Né decrescisti né mercatisti
Juste-milieu
.
Tra settari non ci si intende. E’ quel che
abbiamo pensato leggendo l’ attacco di Carlo Lottieri a Serge Latouche, apparso
su “il Giornale”(http://www.ilgiornale.it/cultura/una_decrescita_serena_stile_latouche_si_tornare_barbari/14-02-2010/articolo-id=421757-page=1-comments=1. ).
In sintesi: per Lottieri, libertarian
italiano, il mercato è un benigno ordine naturale; per Latouche, che si
considera altrettanto libertario, il mercato invece è un maligno campo minato
che non riconosce pensioni d’invalidità. Per Lottieri la crescita economica è
sacra, per Latouche, un feticcio da bruciare. Ovviamente Lottieri, se
interpellato, rifiuterebbe di considerare un libertario l’Attila decrescista
Latouche. Ma quest’ultimo, a sua volta, potrebbe giudicare Lottieri un Conan
mercatista.
Invece un tradizionalista, dall’alto del suo tappeto volante trans-storico,
parlerebbe subito di frutti velenosi della modernità: dal momento che Lottieri
e Latouche puntano tutti e due sulla liberazione “esteriore” e materiale
dell’individuo: Lottieri, attraverso il mercato, Latouche attraverso la
decrescita. Con una controindicazione però: che, appena detto questo, il
tradizionalista innesterebbe la marcia indietro verso la società castale.
In realtà, siamo davanti a un vero rompicapo filosofico, politico e
sociologico. Una questione che può essere condensata così: l’uomo può essere
costretto a diventare libero?
Secondo Lottieri il problema non sussiste, perché l’uomo nasce e resta libero:
basta “lasciarlo fare” come un qualsiasi imprenditore economico di se stesso.
Invece per Latouche, l’uomo nasce libero ma poi il capitalismo lo incatena. Di
qui la necessità di liberarlo dai ceppi e di ri-educarlo alla libertà. Il che
spiega quale sia la radice ultima del contrasto sulla libertà tra Lottieri e
Latouche: per il primo l’uomo è un autodidatta, per il secondo ha bisogno di
scuole e maestri.
Ora, dal punto di vista concreto della politica sociale in cosa rischiano di
sfociare le due posizioni?
Presto detto. Quella di Lottieri nella privatizzazione perfino dell’arma dei
carabinieri. Mentre quella di Latouche in un socialismo autoritario di marca
noglobalista.
Perciò il vero problema è come trovare un punto di equilibrio tra libertà e
protezione sociale. Dal momento che se ci si arrocca sulle posizioni settarie
di Lottieri o di Latouche non se ne esce.
Prendiamo, ad esempio, la questione del libero mercato. Ora, alcuni secoli di
capitalismo mostrano che la libertà economica produce buoni risultati in chiave
di crescita e benessere diffuso. Ma provano pure che alla mano invisibile del
mercato deve affiancarsi quella visibile dello stato. E non è una questione
solo economica, ma sociologica, ossia di consenso sociale. Lo stato,
richiamandosi al patto hobbesiano, offre con il welfare quella protezione
sociale, che consente un’obbedienza politica, estesa alle regole del mercato.
Di conseguenza, pur condannando gli sprechi “statalisti” (che vanno
contrastati), più si privatizza, più si minano le basi del consenso sociale. O
comunque, oltre un certo limite, si rischia di distruggere, per dirla con Karl
Polanyi, la sostanza umana e morale della società. E dunque di svuotare il
serbatoio di quella stessa creatività che ha permesso al capitalismo di
svilupparsi.
