che la Presidenza della
Repubblica abbia esercitato le dette pressioni b) in ogni caso, accusare la più
alta figura istituzionale italiana è in generale e sempre atto gravemente
irresponsabile, ma ancor più e peggio in questo difficile momento di crisi
economica e politica. Campi dà correttamente conto di entrambe le posizioni ma
propende per la seconda, l’unica compatibile con la sua Ruritalia. Detto
altrimenti: con la sua Italia, manierato Granducato da operetta.
Cogliendo al volo l’occasione di polemizzare, telefono a
Campi per dire la mia. Me lo passano. Purtroppo, sia per i lacci e laccioli
delle buone maniere, sia perché professionalmente traviato dalla convenzione
drammaturgica stabilita da Campi (Ruritalia = serietà, moderazione, rispetto
delle forme), invece di lanciarmi in una invettiva liberatoria contro Giorgio
Napolitano espongo pacatamente la seguente opinione: “Fondate o no che siano le
critiche a Napolitano per la vicenda in questione, il punto è questo. Finché la Presidenza della
Repubblica rimane, come da dettato costituzionale, una figura di garanzia
istituzionale al di sopra delle parti, è giusto combattere e zittire chiunque
le rivolga accuse politiche, perché si rende colpevole, per così dire, di lesa
maestà dello Stato. Ma se il Presidente della Repubblica si fa attore politico
di primo piano, come Giorgio Napolitano quando insediò il governo Monti senza
indire nuove elezioni e, ancor più, quando si volle regista della nostra
partecipazione alla guerra contro la
Libia , paese con il quale egli stesso aveva stipulato, appena
due anni prima, un solenne trattato di amicizia; allora, il Presidente della
Repubblica deve accettare le conseguenze del nuovo ruolo da lui scelto, ed
esporsi alla critica politica, anche la più grave e severa.”
Nella sua replica Campi, che, più esperto del dibattito
pubblico, ha più presenza di spirito, e soprattutto la Ruritalia l’ha inventata
lui, mi frega subito, e mi ribatte che, “Certo, tutti hanno diritto di
criticare il Presidente della Repubblica, ci mancherebbe: ma queste non sono
critiche, sono accuse vere e proprie, e di una gravità eccezionale, che mette a
rischio il tessuto istituzionale, etc.” E via che si volta pagina.
Trenta secondi per illuminare finalmente il popolo italiano,
e li ho vanamente sciupati! Vorrà dire che ripiegherò su questa tribuna che
Carlo Gambescia mi mette generosamente a disposizione, e dirò la mia per
iscritto, così a) sono più bravo di Campi; b) nessuno mi può chiudere il
microfono, al massimo smette di leggere; c) la convenzione drammaturgica e
l’ambientazione della vicenda la scelgo io, e scelgo l’Italia di R. Buffagni +
59 milioni e rotti di italiani, non l’immaginaria e compunta Ruritalia di A.
Campi. Per evitare incresciose controversie sui diritti d’autore,
contestualmente registro e deposito il marchio Italia®.
Ora, nel merito della questione la mia è questa. Napolitano
ha fatto, direttamente e indirettamente, pressione sui giudici per salvare il
suo collega Mancino e soprattutto il ceto politico del quale lui e Mancino sono
esponenti di primo piano? Ma certo che sì. In Italia®, non mi risulta che sia
ufficio o anche solo abitudine del Presidente della Repubblica telefonare a
singoli magistrati con cadenza settimanale, mensile, settennale: dunque, se
Napolitano chiama dei magistrati coinvolti in una delicatissima inchiesta
politica, anche qualora si limitasse a chiedergli che tempo fa da quelle parti,
come è andata la pagella dei figli e cosa ha preparato di buono per il pranzo
la loro signora, eserciterebbe una pesante, diretta, inequivocabile pressione
su chiunque, tra di loro, non ignori beatamente come va il mondo. (Certo, in
Ruritalia il Presidente della Repubblica presiede anche il Consiglio Superiore
della Magistratura, e dunque se telefona ai magistrati non fa che comportarsi
da padre premuroso, al massimo un po’ troppo apprensivo).
Sulla trattativa Stato-Mafia, poi, in Italia® si pensa,
generalmente, quanto segue. Senza bisogno di ripescare dai libri di storia del
liceo Giovanni Giolitti e i suoi sistematici accordi con i capobastone per
garantirsi le necessarie maggioranze elettorali in Meridione, che indussero
Gaetano Salvemini a definirlo plasticamente “ministro della malavita”, basterà
ricordare la vicenda di Ciro Cirillo, assessore ai lavori pubblici della
regione Campania che nel 1989 fu rapito dalle Brigate Rosse e liberato, dietro
versamento di un cospicuo riscatto, grazie alla mediazione determinante della
Nuova Camorra Organizzata di don Raffaele Cutolo; e confrontare la vicenda con
le dichiarazioni plutarchiane divinizzanti la ragion di Stato rilasciate da
quasi tutto il ceto politico italiano in occasione del rapimento di Aldo Moro.
Dunque, in Italia® R. Buffagni e gli altri italiani non trasecolerebbero,
qualora venisse provata anche in sede giudiziaria una trattativa Stato- Mafia,
condotta allo scopo di salvare il posto e/o la pelle a politici di rilevante
importanza per il corretto funzionamento del backstage politico-economico
italiano, l’unico che conti davvero in Italia®; o meglio, essi trasecolerebbero
soltanto per l’eventuale, inaudito sfociare in una sentenza di condanna
giuridicamente ineccepibile di un siffatto procedimento giudiziario. (In
Ruritalia, invece, a quanto disse ai radioascoltatori di Prima Pagina di sabato
23 giugno 2012 il suo inventore Campi, se un alto magistrato, intervistato da
un giornalista, nega in toni ultimativi di avere ricevuto pressioni di sorta
dal Presidente Napolitano, è facile, naturale, ragionevole e doveroso credergli
subito senza il minimo dubbio o retropensiero).
Quanto poi alla questione più complessa e teoreticamente
meno univoca, se sia giusto o meno in sé e per sé rivolgere pubbliche accuse
infamanti a chi rivesta la più alta carica istituzionale dello Stato, in
Italia® la si pensa in maniere diverse. Una minoranza propende decisamente per
il Fiat justitia et pereat mundus. Usualmente, costoro si dividono nelle
seguenti categorie: a) minori di anni 18; b) nemici politici accaniti
dell’accusato. Un’altra minoranza propende per difenderlo a oltranza, ma
all’analista essa non propone enigmi politici, morali o psicologici, essendo
formata esclusivamente da coloro che rischiano di essere trascinati nella sua
caduta. Un’altra minoranza, più consistente e altrettanto poco enigmatica,
propende per difenderlo finché sia possibile farlo senza rischiare in proprio.
Una maggioranza o zona grigia è incerta, perché da un canto ha paura del caos
che potrebbe conseguire alla Endlösung morale di tutte, tuttissime le autorità
politiche e istituzionali italiane; dall’altro, confusamente sente che se si
può stendere il mantello di Noè sulle vergogne di un ceto politico del quale,
nel complesso, ci si fida, diventa invece politicamente autolesionista e
psichicamente devastante passare sopra alle infamie di un sistema
esageratamente marcio, irriformabile, impotente e maligno insieme. ( nella
Ruritalia di Campi, invece la convenzione drammaturgica esige che l’Italia® non
esista, e dunque il problema non si pone).
Personalmente, la penso così. L’educazione cattolica mi ha
vaccinato contro il moralismo. In Vaticano si è visto, si vede e si vedrà di
peggio, e non per questo i Vangeli sono falsi, Dio non esiste, e tutti i preti
sono pedofili imbroglioni. Ciò premesso, l’Italia® è interamente sita
nell’aldiquà. Secondo il mio personale avviso, Giorgio Napolitano è
direttamente e coscientemente responsabile di atti politicamente e moralmente
ben più gravi di un insabbiamento. Dico Monti, dico Libia, e per me basta e
avanza. Non sono un giurista, non so se Monti e Libia configurino anche
fattispecie di reati, e francamente non me ne importa un gran che. Ricordo che
sia l’operazione Monti, sia l’operazione Libia, hanno richiesto vaste campagne
di manipolazione mediatica dell’opinione pubblica nelle quali s’è fatto
larghissimo abuso di intercettazioni telefoniche, inchieste giudiziarie, e
concetti giuridico-filosofici quali i “diritti umani”. Bene. Non so
nell'immaginaria Ruritalia del professor Campi, ma qui in Italia® abbiamo
un proverbio: “chi la fa, l’aspetti.”
