Il libro della settimana: Edward
Shils, Tradition, University Chicago Press, pp. 334.
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Il
vero problema non è la tradizione ma... il tradizionalismo, specie se
dottrinario, tipo "La Tradition c'est moi ! ". Anzi, per essere
ancora più chiari: i tradizionalisti delle più diverse, esoteriche e rigide
osservanze. A questo proposito vogliamo tornare sul bel libro di Edward Shils,
uscito per la prima volta nel 1981, e riedito qualche anno fa: Tradition (University Chicago Press,
Chicago 2006, pp. 334). E purtroppo non ancora tradotto in italiano. Un volume,
insomma, che per l’ampiezza e ricchezza delle sue argomentazioni merita di
essere calorosamente raccomandato al lettore italiano, soprattutto se attento a
queste tematiche, ma ovviamente non in chiave antiquaria e autoconsolatoria. E
chi ci segue, sa quanto il pensiero di Shils ci sia stato utile nella stesura
di Metapolitica.
Ma, prima di prendere la rincorsa, soffermiamoci un momento sull’autore.
Presentiamolo.
Edward Shils, scomparso nel 1995, alla venerabile età di ottantacinque anni, ha
insegnato sociologia negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Di origine
russo-ebraica, naturalizzato americano, attento studioso di Max Weber e Karl
Mannheim, e per un certo periodo collaboratore di Talcott Parsons, figura
carismatica della sociologia americana, la cui teoria delle funzioni sociali,
in pratica, riproponeva, modernizzandolo, il famoso apologo di Menenio Agrippa.
Shils ha goduto di un momento di celebrità in Italia. Nel 1983, infatti,
ricevette il premio Balzan, e sempre nello stesso periodo su invito di Giovanni
Paolo II, partecipò agli incontri estivi di Castel Gandolfo, tra il Papa e
importanti uomini di cultura. Dopo di che scivolò in una specie di limbo
intellettuale. Del resto uno studioso, non cattolico, ma apprezzato dal Papa,
non poteva incontrare il favore di una sociologia, come l’italiana, che in
quegli anni, pendeva ancora dalla labbra di Marx. E così, a quanto ci consta,
l’ unico suo libro tradotto resta Centro
e Periferia. Elementi di macrosociologia (Morcelliana 1984) dove
svolge alcune degli argomenti sviluppati in Tradition
. Un testo esaurito da anni. Ed è un peccato, perché Shils è stato l’unico
sociologo, della seconda metà del Novecento, a occuparsi esplicitamente di
tradizione.
Ora, che gli ambienti progressisti, lo abbiamo snobbato non deve stupire più di
tanto, mentre è non è strano che un libro come Tradition, tra l’altro uscito, come già anticipato, in
prima edizione nel 1981, sia sfuggito anche ai tradizionalisti, non dico
statunitensi (alla cui parrocchia Shils non aderì mai ), ma italiani.
Però, in effetti, una ragione c’è. Shils “analizza” la tradizione freddamente.
Non è interessato a nessuna concezione ab aterno . Insomma, non cerca di
giustificare visioni metastoriche di qualsiasi tipo, o ancora peggio, di
risuscitare, come uno sciamano, istituzioni storiche, morte e sepolte. Mentre
distingue, ottimamente, fra la tradizione in quanto tale (la “tradizionalità“,
“substantive traditionality”),
che obiettivamente garantisce la continuità sociale attraverso la trasmissione
dei valori, e i contenuti delle tradizioni, sui quali di solito si appuntano
gli strali delle critiche ideologiche “tradizionaliste” e
“antitradizionaliste”. Critiche che, spesso per partito preso, finiscono per
gettar via il bambino (la “tradizionalità) con l’acqua sporca, del
“tradizionalismo” o dell’ ”antitradizionalismo”, secondo le rispettive
preferenze.
Ma Shils non si ferma al tradere.
Infatti il termine tradizione, come è noto, viene dalla voce dotta latina traditione(m) che a sua volta proviene
dal verbo tradere nel suo
significato di “consegnare” (dare)
“oltre” (tra), di qui il
termine traditio, come “ dare ( "consegnare")
oltre” . Ma lasciamo parlare l’autore:
“ La tradizionalità è compatibile con qualsiasi contenuto
sostanziale. I modelli di pensiero, di credenze e relazioni sociale, le
pratiche, le tecniche, gli oggetti, creati o meno dall’uomo, e suscettibili di
essere trasmessi, possono diventare una tradizione” (p. 16).
Non tutto però “è tradizione”:
“Provare un sentimento non è tradizione: è solo qualcosa che
avvertiamo all’improvviso. Un giudizio razionale non è tradizione: è
un’asserzione di tipo logico (…) . Un processo di produzione industriale non è
tradizione: è una pura e semplice organizzazione di alcune azioni individuali
(…). L’esercizio dell’autorità non è tradizione: è un insieme di parole scritte
e parlate volte a promuovere o meno alcuni adempimenti individuali.