Ciò che sfugge, al pensiero libertarian
è che se si fosse lasciata mano libera al mercato, le previsioni di Marx, si
sarebbero avverate. Mentre una saggia legislazione sociale e un aumento del
potere d’acquisto dei salari, dovuto certo alla crescita produttivo-tecnologica
ma anche all’operato del sindacato, hanno impedito la famigerata “proletarizzazione”
e la conseguente caduta del saggio di profitto. Sono osservazioni banali. Che
tuttavia i libertarians non
sembrano capire, dal momento che in ultima istanza mostrano di credere nel più
brutale darwinismo sociale. Per dirla fuori dai denti: la libertà è bellissima,
ma non può essere quella della jungla. O del “vecchio west”, come talvolta ama
scrivere Lottieri.
Ma ce n’é per tutti. Prendiamo, ad esempio, la questione “decrescista”. Ora, è
vero come sostengono Latouche & Co. che il capitalismo nella sua marcia,
apparentemente inarrestabile, ha condizionato l’individuo al consumo e
danneggiato l’ambiente. Ma puntare sulla “decondizionalizzazione” obbligatoria
delle persone - e qui Lottieri ha ragione - e sul blocco produttivo è pura
follia. Anche perché, agendo in questo modo, si corre il rischio di trasformare
la società in una gigantesca caserma. In qualcosa che forse è addirittura
peggio delle jungla libertarian.
Il vero punto della questione decrescita è che le trasformazioni sociali non sono
mai automatiche. Hanno sempre natura politica, e la politica è decisione, e la
decisione è fonte di conflitto. Serve, insomma, come nel caso del mercato, una
“mano visibile”. E qui però si apre un altro problema: come convincere
“pacificamente” le fasce più “ricche” della popolazione a consumare di meno? E
come comportarsi con i “renitenti”.
Non è un problema da poco, perché riguarda
le radici stesse della democrazia. Latouche, ad esempio, parla in modo generico
di un “percorso morbido” che possa aiutare le fasce agiate, benestanti e ricche
della popolazione a comprendere il valore della sobrietà e al tempo stesso,
capace di introdurre per gradi le riforme “giuste”, senza dover innalzare la
bandiera rossa della “rivoluzione sociale”. Ma siamo proprio sicuri che i
consumatori impenitenti si lascino convincere senza reagire? E che politici,
non sempre limpidi, riescano a difendere i valori democratici? Restiamo in
attesa di risposte convincenti.
In alternativa, non pensiamo però al rilancio dello “sviluppo sostenibile”,
spesso usato in modo gattopardesco dai fautori della crescita economica a ogni
costo. Ma a qualcosa di diverso, magari da reinventare. Ad esempio, perché non
valorizzare la classica distinzione introdotta da François Perroux tra crescita
economica e sviluppo ( si veda L’économie
du XXéme siècle, Puf 1964) ?
L’ economista francese, scomparso nel 1987, per crescita intendeva la crescita
economica (quella del Pil, ora giustamente criticata dai teorici delle
decrescita), e per sviluppo, lo sviluppo morale e culturale dell’individuo:
l’unico fattore capace a suo avviso di indicare il grado di progresso sociale
realmente conseguito nel campo delle libertà civili. Ora, secondo Perroux,
senza crescita economica non c’è progresso civile, e viceversa: i due fattori
procedono insieme. Per contro, i teorici della decrescita credono realizzabile
il progresso civile senza la crescita economica. Il che è falso, come dimostra
la caduta sovietica e come proverà, prima o poi, anche la controversa
esperienza cinese.
Perciò la vera questione non è cessare di crescere per sempre, ma trovare il
giusto punto di equilibrio tra il Pil economico e il Pil culturale e civile,
auspicato da Perroux. Anche perché non è detto che una società libera,
civilmente progredita non possa in futuro autolimitare, in modo ragionato e
democratico, certi consumi e favorirne altri, più socialmente importanti. E
quindi (perché no?) decrescere.
Insomma, sono decisioni che non si possono affidare solo al mercato, serve la
politica. E qui sappiamo che Lottieri storcerà il naso, accusandoci di bieco
riformismo socialdemocratico... E Latouche, magari, di servilismo verso il
capitalismo...
Ma riusciremo a sopravvivere lo stesso.
Carlo Gambescia
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