Roberto
Buffagni
(*) Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo
lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo
fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con
Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo,
ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica
vintage...
venerdì 22 giugno 2012
Riforma della moneta? Per andare dove?
Ogni volta che la crisi economica
incalza, si riaffaccia il mito della riforma monetaria: l'intuizione non è
nostra ma di Keynes (Teoria generale) che di crisi se ne
intendeva... Insomma, appena il capitalismo sembra andare in
tilt gli economisti dilettanti - una corte dei
miracoli oggi attivissima sul Web - iniziano a
"vendere" sogni a occhi aperti. Per dirla
con Joseph Conrad (e due...), autorità in materia (di sogni,
anzi incubi...), « i sognatori» all’improvviso presi dal «bisogno di
agire (…) abbassano la testa e si precipitano contro i muri con quella serietà
sconcertante che può dare soltanto un’immaginazione disordinata»
(Vittoria).
Definizione perfetta. E di quella volontà autodistruttiva che
sembra animare, e da sempre, alcuni uomini,
particolarmente sensibili al pericoloso fascino
del Fiat justitia et pereat mundus. Cerchiamo
allora di essere costruttivi: che cos’ è la moneta? Dal punto di vista
economico è unità di misura, mezzo di scambio, di conservazione e
trasmissione dei valori (misurati) nel tempo e nello spazio. Da quello
sociologico è uno strumento, tra i tanti, di potere sociale e politico. Ossia è
un’unità di misura, scambio, conservazione e trasmissione del potere sociale e
politico.
Quando perciò si parla di riforma della moneta la questione
non va affrontata solo sotto l’aspetto economico. E per una semplice ragione:
qualsiasi riforma anche quella teoricamente perfetta (ammesso che esista),
implica una riforma del potere sociale e politico. Non esistono riforme
monetarie socialmente e politicamente “neutrali”. E di conseguenza indolori,
come invece cinguettano alcuni dottor Dulcamara del
web. Fermo restando che il potere sociale e politico, anche dopo la
riforma monetaria più radicale, tenderà per regolarità metapolitica a
riformarsi, puntando su altre unità di misura, mezzi di scambio, eccetera.
Si pensi, per restare all'oggi,
a come sia difficile comporre il conflitto tra
monetaristi e keynesiani. E parliamo di una “guerricciola” interna al sistema
economico esistente che concerne non tanto la riforma qualitativa della moneta
quanto il suo controllo quantitativo. Ora, se il solo diminuire
(monetaristi) o far crescere (keynesiani) l’indebitamento dello stato implica
politiche economiche e fiscali capaci di provocare mutamenti
redistributivi del potere sociale politico e quindi in certa misura conflitti
sociali e politici, figurarsi quel che potrebbe causare il tentativo di
introdurre una radicale riforma della moneta in chiave qualitativa. Altro
che "guerricciola"...
Perciò il vero problema non è di tipo teorico: non
concerne la possibilità concettuale di rinunciare a una o
più funzioni economiche della moneta, bensì riguarda la necessità
di interrogarsi preventivamente e onestamente sull’ attuale composizione e
redistribuzione del potere sociale e politico, certamente imperfetta ma
migliore di altre epoche storiche. Ecco il dato reale
da cui partire. E non l' ipotetica società del
non-denaro, del quasi-denaro, del denaro-non-denaro e altre fumisterie
del genere. Perché creare false aspettative e disprezzo per la
realtà che ci circonda, così faticosamente costruita, evocando
società oniriche? Occorre invece senso della realtà, capacità
di restare a guardia dei fatti: l'intellettuale in particolare
deve rimanere vigile per aiutare le persone a
riflettere sui devastanti conflitti politici e sociali che una
riforma monetaria radicale potrebbe innescare. Insomma, mai
scherzare con il fuoco delle idee, mai confondere i sogni con la realtà: quel
che va evitato - ripetiamo - è di commettere, soprattutto
a livello cognitivo, l’errore del sognatore: di precipitarsi «contro i
muri con quella serietà sconcertante che può dare soltanto un’immaginazione
disordinata». E per andare dove? Il potere, come insegnano
storia e sociologia, tende sempre a riformarsi anche nelle società fondate sul
baratto, composte di tribù pronte a scendere
in guerra con altre tribù, appena le risorse
da barattare si facevano scarse: società arcaiche, dove tra l’altro
si viveva poco e male. E che dire dei più acculturati
e civili moderni? Nella Russia
post-1917 si auspicava non solo la riforma ma addirittura
l’abolizione della moneta… Possibile che la parabola bolscevica da Lenin a
Gorbaciov, dall'elogio « dei pagamenti non
monetari» a quello della « piena
convertibilità del rublo», non abbia insegnato nulla?
Chi di moneta “riformisce”, pardon ferisce, di moneta perisce.
Carlo Gambescia
giovedì 21 giugno 2012
La rivista della settimana: “Antarès. Prospettive
antimoderne” n. 1, 2011 (Il pensiero in cammino. Il camminare nelle sue valenze
spirituali, filosofiche e metafisiche), pp. 48; “Antarès. Prospettive
Antimoderne”, n. 2, 2012 (Un’altra modernità. Appunti per una critica
metafisica del nostro tempo), pp. 68, rivista trimestrale gratuita pubblicata
dalle Edizioni Bietti in versione cartacea e digitale.
http://www.antaresrivista.it/index.html . |
Può esistere una modernità senza progresso? Non è facile rispondere perché
è come indagare sul futuro di un' automobile priva di ruote…
Che farsene di una Ferrari con le quattro gomme fuori
uso? Che attendersi da una modernità
incapace di progredire? Del
resto gli stessi apologeti della modernità, preoccupati quanto
i denigratori, oggi preferiscono parlare di
post-modernità, ossia di una realtà né moderna né
antimoderna, assai simile a un inutile e malinconico
deposito di vecchie automobili in attesa di demolizione.
Il nostro giro di parole ha un senso preciso, e
spieghiamo subito quale: “Antarès” rivista diretta e pensata da Andrea
Scarabelli e da un gruppo, altrettanto giovane, di redattori (
benché direttore responsabile sia Gianfranco de
Turris, vecchia volpe cui va tutta la nostra stima...), sembra
arrovellarsi intorno al complicato quesito di cui sopra. Non
per nulla, e a proposito della nostra metafora automobilistica, uno dei
fascicoli che abbiamo sotto gli occhi - il n. 1 per l'esattezza - propone
il camminare come metafora di una modernità finalmente capace
di apprezzare il gusto di andare a piedi… Del resto a cosa si
fa cenno nel “Manifesto” pubblicato nello stesso fascicolo?
A « un antimodernismo che non si risolva in una sterile critica del
presente ma che sia in grado di fornire a questo ultimo strumenti che, invero,
sono GIA’ in suo possesso. Dotare la modernità di una metafisica alla sua
altezza: questa la celebre scommessa tra Faust e Mefistofele, della quale il
presente progetto si sente erede». In sintesi: « Curare la modernità
CON la modernità stessa. Questa è la scommessa intellettuale che anima le
presenti ricerche».
Ottimo. Perciò, per non uscire di metafora,
le «prospettive antimoderne», come recita il
sottotitolo, sono tali ma solo nei riguardi di una
modernità "motorizzata"... intenta a spostare
le linee del traguardo sempre più avanti, rifiutando di interrogarsi sul
senso della sua corsa.
Però, e qui torniamo alla questione iniziale, è possibile
una modernità senza progresso "incorporato"? In che
modo, per riprendere il fascinoso titolo della rivista, Antarès
potrà dialogare con il rivale Ares? Basterà una
nuova metafisica? O forse va attribuito un senso diverso al progresso,
proprio per mantenerlo a galla nel mare magnum
modernità. Detto altrimenti: serve di sicuro
una nuova metafisica ma - ecco il punto - capace di inglobare
un concetto "altro" di progresso. Quale
però? Ad esempio, si potrebbe rileggere l'opera di
Robert Nisbet, dove come mostra il ghiotto libro fresco di stampa di
Spartaco Puppo (Robert Nisbet e il conservatorismo sociale, Mimesis),
l'idea di progresso viene ricondotta - e depotenziata - nell'alveo di
quella domanda di comunità, innata nell'uomo; domanda, la cui persistenza
storica e sociologica rivela che il vero progresso non è
rappresentato dal cambiamento in quanto tale, bensì da
quei mutamenti in sintonia con il valore non
negoziabile (perché intramontabile) della comunità. Ovviamente,
Nisbet si riferisce alla comunità così come viene intesa nella
cultura anglo-americana: una comunità liberale che
non sia mera somma dei singoli individui, né
puro surplus sovraindividuale, ma un insieme
ordinato di pratiche e relazioni, rispettose delle
libertà dei singoli, incluse quelle economiche. Semplificando: un
olismo ben temperato, o comunque ritagliato su un equilibrio tra il tutto ( i
doveri) e le parti (i diritti), sempre attento al
rispetto delle opzioni individuali e delle scelte di
minoranza.
