Sociologia del reduce
Chi
è il reduce? Secondo i dizionari è colui che torna o è tornato dopo una lunga
assenza da una prigionia o da un’impresa difficile o pericolosa. Si pensi, ad
esempio, al reduce di guerra. A quello che rappresentò il “reducismo”
combattentistico all’indomani della Prima Guerra Mondiale. Oppure alla figura
ottocentesca (prima metà) del reduce napoleonico, da molti storici collegata
alle origini della leggenda sviluppatasi intorno al “Grande Corso”.
Ma il reducismo è anche una forma di mentalità. Si pensi ai reduci del
Sessantotto, degli Anni di Piombo. O andando ancora più indietro ai partigiani
comunisti e a certo fascismo oltranzista repubblichino.
In genere il reduce ideologico, come in questi ultimi casi, mitizza il passato,
minimizza gli errori, e soprattutto appaga quello che potremmo definire il
narcisismo del reduce: quell’ “Io c’ero, voi no”.
Sul piano del dibattito politico il reducismo fa più male che bene. Soprattutto
perché il reduce ideologico sale in cattedra e si mette ad assegnare voti a
tutti. Si pensi a certi rottami del comunismo e del fascismo che cercano di
tuttora di difendere l’indifendibile.
Il reducismo è una forma di nostalgia? Sì e no. Perché la nostalgia è desiderio
di qualcosa che il “nostalgico” sa che non potrà tornare. Il reduce, invece ci
crede, e si "prodiga"… Ad esempio, si pensi solo ai legami
ideologici, spesso ammessi dagli stessi interessati senza alcun problema, tra
brigatismo rosso e partigiani comunisti. Oppure tra terrorismo nero e
brigatismo repubblichino.
Possono le società fare a meno del reducismo? Sì e no. Diciamo che c’è un
livello fisiologico legato alla normale necessità di tenere vivi i simboli
comunitari. Si cade invece nel patologico, quando i simboli riguardano
un’esperienza del passato, magari tragicamente conclusasi, rifiutata
dall'intera collettività e quindi politicamente morta e sepolta.
In genere il reducismo riguarda comunità ristrette, di tipo settario. Sotto
questo aspetto la Rete
è una specie di serra calda. Dal momento che vi proliferano, in modo
particolarmente rigoglioso, intere famiglie di “reduci ideologici”.
Il termine “famiglia” non viene
evocatocasualmente. Perché il reducismo, se integralmente vissuto introiettato
nell'ambito provenienza, tende, anche se non di regola, a passare di padre in
figlio. O ad essere veicolato fusionalmente all'interno di una comunità di
"pari" politici, sentita come famiglia dalla varie generazioni di
"militanti". E tutto ciò spesso spiega, sul piano psicologico, le
figure del “giovane” con la “mentalità” del reduce fascista o comunista.
Discutere di qualsiasi argomento con un “reduce ideologico”, di destra come di
sinistra, si trasforma in impresa titanica: perché chi crede di avere la verità
in tasca, pretende sempre di avere sempre ragione... Ovviamente, in alcuni, la
condizione di reduce, soprattutto se in età ancora giovane, aggrava il rapporto
percettivo con la realtà e incide sulla normale formazione della personalità.
Soprattutto quando si tratta di caratteri con forti tratti narcisistici
costitutivi. Comunque sia, il reduce, una volta "giunto a
maturazione" si rifiuta patologicamente di capire perché "l'
altro" non voglia capire: “Uno gli porta la verità” - spesso ripete - e si
vede sbattere la porta in faccia”… Il reduce non accetta una fisiologica
diversità. Di qui isolamento, eventuale cooptazione degli eguali (i forum sotto
questo aspetto sono molto interessanti e indicativi), una crescente
aggressività verbale.
Prendendo spunto dal Freud de L’interpretazione
dei sogni, il reduce è uno che sogna a occhi aperti. E questo è
l’aspetto più pericoloso, perché scambia i sogni per la realtà, la notte per il
giorno, aggirandosi tra di noi come un fantasma. O peggio un perfetto, si fa
per dire, zombie delle idee.
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Posta un commento