L’esecuzione di un rito, sia che si tratti di un atto (…) celebrativo di un
anniversario(…), o di lealtà nei riguardi di un sovrano, magari attraverso un
banchetto, non è tradizione: è solo un insieme di parole e movimenti fisici
espressivi di fugaci credenze e sentimenti " (p. 31).
.
E allora? Per parlare di tradizione serve qualcosa di più, non
basta la pura “riproduzione (o trasmissione) sociale” di una certa cerimonia.
Occorre che ogni società abbia un “centro”: un “Guiding Pattern”. Un “modello-guida” capace di
indirizzare il comportamento che viene reiterato, dando agli uomini la
consapevolezza storica, sociale e morale che “quel che stanno facendo sia
intrinsecamente giusto” (p. 32). Dal momento che le “tradizioni sono la
‘componente tacita’ delle azioni razionali, morali e cognitive” (p. 33). Senza
le quali l’uomo precipita nell’individualismo anomico (privo di regole).
Di qui una serie di analisi molto acute, intorno alle quali si sviluppa il libro.
Dall’ esame delle più diverse e opposte tradizioni religiose, politiche,
culturali,: dal monoteismo al politeismo, dal liberalismo al socialismo, solo
per citarne alcune. Paradossalmente, secondo Shils, la necessità umana di punti
riferimento costanti avrebbe addirittura creato nei secoli moderni
(antitradizionali per eccellenza), una tradizione dell’antitradizione, fondata
sull’idea di progresso infinito e la fine di ogni particolarismo sulla terra,
come nel caso del comunismo. Che tuttavia nella Russia sovietica, come fa
notare l’autore, “dovette adattarsi ai pregiudizi [nazionalisti, e dunque
“passatisti”] dei suoi effettivi aderenti” (p. 238). Per Shils, infatti, fare i
conti con la realtà, con quel che realmente pensa la gente, significa fare i conti
con le tradizioni, o meglio con la “tradizionalità”: con quelle credenze che
mescolando passato e presente nella vita quotidiana delle persone, rendono loro
chiara l’altrimenti incerta navigazione nel mondo dei significati sociali.
Particolarmente interessante è la parte dedicata ai modelli di “stabilità e
cambiamento”. Secondo Shils una tradizione scompare quando non è più grado di
soddisfare il naturale bisogno nell’uomo di regolarità sociale. Il suo “centro”
si inaridisce spiritualmente, come fu nel caso delle religioni precristiane, e
non riesce più a gratificare moralmente i suoi fedeli e seguaci. Anche se -
ecco l’aspetto interessante delle sue tesi - il politeismo in quanto
“tradizionalità”, in realtà non è mai scomparso totalmente, anche all’interno
dello stesso cristianesimo, quale “centro” di irradiazione, come ad esempio
mostrano i culti “periferici” dei santi.
In realtà, Shils mostra che la “tradizionalità” come impasto di passato e
presente (i cui ingredienti principali, e per alcuni i migliori, sono sempre i
più antichi…), non potrà mai scomparire, perché se ciò accadesse verrebbe meno
la stessa socialità umana, e di riflesso ogni forma di vita civile. Pertanto
l’uomo, soprattutto se istruito e colto, vive, senza saperlo, immerso nella “tradizionalità”:
quando legge l’Iliade di Omero, per poi magari spiegarla agli altri; quando
risolve un complesso problema giuridico, usando categorie che derivano dal
diritto romano; quando si sposa e mette su famiglia, assentendo tacitamente al
valore della monogamia, che ha origini antichissime. E così via.
A questo punto il lettore si chiederà, se al di là della “tradizionalità”,
Shils abbia anche una sua tradizione” di riferimento. Certo, ed è quella
liberale e moderatamente illuminista. Si tratta di un liberalismo alla Raymond
Aron che teme gli eccessi dello stato ma anche quelli del mercato. E di un
illuminismo ben temperato dalla conoscenza storica e sociologica, come in
Ortega. Scrive Shils:
“Una società è un fenomeno “trans-temporale. La sua esistenza
non è rappresentata dal vivere in un certo preciso momento. Ma dall’ esistere
nel tempo. Ogni società si costituisce temporalmente. ” (p. 327). .
.
E chiunque la privi della sua storia la condanna a morte. Sotto
questo aspetto un illuminismo liberale che continui in futuro a deificare il
progresso e disprezzare le tradizioni “è un errore colossale”. Mentre il suo
compito dovrebbe essere quello di aiutarci, iniziando a scoprire storicamente
“quel che è vivo o morto nell’illuminismo
stesso, visto che si è sviluppato a dismisura, perdendo la sua vitalità fino al
punto di divenire ingombrante” (p. 330).
.
Ecco, quanti tradizionalisti ab aeterno, ferocemente
anti-illuministi e anti-liberali, sarebbero disposti a fare autocritica come
Shils? Difficile dire. In realtà, progressisti a parte, il vero problema, come
abbiamo detto all'inizio, non è la tradizione ma il tradizionalismo. O
comunque, certo tradizionalismo.
Carlo Gambescia
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