Ennesimo tentativo di quadratura del circolo,
anche quello di Nisbet? Forse. Ma quale idea regolativa
non lo è?
Del resto, piaccia o meno, senza un' idea di futuro (e di
progresso) non c’è modernità, e senza modernità
non c’è futuro (e progresso). Non è un gioco di parole: all'
uomo moderno, preda di un grande smarrimento, va offerta una
narrazione convincente e soprattutto integrale, capace
di fondere insieme passato, presente, futuro. Quindi svolta
metafisica, ma anche storica e sociologica. Di qui, l'impossibilità
di rinunciare all'idea di progresso, non disgiunta da quella
di comunità, nel senso però cui abbiamo
accennato. Altrimenti, qual è il rischio? Quello
di restare impantanati, come sta accadendo,
nella post-modernità. Che, ripetiamo, è una
modernità in attesa della sua “rottamazione”. Sempre che, ma su
questo "Antarès" si è giustamente defilata, non
si voglia riabbracciare la causa perduta del
"passatismo": errore uguale e contrario al
"presentismo". E la stessa cosa si potrebbe dire anche a
proposito del "futurismo", soprattutto
se inteso erroneamente come culto del
futuro in quanto tale.
Comunque la si pensi, non possiamo non porgere i
nostri auguri (e complimenti) ai giovani di
"Antarès", anche per il solo fatto di aver
così generosamente accettato l'ardua sfida. D'altronde,
dove non c'è sfida, non c'è neppure
"progresso" intellettuale...
Carlo Gambescia
mercoledì 20 giugno 2012
La proprietà è un furto? Dipende… Lasciamo però che il nodo venga
sciolto dall’amico Teodoro Klitsche de la Grange (*). E come?
Galoppando a tutta velocità su una pista molto particolare:
un paio millenni di pensiero politico e giuridico.
E ovviamente con il suo inconfondibile stile. Buona lettura. (C.G.)
Proprietà? Meglio se “quiritaria"...
di Teodoro Klitsche de la Grange
Su un settimanale molto diffuso è stata pubblicata un’intervista al prof.
Antonio (Toni) Negri, il quale ha indicato il rimedio al disordine (del
capitalismo e) della crisi finanziaria: “L’uscita dalla crisi capitalista, cioè
il «comune» della democrazia, va costruita attraverso l’espropriazione della
proprietà privata e la distruzione del potere pubblico, dello Stato”.
Capisco, che, come scriveva Manzoni, all’idee capita di
affezionarsi, anche a quelle sbagliate, ma, dopo il crollo (per implosione –
fatto più unico che raro nella storia) del comunismo, sarebbe il caso di
riflettere su certe “terapie” sconfitte dalla storia. Anche perché, se il
capitalismo non è il massimo, ricorrendo a certi rimedi – rifiutati dai popoli
che li hanno sperimentati – c’è il rischio di santificarlo.
Che la proprietà sia un furto è più che dubbio, ma che non
possa prestarsi – o si presti assai meno di altri istituti – alle speculazioni
finanziarie e alle loro conseguenze politiche, è sicuro.
Nella forma classica – che è quella del diritto romano – la
proprietà infatti è legata alla res: al fondo, alla casa, alla forza-lavoro
(gli schiavi), ai frutti, ai beni mobili e così via. Tante cose, ma tutte reali
(res) e in quanto tali suscettibili di appropriazione limitata.
Mentre il capitale finanziario non opera (prevalentemente)
con res, ma con titoli, cioè con documenti “rappresentativi” quasi sempre non
di una res, ma di un diritto; peraltro sempre più caratterizzati
dall’astrattezza e sempre più lontani dalla res (che, si noti – è la base etimologica
di realtà): la stessa vecchia, cara cambiale, inventata dai banchieri italiani
del medioevo (o dai Templari?) è un vero reperto archeologico
commercial-finanziario, dato che, bene o male, si trasmette per girata e col
possesso, che presuppone almeno di aver visto in faccia chi te la gira, ecc.
ecc.; e perciò è una vera lumaca tra titoli che si trasmettono
elettronicamente.
Più che Marx, aveva capito il futuro il visconte de Bonald,
vecchio controrivoluzionario, il quale di fronte al “nuovo ordine” borghese
scriveva “gli stessi uomini che chiedono a gran voce lo spezzettamento
illimitato della proprietà immobiliare, favoriscono con tutti i mezzi la
concentrazione senza freni della proprietà mobiliare o dei capitali.
L’appropriazione di terre ha per forza termine. Quella del capitale mobiliare
non ce l’ha, e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo”.
E il visconte ne avvertiva il pericolo politico, e non solo
economico. Se era una delle costanti dei regimi politici ispirati al “dispotismo
orientale” (Wittfogel) favorire la divisione della proprietà, onde evitare
concentrazioni di potere pericolose per quello politico, contro l’analoga
tendenza del capitale commerciale (ora finanziario – ch’è peggio) la difesa è
difficile, e i risultati – politicamente – devastanti; “gli arricchiti,
divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui
vendono assai cari zucchero e caffè. I Paesi Bassi contavano i più ricchi
uomini d’affari del mondo; nei piccoli cantoni Svizzeri non c’erano che pastori
e frati. Quale di questi due paesi ha meglio difeso la propria indipendenza,
onorandone gli ultimi momenti?”.
Quindi: checché ne pensi il prof. Negri, è la proprietà
classica, “quiritaria”, limitata (nei fatti) a difendere, a un tempo, autonomia
sociale e indipendenza politica. E, in misura non lontana da questa, altre
forme di proprietà diverse e collettive – residuo di una delle quali sono i
demani civici, inappropriabili.
Quanto alla sovranità, ai tempi di de Bonald era oggetto anche
delle preoccupazioni di Fichte il quale, per difenderla (e con essa la libertà
della nazione) proponeva di monopolizzare il commercio estero (e non solo);
List consigliava ai governanti di consentire al libero scambio solo se non
fosse di nocumento per lo sviluppo della ricchezza (industria) nazionale. Ma il
pericolo (politicamente) più evidente era stato avvertito da de Bonald il quale
avvertiva il condizionamento interno che concentrazioni di capitale mobiliare –
qualunque ne fosse la nazionalità – potevano arrecare alla sovranità, acquisita
così dagli “arricchiti”. Provate a sostituire gli “arricchiti” con i “mercati”,
ed avrete, alla lettera, la rappresentazione della situazione odierna.
Perciò, se può concordarsi con molte preoccupazioni del
prof. Negri, è sicuro che a portarci in questa situazione è non il regime
“classico” della proprietà privata – della cui “abolizione” non c’è nulla di
positivo da aspettarsi – ma di esserne, in concreto e nella situazione attuale,
semmai lontani.
Teodoro Klitsche de la Grange
Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura
politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo
specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001),
L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove
va lo Stato? (2009).
martedì 19 giugno 2012
Vaghi cenni sull’universo?
No. Anche se l’amico Carlo Pompei (*) oggi sembra divagare, in realtà,
mena alcuni fendenti niente male. Il “metodo” Pompei, anche in forma di
monologo, non delude mai. Buona lettura. (C.G.)
Monologo
La vita nel teatro della vita
di Carlo Pompei
Sipario
Buongiorno,
non fatevi domande di cultura generale, non siamo in un quiz
a premi, le risposte utili le abbiamo dentro, innate. Sappiamo già che cosa è
giusto e che cosa è sbagliato, ma mentiamo a noi stessi - prima che agli altri
- quando abbiamo paura o quando ci fa comodo. Spieghiamo le vele.
