sabato 30 novembre 2024

Winston Churchill e noi

 


Il 30 novembre di centocinquant’anni fa nasceva Winston Churchill (1874-1965).

Nel 1874 l’Europa era qualcosa di assolutamente differente rispetto all’Europa del 2024. E questo è un importante elemento storico per capire che genere di uomo politico fu Churchill.

Fino al 1914 l’Europa e in particolare la Gran Bretagna erano allo Zenit. Dopo di che le cose mutarono. Churchill che si era formato politicamente negli anni d’oro dell’Impero britannico, si ritrovò a gestirne tra il 1914 e il 1945 il declino. Nonostante ciò, capì prima di altri il pericolo del totalitarismo e fece del suo meglio per contrastarlo. Il trionfo della liberal-democrazia fu merito del gigantesco riarmo americano, ma soprattutto della capacità di resistenza della Gran Bretagna, che nel 1940 avrebbe potuto arrendersi alla Germania nazista, che si era impadronita di quasi tutta l’Europa libera.

L’uomo che seppe interpretare fino in fondo il ruolo di Katechon fu proprio Churchill. Che, forte della fibra di combattente del popolo britannico, si rifiutò di cedere alle profferte di pace di Hitler, puntando sull’insularità britannica e sulla grandezza del suo impero, fucina comunque di risorse, anche morali. Dalle frontiere occidentali dell’India all’Oceano atlantico, dall’Africa al Mediterraneo, Churchill contrastò, per dirla in termini di teologia politica, la manifestazione del male.

Il realismo politico di Churchill fu di lungo periodo, di larghe prospettive, non legato agli interessi immediati, che se assecondati avrebbero inevitabilmente spinto la Gran Bretagna, tramutata in pensionata di lusso, nelle braccia di Hitler.

Lo statista britannico intuì che il comunismo e il nazionalsocialismo rappresentavano due sfide mortali di civiltà. In una prima fase, grosso modo negli anni Venti, Churchill vide, pragmaticamente, nel fascismo italiano, un movimento politico anticomunista: lo scoglio capace di opporsi all’ondata sovietica. E lo riconobbe anche pubblicamente. Per contro, diffidò sempre di Hitler, e quando intuì che Mussolini sarebbe inevitabilmente caduto nella rete psico-politica del nazionalsocialismo, lo abbandonò al suo destino.

Quanto al comunismo, fino al 1945, Churchill fece buon viso a cattivo gioco. Serviva una armata, non importa se rossa, in grado di contrastare Hitler a Est. E così fu.

Non furono rosei neppure i rapporti con Roosevelt, ma, al di là delle persone, Churchill credeva fermamente nell’unità geopolitica dell’universo anglofono e soprattutto nella capacità  reattiva del liberalismo. Un tema al quale dedicò una magnifica opera storica in quattro tomi (Storia dei popoli di lingua inglese). Superiore, per certi aspetti alla pur interessante e premiata, Storia della Seconda guerra mondiale. Opera, quest’ultima, che resta comunque un’originale ricostruzione di prima mano dell’immane conflitto tra libertà e totalitarismo che tra il 1939 e il 1945 incendiò il mondo.

Cosa resta della grande lezione di Churchill? Un uomo che “faceva” e rifletteva sulla storia al tempo stesso? Ciò che noi chiamiamo realismo politico ad quem. Cioè un realismo che non si lascia intrappolare nel gioco degli interessi immediati, come nel caso del realismo a quo, a breve termine: quello per capirsi (cosa che fortunatamente non fu) della resa a Hitler per salvare il salvabile. Pensiamo invece a un realismo che, senza disdegnare gli interessi, collega la dinamica degli interessi ai valori di lunga durata, come nel caso della difesa della civiltà occidentale aggredita da coloro che Churchill liquidò giustamente come “gangster”: Hitler e Mussolini. E ai quali si oppose, in quell’estate del 1940, con tutte le sue forze, da solo, fino alla discesa in campo degli Stati Uniti (*).

Oggi qual è il nemico principale dell’Occidente? Come allora, il totalitarismo. Oggi però è di moda parlare, a proposito di Cina e Russia, di autocrazia, ma per dirla alla buona se non è zuppa e pan bagnato. Non si vede però in giro un altro Churchill. Oppure, non lo si vuole vedere.

Vladimir Zelenzky, che avrebbe potuto fuggire al primo rumore dei cingoli russi, accolto a braccia aperte dagli americani ( e con un sospiro di sollievo), è invece finora rimasto coraggiosamente al suo posto. Ha preferito la vita dura del combattente. La fermezza di quest’uomo, pur considerate le differenze storiche e di formazione, non ricorda forse quella di Churchill? .

