mercoledì 27 ottobre 2010

Tre sfide per la politica
Socialità, economia e ambiente 



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Ieri abbiamo parlato di "monnezza" italiana, magari anche celiando... Oggi vorremmo estendere la nostra analisi, più "seriosamente", alle questioni in ambientali e in particolare al rapporto tra politica ed ecologia. 
Una premessa. Quando si parla di questioni ambientali si corrono sempre due rischi. O si considera la natura come qualcosa di indipendente dall’uomo, con le sue leggi eterne, come fa certo “fondamentalismo verde”. Oppure la si concepisce come un universo manipolabile, alla stregua di certi economisti che celebrano le leggi, altrettanto imprescrittibili, di un mercato onnivoro.

Crediamo che la verità, almeno dal punto di vista sociologico sia nel mezzo. La natura e l’economia hanno cicli ecologici e produttivi che vanno rispettati, ma anche la società ha le sue costanti, alle quali ubbidire. E una di queste costanti rinvia alla forza espansiva della socialità umana.
Di che cosa parliamo?
L’uomo tende a riprodursi, non solo biologicamente, ma anche socialmente. E in che modo? Creando intorno a sé, anche nei contesti più sfavorevoli, le condizioni materiali e culturali che gli consentono di riprodursi socialmente. E ciò implica la progressiva manipolazione della natura e dell’economia. La storia umana, con le sue civiltà, ma anche con i sue guerre, testimonia questa “volontà di manipolazione sociale”. Che non è altro che il motore di una socialità umana, che però superati certi limiti, rischia di auto-distruggersi.
Qui si apre l’intrigante capitolo del rapporto tra socialità, natura ed economia. Infatti, la volontà di sopravvivere, manipolare e svilupparsi anche nelle situazioni meno adatte rischia di essere messa a dura prova dallo sfruttamento intensivo dell’ambiente. Una crescente fame di risorse che ne rappresenta il risvolto negativo. Facciamo due esempi.
Si pensi alla capacità di adattamento e sviluppo di certe comunità di immigrati: “gli irregolari”, che spinti dalla globalizzazione economica, riescono a ricostituire nei luoghi più impensati delle nostre città, comunità materiali e culturali di vita . Certo, ben al di sotto di quegli standard che spetterebbero loro come persone, dotate di diritti e doveri sociali. Ma si pensi anche alle stesse capacità di resistenza, mostrate dai cittadini “regolari”, che vivono in città sempre più inquinate, a causa di uno sviluppo capitalistico privo di regole. Che intendiamo dire? Che pur vivendo in contesti economici e sociali diversi, gli uomini mostrano eguali capacità di vivere e riprodursi. Ma fino a quando vi riusciranno?
Il vero dilemma, infatti, è rappresentato dai due volti della socialità umana: per un verso è forza di integrazione, perché permette di sopravvivere nelle condizioni più difficili; per l’altro rischia di disintegrare le condizioni stesse della vita sociale, esplicitandosi in capitalismo selvaggio e inquinante.
Ovviamente, non pretendiamo qui di risolvere i massimi problemi della condizione umana. Tuttavia un punto va chiarito.
La dialettica tra integrazione e disintegrazione ha bisogno, semplificando al massimo, di una risposta politica. Il fatto che la socialità umana da forza positiva rischi sempre di trasformarsi in negativa, richiede decisioni politiche, anche forti e capaci, come ogni decisione politica, di creare e gestire il conflitto.
Insomma, se la socialità umana, scorre come le acque di un fiume, dall’alto verso il basso. Irrorando i campi, ma spesso anche allagandoli, fino a distruggere, con rovinose piene, villaggi e città. Allora servono dighe o comunque opere di sistemazione capaci di evitare alluvioni e rovine. Fuor di metafora: la globalizzazione economica priva di regole va contrastata. Ovviamente, si tratta di un compito che spetta alla politica. Proprio per consentire alla socialità umana, introducendo decisioni e regole (le dighe di cui sopra), di svolgere la sua opera senza provocare (eccessivi) danni, soprattutto all’ambiente.
Si dirà che il nostro è un discorso astratto, da teorici. Forse. Ma non lo è meno di quello dei fondamentalisti verdi o degli strenui difensori del mercato. Perché anch’ essi, partono da una visione della socialità umana, ovviamente opposta alla nostra. Ma dalla quale, in quanto visione (come capacità di rappresentare l’uomo), si deve ripartire per poi giungere alla politica, quella vera. Dal momento che i contenuti delle regole (le dighe…) da introdurre, riguardano solo la politica.
Ma vediamo, anche per concludere, quali sono le divergenze di fondo tra i due fondamentalismi.
Per l’ambientalismo radicale la socialità umana non è al centro della natura, ma viene ricondotta nell’alveo di una socialità animale di specie tra le altre specie. Per il fondamentalista dell’economia, l’unica forma di socialità umana è quella economica. Per il primo, l’uomo è un animale tra gli animali, che una volta “liberato” dalle costrizioni sociali sarà capace di ritrovare individualmente il proprio equilibrio ambientale. Per il secondo, l’uomo deve solo credere nel dio-mercato, dal quale giungerà prima o poi la salvezza, magari grazie all’utilitaristica scoperta di qualche miracoloso “ritrovato” contro l’inquinamento globale… Entrambi, insomma, credono nei meccanismi autoregolatori del mercato o della natura animale dell’uomo. E rifiutano le “dighe” della politica.
Ma fino a quando potranno permetterselo? La risposta, dipende anche da noi, o meglio da chiunque creda nella forza della politica. E soprattutto della capacità della politica di conciliare progresso economico, diritti di libertà e rispetto della natura. Una Mission Impossible ? Forse. Ma perché non tentare?


Carlo Gambescia 

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