È giusto che muoia una persona prematuramente? È ancora “meno
giusto” che a morire sia un bambino? Una “zona grigia” si fa avanti: quella
“del più e del meno”. Un’ingiustizia o “è” o “non è”: bianco o nero, mai
grigio. Diritto e rovescio, alto e basso: non esistono vie di mezzo.
Le leve pseudo-morali, invece, si basano su strategie di
convinzione subliminale (di massa) e premono, appunto, sul più e sul meno.
L’esempio del bambino che muore di morte violenta serve a far capire il
meccanismo: per coprire, far dimenticare o giustificare un fatto, non c’è
niente di meglio che un avvenimento (venire dopo cronologicamente, ricordate?)
più grave del precedente. Come se per far cessare il mal di testa ci si desse
una martellata su un piede. È vero che un deflusso di sangue dal cervello
potrebbe realmente far sparire l’emicrania, ma se non succede (venire dopo
causale, non casuale), ci ritroveremo con due dolori, anziché uno soltanto.
Nella migliore delle ipotesi, comunque, il bilancio è in pareggio, e dove non
c’è guadagno…
Tutto questo lo diciamo per evidenziare che il mancato
introito (gettito fiscale) nelle Casse dello Stato è stato subito archiviato
dai media e dal governo come un aumento dell’evasione, quando, invece, si è
verificato a causa della chiusura di migliaia di attività di produzione e
commercio che, ovviamente, non pagano più le imposte. Chiedere “poco a chi ha
tanto” e “tanto a chi ha poco” non è una mossa intelligente, ma soltanto una
furbata dalla durata limitata e, soprattutto, dagli effetti disastrosi.
Questo perverso modo di procedere genera “escalation” spesso
drammatiche. Le vendette, le rappresaglie, le faide affondano le proprie radici
in “a-principi” che ognuno di noi rifiuta a priori, ma soltanto quando non ci
interessano direttamente. Nell’animo umano è nascosto l’istinto bestiale
coadiuvato dagli interessi materiali, vero humus fertile dell’aggressività.
Le condizioni ambientali sono importantissime affinché si
compia un’ingiustizia o un accadimento abbia un corso diverso dal prevedibile.
Un esempio: se un italiano subisce un tamponamento da un altro italiano
all’estero, dopo un piccolo screzio, prevale il campanilismo e si assiste ad un
abbraccio fraterno come accadrebbe tra vecchi amici che si incontrano dopo
tanto tempo. Se la stessa scena dovesse ripetersi in Italia, l’epilogo sarebbe
ben diverso. Pertanto si evincono due variabili fondamentali: il terreno di
scontro e il senso di appartenenza. Venendo meno una delle due, si vanifica
anche l’altra. Al proposito è stato commovente l’atteggiamento dei tifosi
irlandesi alla fine della partita persa contro la Spagna nei campionati di
calcio europei: cori di supporto e ringraziamento per l’impegno (vano) profuso
e non contestazioni da tifoso frustrato, un esempio di nazionalismo sano non
violento.
Con queste premesse non possiamo più permettere che la
nostra nazione venga “gestita” da cialtroni che pretenderebbero di
rappresentarla, ma che in realtà curano esclusivamente i propri interessi: la
terra è del popolo che la abita, non delle banche, teniamo a ribadirlo.
A questo punto dovrebbe esserci un applauso, ma non tutti
sono d’accordo: tra voi alcuni hanno le mascelle serrate, i denti digrignati,
gli occhi di brace.
Chi voleva applaudire (e lo ha fatto) appartiene al popolo
tartassato e sfruttato; chi ha le mascelle indolenzite e non voleva applaudire
(ma lo ha fatto lo stesso per non essere riconosciuto e linciato) appartiene
all’orda cialtronesca degli speculatori.
Ora, vi lasciamo in pace, in
compagnia della vostra coscienza, unica molla che può far avvenire il salto di
qualità della vita di ogni componente di una comunità degna di tale
definizione.
Di nuovo buona giornata a tutti
Carlo Pompei
Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena
nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a
disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura,
illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.
lunedì 18 giugno 2012
I risultati elettorali in Grecia e Francia
Cara vecchia democrazia rappresentativa...
In Grecia hanno vinto i conservatori pro-Euro, in Francia
nuovamente i socialisti, anch’essi favorevoli alla moneta unica, Ma riusciranno
a governare? La maggioranza socialista di Hollande sembra solida, tuttavia già
si accenna a possibili fratture interne in grado di indebolire il
governo. Per contro, in Grecia, dove i conservatori hanno vinto per un
pelo, i socialisti hanno già hanno alzato il prezzo per partecipare alla pur
necessaria coalizione governativa. Inoltre, in
Francia come in Grecia sono entrati in parlamento i
neo-fascisti di Marie Le Pen e i neo-nazisti di Alba Dorata. Per non parlare
del successo della sinistra radicale greca, connotata da una pericolosa anima
populista, del resto assai simile a quella della sinistra ecologista e radicale
francese.
Certo, questi risultati possono piacere o
meno. Tuttavia - ecco il punto importante - grazie al nostro
sistema di democrazia rappresentativa sono una fotografia della realtà:
“rappresentano” simbolicamente un’ Europa incerta e divisa tra il passato (lo
stato nazione) e il futuro (l’unità politica europea). Fotografia di
cui dobbiamo prendere atto. E' vero, con le divisioni è difficile
governare, però la forza e la debolezza della democrazia
rappresentativa ( a prescindere dal sistema elettorale scelto), sono proprio
qui: nella capacità, storicamente unica, di “rappresentare” tutte le forze
politiche, addirittura anche quelle nemiche della
democrazia. Pertanto ci troviamo davanti a un' eccellente forma di
democrazia liberale: liberale perché tutela le minoranze, tutte le minoranze,
anche, come si usa dire, con il solo “diritto di tribuna”:
diritto, detto per inciso, sul quale nell'Europa
libera si fa della facile ironia, trascurando il fatto
che esistono nel mondo stati dove il dissenso si punisce
con la prigione o con la fucilazione.
Una capacità di "rappresentare" che tuttavia rende
difficile il compito dell’ esecutivo, anche dove
viene rafforzato introducendo procedure costituzionali ed
elettorali capaci di favorire la governabilità. Semplificando,
diciamo che il principale problema della democrazia rappresentativa
è costituito dal laborioso -
per alcuni fin troppo - perseguimento della sintesi politica: quella sintesi
che deve prima precedere e poi
accompagnare la decisione politica:
decisione inderogabile, pena la progressiva dissoluzione del sistema
politico, anzi di qualsiasi sistema politico. Insomma, si
tratta - impresa non sempre facile - di fare in modo che
nella democrazia rappresentativa la logica della politica non si
trasformi mai in politica della logica. O, detto altrimenti
che al dibattito con sintesi non si
sostituisca regolarmente il dibattito ad infinitum.
Ovviamente, esiste anche un altro problema - oggi molto
sentito, forse troppo... - quello della qualità morale e
professionale dei “rappresentanti”, o se si preferisce della classe
politica. Una questione che rinvia ai meccanismi di rappresentanza e
in particolare ai partiti che ne sono il veicolo. Tuttavia, pur con tutte
le criticate carenze, i partiti restano uno strumento insostituibile. Del
resto, la composizione - per valori, ideali, norme -
dei partiti riflette quella del corpo sociale. E non sempre è detto che
una società, in termini di valori, ideali, norme, sia migliore dei partiti
politici che esprime. Insomma, che il
"rappresentato" sia migliore del
"rappresentante". Problema, in verità,
irrisolvibile, anche con il tanto invocato
ricorso alla democrazia diretta (ammesso e non concesso che
funzioni...).
Concludendo, il sistema della democrazia
rappresentativa resta pur con tutti i difetti, l’unica forma di democrazia
empiricamente realizzabile. Credere nella democrazia “diretta” o in una
democrazia “organica”, dove, come si legge, i partiti non sarebbero necessari,
significa spalancare le porte alla tirannia demagogica , e non importa se della
maggioranza o di un autocrate.
Carlo Gambescia
venerdì 15 giugno 2012
Le radici di un movimento
Anarchici per caso?
Quali sono le radici sociologiche della “rabbia
anarchica" (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2012/06/14/Terrorismo-rete-rabbia-anarchica-finita-_7038599.html
)? Piccola premessa: nella moderna società
industriale pensiero e agire rivoluzionario,
fenomeni che ne hanno accompagnato lo sviluppo, si sono
mossi lungo tre percorsi ideologici ( anarchismo,
socialismo, marxismo), seguendo tre formule organizzative
(rete terroristica, parlamentarizzazione, professionismo rivoluzionario).
Sul piano sociologico, l’ anarchismo si
è sviluppato arrampicandosi rabbiosamente
sulla roccia del terrorismo, il socialismo
perseguendo, non senza dubbi, la
faticosa strada della parlamentarizzazione,
il marxismo intrecciando e scambiando, più o
meno astutamente i sentieri del
terrorismo, della parlamentarizzazione e del professionismo
rivoluzionario. Di riflesso, lo sviluppo dell’
anarchismo, del socialismo e del marxismo, quali attori collettivi, ha
seguito strade differenti, spesso conflittuali, a causa
degli opposti giudizi “soggettivi”, o politici, sulla “forma
partito” ( oltre che, ovviamente, sulla esistenza stessa della "forma
stato") : osteggiata dagli anarchici, accettata da socialisti e
marxisti, a loro volta, però fortemente divisi sul
significato da attribuire alla parlamentarizzazione: fine
(socialdemocratici) o mezzo (comunisti)? Cosicché sul piano
storico “oggettivo” si è registrato un movimento pendolare: per
tutto o buona parte dell’Ottocento il movimento
anarchico è cresciuto a causa dell’assenza di partiti
organizzati a sinistra, regredendo, e di molto, nel
Novecento grazie allo sviluppo parlamentare dei grandi
partiti socialdemocratici e comunisti.
A grandi linee, si può asserire che per quel che concerne
l’Occidente, e in particolare l’Europa liberale, la parlamentarizzazione dei
partiti socialisti e comunisti ha finora influito
sullo sviluppo dei movimenti anarchici: quanto più è cresciuto il
consenso politico-elettorale verso la sinistra parlamentare e riformista, tanto
più è diminuito il consenso verso la sinistra extraparlamentare e
radicale, nonché, in particolare, nei riguardi del
terrorismo anarchico.
Si tratta di un meccanismo sociologico molto semplice.
Perciò l' attuale “rabbia anarchica”, oltre che dipendere come
abbiamo visto da una scelta organizzativa iniziale, pare
essere “sociologicamente” figlia di una sinistra incapace
di intercettare e parlamentarizzare il malessere sociale.
Insomma, il pendolo sembra
ritornare in direzione dell' anarchismo. E anche
se può essere presto per dare giudizi definitivi, un
fatto resta più che sicuro: la pura repressione
rischia di non essere assolutamente sufficiente.
Certo, con una spesa sociale ridotta all’osso, non è
facile trovare risposte sul “come” intercettare una “rabbia
sociale" che potrebbe diffondersi. Tuttavia è bene
rendersi conto di certi "pendolarismi" sociologici e dei
pericoli, qualora essi vengano ignorati, in cui può incorrere la nostra
democrazia.
Carlo Gambescia
giovedì 14 giugno 2012
Le riviste della
settimana:“Éléments”, avril-juin 2012, n° 143,euro 5,50; “Krisis”
(Monothéisme?/ Polythéisme?), n° 36, février 2012, euro 22,00; “Krisis”
(Religion?), n° 37, avril 2012, euro 23,00 -
http://www.revue-elements.com/ |
Da non perdere l’ultimo fascicolo di “éléments” ( avril-juin 2012, n° 143, euro
5,50), per il denso focus su Jean- Jacques Rousseau. Pensatore
atipico, come ricorda nel vivace editoriale Robert de Herte
(Alain de Benoist): « Come Leo Strauss aveva giustamente rilevato, Rousseau
appartiene alla seconda ondata della modernità (Machiavelli, rinvia alla prima,
Nietzsche alla terza). Scrittore ineguagliabile, principale teorico del primato
della politica, deciso avversario dei Lumi, tra le cui file viene ancora
ostinatamente arruolato, Rousseau non fu solo un precursore del romanticismo o
dell’ecologismo, ma va inserito tra gli autentici fondatori della psicologia
moderna e della sociologia critica. Di qui l’impossibilità di etichettarlo (…).
Rousseau rivoluzionario conservatore? È giunta l'ora di riaprire il
dossier».
“éléments”, ospita, tra gli altri, interessanti
articoli sulle derive del pacifismo (Robin Turgis e Flora Montcorbier), sulla
città post-moderna (Pierric Guittaut e Pierre Le Vigan) e su… Napoleone e
Garibaldi (Yves Branca e Michel Marmin). Come sempre ricchissima la parte
dedicata a recensioni e segnalazioni librarie.
Il Rousseau, teorico della religione civile,
rinvia ai densi fascicoli di “Krisis” dedicati rispettivamente a
Monothéisme?/ Polythéisme? ( n° 36, février 2012, euro 22,00 ) e Religion? ( n°
37, avril 2012, euro 23,00).
Del primo fascicolo (Monothéisme?/ Polythéisme? )
ricordiamo, tra gli altri, gli articoli di Jean Soler (Pourquoi le
monothéisme?), Thibault Isabel (Dieu, l’Un et le Multiple. Réflexion sur les
deux formes fondamentales de religion) e le interessanti interviste a François
Flahault (La conception de l’homme et de la societé chez le chrétiens et chez
le païens), Michel Maffesoli (Vers un nouveau polythéisme des valeurs),
Philippe Simonnot (La vie économique des religions).
Del secondo fascicolo ( Religion?),
vanno segnalati in particolare gli articoli in
continuità con il fascicolo precedente. A cominciare da quelli di
Thibault Isabel ( Plaidoyer contre l’intolérance laïque), Paul Masquelier (La
religion comme facteur de développement historique. Retour sur la pensée de
Jacob Burckhardt) e le interviste a Tariq Ramadan (Considérations sur l’Islam,
la religion et la société moderne), Raphaël Liogier (La mondialisation du
religieux) e Bernard Hort (Le bien, le mal et le monde. Réponses d’un auteur croyant à certaines
attaques contre le christianisme).
Va rilevato che i due fascicoli si muovono teoricamente
nell’alveo di un intelligente pluralismo cognitivo. Un’ apertura che ritroviamo
sempre nei libri e nelle riviste dirette da Alain de Benoist.
Il quale, è bene non dimenticarlo mai, resta innanzitutto uno studioso,
un grande studioso. Le sue battaglie, un po' come quelle
inizio Novecento di Georges Sorel (altra singolare figura di studioso
e pensatore insieme), prima che politiche sono cognitive, o se si
preferisce epistemologiche: questa è la “cifra”
metapolitica, ma in realtà metodologica, per capire a
fondo il pensiero debenoistiano. E, cosa non
secondaria, per evitare di perdere tempo,
rincorrendo i suoi cloni, per giunta
lillipuziani. Di riflesso, nei due fascicoli non viene lasciato
spazio a fondamentalismi di qualsiasi genere: laici, religiosi e...
pagani. In certo senso, si prende la giusta distanza, sul piano
epistemologico, da quella che forse rappresenta la parte teoricamente
più ambigua del pensiero di Rousseau: l’idea di religione
civile. E in che modo? Valutandone i pro e i contro. E qui
lasciamo ai lettori il piacere di scoprire la qualità teorica della
discussione a più voci, tipica di riviste
come “éléments" e "Krisis".
Concludendo, il politeismo, proprio perché inquadrato
"debenoistianamente" sotto l’aspetto cognitivo, viene
reinterpretato alla luce degli errori commessi non solo dai moderni, ma anche
dagli antichi. Per Alain
de Benoist nessuno è perfetto.
Carlo Gambescia
mercoledì 13 giugno 2012
Autunno della modernità?
Ne L’Autunno del Medio Evo, un' opera magnifica, scritta da Johan Huizinga (1872-1945), dove storia, sociologia e filosofia della cultura marciano vittoriosamente insieme, lo storico olandese tratteggia sommessamente, quasi en passant, tre fondamentali modalità umane per accostarsi all’ «idea di vita bella»: la prima, conduce fuori del mondo, lungo i sentieri della rinuncia; la seconda, porta al perfezionamento del mondo stesso; la terza guarda al « regno dei sogni». Scrive lo storico: “È la via più comoda, ma sulla quale la meta si mantiene sempre ugualmente lontana. Se la realtà terrena è così penosa e senza speranze, e la rinunzia al mondo così difficile coloriamo la vita di belle apparenze, viviamo in un paese di sogni e luminose fantasie, mitighiamo la realtà con l’estasi dell’ideale. Basta un semplice tema, un unico accordo perché risuoni la fuga rasserenante: basta uno sguardo gettato sulla felicità fiabesca in un passato più bello, sul suo eroismo e sulla sua virtù, oppure anche basta il giocondo raggio di sole della vita in mezzo alla natura, il piacere della natura. Su questi pochi temi, il tema eroico, quello della saggezza e quello bucolico, si è formata tutta la cultura letteraria dall’antichità in poi. Medioevo, Rinascimento, secolo decimottavo e decimonono, tutti insieme trovano poco più che nuove variazioni della vecchia canzone» (L’autunno del Medio Evo, Sansoni 1971, pp. 45-46).
E i secoli ventesimo e ventunesimo? Il libro di Huizinga uscì nel 1919, dopo il grande macello europeo. Ne seguì un altro, di macello, ben più grave e feroce. Dopo di che la «fuga rasserenante» travolse anche la cultura letteraria… Come del resto non poteva non essere, dopo due terribili guerre mondiali. Per andare dove? Nel Paese dei Balocchi... Paese, situato non sulla Luna ma sulla Terra: un Bengodi rasserenante e soprattutto a portata di mano, anzi di tasca, grazie ai miracolosi consumi crescenti di desideratissimi beni materiali.
Oggi invece sembrano riaffacciarsi gli ideali eroici e agresti… Intesi, anch’essi, non più come pura e semplice fuga nella letteratura: ai balocchi consumistici taluni sembrano preferire la spada, talaltri il vincastro, altri ancora le due cose insieme. Autunno della modernità? E per andare dove? Verso uno strampalato, ma probabilmente non innocuo, Medio Evo post-moderno?
Carlo Gambescia
Carlo Gambescia
martedì 12 giugno 2012
La crisi economica tra craze e tentazioni dirigiste
Che cosa vogliono le Borse? O meglio le società di investimento che vi sono dietro? Fare profitti, comprando e vendendo di tutto. E a danno - esclusi i propri investitori - di tutto e tutti. E più la situazione si fa instabile, più crescono i profitti speculativi. Qualcosa di molto difficile da controllare. Come abbiamo scritto in un post precedente ( http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/search?q=craze+ ) siamo davanti a un fenomeno a metà strada tra sociologia, psicologia sociale e antropologia. Ma come si dice, repetita juvant.
A cosa ci riferiamo? Al craze (mania, smania, voga). Si
parla di un atteggiamento di tipo emulativo e aggregante. Semplificando,
il craze può essere paragonato al timore di perdere il treno sul quale
tutti stanno invece salendo... Treno che potrebbe passare una sola volta ...
nella vita... Perché perderlo allora? Il concetto risale a
Neil J. Smelser, sociologo americano, autore di un dotto studio
uscito circa mezzo secolo fa (Theory of Collective Behavior,
trad. it. Vallecchi, 1968, pref. di Francesco Alberoni). Il craze, fenomeno
collettivo che secondo Smelser è possibile rilevare anche in altri
campi della vita sociale (bandwagon politico, revival religioso, moda), rimanda
come sfondo culturale alla credenza, piaccia
o meno, nella possibilità di arricchirsi. Perciò, attenzione, lo ritroviamo in
due precisi momenti: prima - in termini positivi - alla base
di un boom speculativo, dopo - con segno negativo - nella successiva fase di
fuga dagli investimenti, per non perdere quel "treno", per
restare in metafora, che ora invece va in direzione opposta.
Ma cediamo la parola a Smelser: “L’ansietà sorge dall’incertezza sugli
esiti degli investimenti abituali delle ricchezze e dall’incertezza sui modi
per valorizzare gli investimenti. Questa incertezza, comunque, non porta al
panico finché c’è del capitale con cui risolvere il problema. Questa
combinazione unica di incertezza, più una quantità di capitale, produce la
credenza generalizzata che le incertezze possano essere superate con l’uso di
adeguati correttivi” (trad. it. cit., p. 364).
La frase chiave per collegare il craze alla
crisi in corso è “finché c’è capitale con cui risolvere il
problema”. Un capitale garantito - attualmente - dai bassi tassi di interesse e
dal rifinanziamento pubblico delle banche. E qui si pensi all’ intervento Ue in
favore delle banche spagnole.
Quale alternativa? Far fallire le banche e
di conseguenza tagliare la liquidità e quindi
la stessa possibilità di finanziamento della
speculazione. A che prezzo però? Di provocare una
recessione ancora più grave di quella in atto. Un vicolo se non cieco,
molto molto stretto... Dal quale, secondo alcuni, si potrebbe uscire,
nazionalizzando le banche e introducendo misure dirigistiche. Però il dirigismo
imporrebbe il passaggio a un’economia chiusa. E qui sorge un altro
quesito: dirigismo autarchico, d'accordo, ma a quale
livello? Nazionale, continentale, mondiale? A livello nazionale sarebbe
possibile, ma con risultati disastrosi per il tenore di vita. A livello
continentale, forse, ma sotto l’egida dello strapotere politico-economico
di stati-guida e con costi sociali non indifferenti. A livello mondiale,
infine, dirigismo e autarchia, implicherebbero il ritorno a guerre
fredde, sempre suscettibili di trasformarsi in guerre calde...
Carlo Gambescia
La crisi economica tra "craze" e tentazioni dirigiste
Che cosa vogliono le Borse? O meglio le società di
investimento che vi sono dietro? Fare profitti, comprando e vendendo di tutto.
E a danno - esclusi i propri investitori - di tutto e tutti. E più la
situazione si fa instabile, più crescono i profitti speculativi. Qualcosa di
molto difficile da controllare. Come abbiamo scritto in un post precedente
( http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/search?q=craze+
) siamo davanti a un fenomeno a metà strada tra sociologia,
psicologia sociale e antropologia. Ma come si dice, repetita juvant.
A cosa ci riferiamo? Al craze (mania, smania, voga). Si
parla di un atteggiamento di tipo emulativo e aggregante. Semplificando,
il craze può essere paragonato al timore di perdere il treno sul quale
tutti stanno invece salendo... Treno che potrebbe passare una sola volta ...
nella vita... Perché perderlo allora? Il concetto risale a
Neil J. Smelser, sociologo americano, autore di un dotto studio
uscito circa mezzo secolo fa (Theory of Collective Behavior,
trad. it. Vallecchi, 1968, pref. di Francesco Alberoni). Il craze, fenomeno
collettivo che secondo Smelser è possibile rilevare anche in altri
campi della vita sociale (bandwagon politico, revival religioso, moda), rimanda
come sfondo culturale alla credenza, piaccia
o meno, nella possibilità di arricchirsi. Perciò, attenzione, lo ritroviamo in
due precisi momenti: prima - in termini positivi - alla base
di un boom speculativo, dopo - con segno negativo - nella successiva fase di
fuga dagli investimenti, per non perdere quel "treno", per
restare in metafora, che ora invece va in direzione opposta.
Ma cediamo la parola a Smelser: “L’ansietà sorge dall’incertezza sugli
esiti degli investimenti abituali delle ricchezze e dall’incertezza sui modi
per valorizzare gli investimenti. Questa incertezza, comunque, non porta al
panico finché c’è del capitale con cui risolvere il problema. Questa
combinazione unica di incertezza, più una quantità di capitale, produce la
credenza generalizzata che le incertezze possano essere superate con l’uso di
adeguati correttivi” (trad. it. cit., p. 364).
La frase chiave per collegare il craze alla
crisi in corso è “finché c’è capitale con cui risolvere il
problema”. Un capitale garantito - attualmente - dai bassi tassi di interesse e
dal rifinanziamento pubblico delle banche. E qui si pensi all’ intervento Ue in
favore delle banche spagnole.
Quale alternativa? Far fallire le banche e
di conseguenza tagliare la liquidità e quindi
la stessa possibilità di finanziamento della
speculazione. A che prezzo però? Di provocare una
recessione ancora più grave di quella in atto. Un vicolo se non cieco,
molto molto stretto... Dal quale, secondo alcuni, si potrebbe uscire,
nazionalizzando le banche e introducendo misure dirigistiche. Però il dirigismo
imporrebbe il passaggio a un’economia chiusa. E qui sorge un altro
quesito: dirigismo autarchico, d'accordo, ma a quale
livello? Nazionale, continentale, mondiale? A livello nazionale sarebbe
possibile, ma con risultati disastrosi per il tenore di vita. A livello
continentale, forse, ma sotto l’egida dello strapotere politico-economico
di stati-guida e con costi sociali non indifferenti. A livello mondiale,
infine, dirigismo e autarchia, implicherebbero il ritorno a guerre
fredde, sempre suscettibili di trasformarsi in guerre calde...
Carlo Gambescia
lunedì 11 giugno 2012
Di rado gli osservatori discutono seriamente
del governo "tecnico" targato professor Monti (nella foto
al suo completo). E soprattutto dal punto di vista della scienza
politica: ci si perde, come capita di leggere,
nell’analisi puramente giornalistica di dettagli privi di
valore, o peggio di particolari, magari reinventati alla luce
di fantasie cospirative.
Consigliamo perciò ai nostri lettori, anche
per scoprire le ragioni del suo flop, di approfittare
del post di oggi, scritto con la consueta verve
analitica dall’amico Teodoro Klitsche de la Grange .
Buona lettura. (C.G.)
.
Il flop del governo tecnico: colpa di Monti o di una
classe dirigente in declino?
di Teodoro Klitsche de la Grange
Diciamo la verità: per aumentare le tasse sulla casa e la
benzina bastava un qualsiasi governo doroteo e non certo l’osannato (dalla
stampa) governo di geni (e tali perché tecnici). Il fatto pone tuttavia una
serie di quesiti, su quali è bene tornare ancora volta e in termini di sapere
storico e politico; quesiti che giriamo al lettore.
Primo: il governo Monti ha evidenti sponsor esteri, da cui
(e verso cui) manifesta dipendenza. Ma questa è una distinzione quantitativa
(rispetto ai governi della Repubblica) più che qualitativa: nel senso che tutti
i governi italiani l’hanno avuta, dal 1944 in poi. E che avvertiva Orlando (Vittorio
Emanuele) quando alla Costituente tacciava di “cupidigia di servilità” (verso
lo straniero) il governo (e la classe politica) di allora. Quello di Monti ne
dipende (dall’estero) ancora di più e non lo nasconde anzi, a tratti, lo
rivendica e sembra farne merito e motivo d’orgoglio. Ma la causa non ne è forse
la recente storia del dopoguerra, la costituzione vigente e una classe politica
consapevole di avere avuto il potere dai vincitori del secondo conflitto
mondiale? E quindi il prof. Monti è solo l’effetto ultimo ed evidente di una
“sovranità limitata” imposta da (quasi) settant’anni per cui è difficile
criticare (solo) l’ultimo arrivato.
Secondo: le “trovate” del governo, (tipo aumento delle
accise, IMU, ecc. ecc.) rivelano meno fantasia che coraggio. Ma anche qua,
siamo proprio sicuri che abbiamo soltanto una classe politica di basso profilo,
dedita più alla carriera che al servizio dell’interesse generale? O la menda va
rivolta all’intera classe dirigente, cioè a tutti coloro che detengono una
“posizione di potere sociale” (pubblica o privata che sia)?
Anni fa in un libro di buon successo
si additava come “casta” la classe politica. Che molto di vero ci fosse,
è chiaro: perché di caste in Italia ve ne sono tante. Ovvero tante
“oligarchie”, poco (o punto) accessibili e quindi chiuse, autoreferenziali e
riproducentesi per cooptazione. Il che, a giudizio di Pareto, tende a limitare
la circolazione delle élites e quindi a farle decadere (e con loro
la società). Che nell’università italiana non si trovino da decenni i Gentile,
i Fermi, i Santi Romano; che nell’industria la razza dei Giovanni Agnelli
(senior, s’intende) e dei Valletta, dei Mattei sia rimasta senza eredi (almeno
di quel livello) è evidente. E così si potrebbe continuare per il sindacato, le
istituzioni finanziarie (pubbliche e private), la letteratura e lo spettacolo.
Non mi ricordo che nessuno abbia notato, come, negli ultimi anni, i più
prestigiosi premi internazionali conferiti ad italiani erano a due attori
comici, il che significa che ciò in cui eccellono gli italiani contemporanei è,
secondo l’opinione degli stranieri, la comicità. Non per nulla un altro comico
si è candidato, per ora a fare il capo dell’opposizione, subito dopo il
Presidente della Repubblica.
Non si può pretendere che da una classe dirigente in
declino, Monti traesse altro che quello che ha; piuttosto credere che trovasse
qualcosa di meglio è una delle aspettative coltivate da una stampa prona e
incensante, il cui contraccolpo il governo sta subendo.
La realtà è che il merito ascritto a Monti & Co. è
proprio quello che, agli occhi di ogni democratico, sincero e smaliziato, è il
difetto più evidente: di non essere stato eletto e legittimato (e quindi
influenzato) dal popolo; che è pregio agli occhi dei “poteri forti”. Tant’è
che, quando Berlusconi era tornato al governo, i mezzi d’informazione da quelli
condizionati (quasi tutti) hanno cominciato a interrogarsi, indagare,
demonizzare il “populismo”. In realtà sotto quel termine nascondevano il loro
timore per il popolo e un governo da questo plebiscitato. Hanno fatto tesoro di
parte del giudizio di Montesquieu che il popolo ha centomila braccia (e
potrebbe usarle per prendere a bastonate i governanti); e dimenticato subito il
seguito (del pensiero di Montesquieu) che il popolo ha grande capacità di
scelta di coloro cui affida parte della propria autorità.
Ma non è dato vedere come possa esserci una democrazia senza
popolo e senza scelte di questo: credere a ciò è come ritenere possibile una
teocrazia senza preti, o un’aristocrazia senza nobili. Un bisticcio di parole
per occultare la realtà. Ma a lungo andare un governo “tecnico” in uno Stato
democratico è debole perché gli manca una parte essenziale del circuito
politico (capo-seguito, ovvero comando-obbedienza).
In uno Stato la forza di un governo è data – almeno per metà
– dal consenso del popolo, e in uno democratico ancora di più, onde alla fine
un governo non legittimato finisce per essere quello che poi è: privo del
(principale) elemento di forza, è un governo debole, anche se avesse i pregi
ascrittigli dagli organi d’informazione. Proprio quello che vogliono i “poteri
forti”. Poteri, secondo le ultime dichiarazioni
del professor Monti, che ora però sarebbero sul punto
di affondarlo... Ma questa è un’altra storia.
Teodoro Klitsche de la Grange
Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura
politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo
specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001),
L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove
va lo Stato? (2009).
venerdì 8 giugno 2012
Gianfranco Fini?
Un perfetto analfabeta politico
Gianfranco Fini, annunciando l’Assemblea dei Mille, dove
verrà decisa la linea politica di Futuro e Libertà, ha rivendicato « il merito
di aver fatto cadere Berlusconi». Ora, il “tradimento” in politica -
perché di questo si è trattato per l’ex delfino di Almirante - ha una sua
giustificazione in termini di scienza politica quando è legato alla lotta per
conquistare più potere: lotta che ovviamente viene nobilitata dal “traditore” di
turno ricorrendo a motivazioni di tipo idealistico (bene comune, salvezza della
nazione, e così via).
In realtà, dal punto divista della scienza politica,
il plusvalore politico di un “tradimento” è
commisurato alla quantità di potere differenziale (in termini di
aumentata capacità di influire sul sistema delle scelte politiche), che
una determinata forza politica riesce a conseguire con qualsiasi mezzo,
incluso, per l'appunto, il "tradimento"
dell'alleato (mezzi, ovviamente rapportati, di volta in volta, al tipo
regime in cui essa opera). Sotto questo profilo, finora la politica del
partito guidato da Fini, dopo la momentanea euforia del dicembre
2011, si è tradotta in un insuccesso: Fli è isolato politicamente,
diviso al suo interno tra una destra e una sinistra e privo di qualsiasi potere
di influenza sulle decisioni politiche.
Quale era l’ alternativa? Probabilmente, quella di restare
all’interno del Pdl, puntando sulla graduale conquista dall’interno del partito
fondato da Berlusconi: sarebbe bastato esercitare, con intelligenza,
quella pazienza che distingue i veri leader.
Questo nostro approccio può risultare “antipatico”, perché
ignora le questioni ideali, dettate dall'etica dei princìpi. Ma su
questo aspetto siamo d’accordo con Giuseppe Prezzolini, il quale sosteneva che
« esiste l’uomo di Stato cristiano, nella sua coscienza, ma non esiste uno
Stato cristiano» (Cristo e/o Machiavelli, Longanesi 1971, p. 43, corsivo nel
testo). Ossia, sul piano individuale, si può sposare la più diversa religione
(l’uomo di stato cristiano) - e aggiungiamo, “morale” - dopo di che però
bisogna fare i conti con l'etica dei mezzi, fondata sul rispetto delle
regolarità della politica, tra le quali c’è la
ricorrente volontà egemonica, tipica degli
uomini, di impadronirsi del potere, usando,
di volta in volta, le tecniche della "volpe" o del
"leone": rispettivamente l'inganno o la forza.
Regolarità, insomma, che impongono scelte opposte a quelle religiose e
morali (non esiste perciò uno Stato cristiano, o per capirsi morale).
Ovviamente, sono esistiti leader politici che hanno cercato di fondare stati
cristiani o morali, ma con pessimi risultati, come mostrano le guerre europee
di religione e i totalitarismi confessionali (in senso morale-ideologico)
novecenteschi.
Il vero leader politico, soppesando le varie alternative,
deve invece puntare sul giusto equilibrio tra lotta per il potere e
valutazione degli effetti sociologici di ricaduta delle lotte politiche sulla
stabilità del sistema economico e sociale. Insomma, oltre un certo limite
è meglio non spingersi, pena la dissoluzione del sistema. Si tratta
di un equilibrio non facile, sempre storico, perché legato
alle doti o qualità degli uomini al comando, alla
quantità di risorse economiche impiegabili, alla natura degli eventi e al ruolo
del caso e della fortuna.
Perciò, per concludere su Fini, ci troviamo davanti a
un perfetto analfabeta politico: un caso da manuale. Per ora, l’ex
delfino di Almirante, nonostante la lunga militanza, ha mostrato di non
capire nulla delle regolarità della politica, oltre a brillare,
naturalmente, per la sua doppiezza morale. Ma il rispetto delle
norme morali, come detto, in politica conta fino a un certo
punto. Pertanto, mettendola brutalmente, se l’imperativo è
"vendersi" per conquistare più potere, diciamo che Fini si
è "venduto" per il famigerato piatto di
lenticchie.
Carlo Gambescia
giovedì 7 giugno 2012
Il libro della settimana: Giuseppe D’Alessandro, Bestiario
giuridico 1, Angelo Colla Editore, pp. 152, euro 9,90.
«Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?». Un degno quesito
dantesco, che si è posto anche Giuseppe D’Alessandro, avvocato cassazionista,
che esercita da trent’anni la professione forense sulla sponda sicula dello
Stretto. Purgatorio anche quello? Mah… Comunque sia, la domanda, si è
concretizzata in un gustoso libro: Bestiario giuridico 1 (Angelo Colla Editore).
Un volumetto, rinfrescante come una granatina siciliana al limone. E perché no?
Pure «câ briosci» della sedimentata e saporosa cultura giuridica dell’avvocato
D’Alessandro. Un libretto, dicevamo, dedicato alle « leggi che fanno ridere e
sentenze che fanno piangere dal ridere »… Per inciso è in libreria, anche il
seguito, Bestiario giuridico 2, stesso editore, dove ci si occupa
dei « mille modi con cui gli italiani si insultano e finiscono in tribunale».
Ovviamente, una (seconda) lettura da non perdere.
Ma veniamo a Bestiario giuridico 1 .
D’Alessandro ha saggiamente scelto la strada del castigat ridendo mores.
Benché mostri di subito di (ri)conoscere una verità su cui c’è poco da
scherzare. Quale? Che « entrare nel girone infernale della Giustizia italiana
costituisce un tale dramma che chi ne fa esperienza non lo scorderà tanto
facilmente» .
A suo avviso, due sarebbero le cause di una giustizia
elefantiaca e spesso ingiusta: la pessima formulazione di leggi e sentenze,
nonché l’incontinenza legislativa… Quante sono le leggi in Italia? Secondo
l’autore « nessuno è in grado di saperlo, nemmeno in maniera approssimata. Chi
dice 250.000, chi 350.000. Nel sito governativo www.semplificazionenormativa.it
si afferma che le leggi pubblicate sarebbero addirittura 430.000 ».
Inoltre, la prima causa qualitativa - quella dell’italiano
approssimativo - si salda, e in maniera perversa, al «problema quantitativo».
D’Alessandro pone giustamente l’accento sulla fitta selva di modifiche, a ogni
livello, che di regola prolifera in maniera metastatica intorno a un
qualsivoglia articolo di legge, magari all’inizio stringato. Ad esempio,
scrive, «uno degli articoli più martoriati (…) è il 34 del codice di procedura
penale che si occupa dei casi di incompatibilità del giudice a trattare un
processo, dopo che in qualche modo gli sia “passato tra le mani”». Si tratta
perciò di un articolo che «meriterebbe l’Oscar delle modifiche », dal momento
che «il testo originario dell’art. 34 c.p.p. conteneva 159 parole, il testo
modificato dal legislatore ne contiene 340, cioè più del doppio; il testo
vigente, comprendente le 18 pronunce di incostituzionalità, ne contiene ben
2470, quasi 22 volte in più del testo originario” » . Insomma, proprio come
diceva il saggio Hegel: il Diavolo è sempre nel dettaglio. Il problema però,
nel caso della giustizia italiana, è quello di trovarlo il dettaglio…
Dicevamo, castigat ridendo mores. La casistica è veramente
ricca e disposta per titoli molto invitanti: si va dal «Sesso e dintorni» al
«Sesso senza sesso » fino alle «Liti bagatellari » (titolo, in verità, non
proprio invitante …), ossia le liti di scarso rilievo, che però in sede
giudiziaria si protraggono per decenni.
Una chicca da «Sesso e dintorni»: la coscia di una signora
sembra essere più erotica del sedere… Infatti, se da un lato si condanna un
dentista (sentenza 14 dicembre 2001), per il toccamento «subdolo e seppure
fugace» della coscia di una paziente, per l’altro, la Corte di Cassazione(
Sentenza 25 gennaio 2006 n. 7639) ritiene « il “toccamento dei glutei” non
configurare il delitto di violenza sessuale, ma trattarsi di semplice molestia
punita ai sensi dell’art. 660 del codice penale (cioè con un’ammenda o, in
alternativa, con una pena detentiva molto modesta ».
Nei due capitoli finali si discute di «Linguaggio e diritto»
e del «Giudice che giudica se stesso». In quest’ultimo capitolo scopriamo che
«a volte, i magistrati italiani piuttosto che litigare preferiscono divertirsi
tra di loro con cene, gite e scampagnate. Alcuni si sollazzano anche in modi
diciamo, eccentrici, come quei due liguri, sottoposti ad accertamento per aver
fatto tiro al bersaglio, con la rivoltella, sui faldoni dei fascicoli
archiviati. Forse - si chiede scherzosamente l’autore - volevano essere sicuri
che quelle pratiche fossero davvero morte e sepolte, in caso contrario,
meritavano il colpo di grazia ».
Morale conclusiva? Di grande magnanimità, da antico Principe
del Foro: «Alla fine della nostra navigazione, rileva D’Alessandro, fra le
leggi strane, sentenze assurde e formule incomprensibili, giova tirare le
conclusioni. Tutto male? Tutto da buttare? Giustizia allo sfascio? No, non è
proprio così. Nel corso del libro si è ripetuto più volte che la giustizia è lo
specchio della realtà, né più né meno. È una considerazione che conviene
ribadire in chiusura. La società italiana ha grandi pregi, grandi potenzialità
e immense risorse, fatte soprattutto da uomini che quotidianamente si spendono
nel loro lavoro per mandare avanti uno Stato che è tra i più civili e
progrediti (…). Ogni tanto qualcosa non funziona e qualcuno si prende la briga
di raccontarla, come abbiamo fatto noi. Senza cattiveria e malignità, al solo
scopo di far riflettere il lettore e magari anche di sollevargli il morale
quando, coinvolto in prima persona in vicende giudiziarie tende a credere di
essere il solo a patire le “pene dell’inferno”» .
Carlo Gambescia
Iscriviti a:
Post (Atom)