Riteniamo di sì. Perché nell’ uomo politico, anzi di stato, coragggio e risolutezza sono tutto. Però, come dicevamo, si distoglie lo sguardo da Zelensky. O peggio ancora si accetta e rilancia, come fu per Churchill quando si sottrasse all’abbraccio mortale di Hitler, la versione del nemico: l’immagine dell’ubriacone, del fanfarone e del corrotto. Questo fu Churchill per nazisti e fascisti. Questo è Zelensky per russi e filorussi.

In realtà, chiunque oggi celebri Churchill non può non onorare Zelensky. Anzi, deve. Addirittura? Certo. Solo così si può provare di non essere dalla parte del nemico. Ieri Hitler, oggi Putin. Anche qui, fatte le debite differenze storico-culturali. Benché, se ci si perdona l’espressione, sempre di due mascalzoni si tratta.

Carlo Gambescia

(*) Sui due realismi si veda Carlo Gambescia, Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni Il Foglio. Piombino (LI), 2019, pp. 23-31.

venerdì 29 novembre 2024

Sciopero generale. Gli eversori sono a destra, non a sinistra

 


Landini, a pelle, non ci sta simpatico. Come non ci piacciono le lagne sullo sfruttamento dei lavoratori. Oggi tutelati a ogni livello. Tesi che invece giustifichiamo per il trattamento riservato ai migranti. Qui però la colpa è della destra che creando, sulle basi di una retorica razzista, la “categoria” del lavoratore clandestino, non facilita l’emersione del lavoro nero. Ma questa è un’altra storia.

Detto questo, resta il fatto che lo sciopero generale contro una legge finanziaria, definita ingiusta è qualcosa di fisiologico, che appartiene ai normali conflitti della società aperta. Landini, così dicono, avrebbe usato il termine “rivolta sociale”? Cosa c’è di male? Esiste una retorica politica che rinvia a una fraseologia spesso enfatica, che finché resta tale, non rappresenta alcun tentativo di eversione. A meno che non si voglia fare il processo alle intenzioni: nel senso di non giudicare il sindacato per quello che ha fatto, ma per quello che si suppone voglia fare.

Il processo alle intenzioni rimanda allo stato autoritario, all’automatica identificazione tra stato e governo. Perché si scorge nell’idea stessa di conflitto un affronto all’esercizio dell’autorità del governo assimilata alla volontà dello stato che deve sempre imporsi nei rapporti sociali, costi quel che costi.

Per capirsi: lo stato di diritto non vieta il conflitto, quando e se necessario lo regola caso per caso, concretamente, invece lo stato autoritario nega l’idea stessa di conflitto.

Per essere ancora più chiari: Salvini è un essere politicamente abominevole, però la precettazione nei servizi pubblici, quando serve a regolare e non a vietare integralmente uno sciopero, che può danneggiare i diritti, altrettanto costituzionali, degli altri cittadini, rientra perfettamente nella dinamica dello stato di diritto. E infatti, il ricorso al Tar dei sindacati dei trasporti è stato respinto. Tutto regolare dal punto di vista dello stato di diritto.

Quel che invece non è giustificato, come dicevamo, è la negazione dell’idea stessa di conflitto, che è una specie di idea fissa delle destra, soprattutto quando alla negazione si accompagna il processo alle intenzioni nei riguardi del sindacato, processo, fondato su un’idea di colpevolezza preventiva. Un atteggiamento di chiusura verso il sindacato, eversivo dell’ordine liberale. Una scelta reazionaria, che, provocando contraccolpi, altrettanto radicali, rischia invece di rendere più aspro il conflitto sociale.

Si dirà, ma allora l’Autunno caldo? La politicizzazione della Cgil ai tempi dei Pci ? Non è forse vero che il sindacato non mai ha brillato per riformismo?

Non siamo d’accordo con la vulgata della destra. Si legga una qualsiasi storia del sindacato, si scoprirà la natura riformista del sindacalismo nell’Italia repubblicana. Non si badi alle lotte economiche, probabilmente discutibili dal punto di vista dei fondamenti dell’economia politica, oppure alle grandi manifestazioni di tipo politico, ma si guardi alla fermezza mostrata dal sindacato  verso il terrorismo e i  movimenti pseudorivoluzionari.

La famosa “cacciata” di Luciano Lama dall’università di Roma, tuttora celebrata dagli estremisti di ogni colore da sinistra a destra, non è che la storica riprova dell’esistenza di un riformismo sindacale. Come lo sono le vittime del terrorismo: sindacalisti e professori uccisi in mezzo alla strada come un tempo si faceva con i cani rabbiosi.

Landini esagera? Usa parole forti? Si guardi ai fatti concreti. Parla di salario minimo, orario di lavoro, aggiustamenti salariali. Sono misure che possono non piacere (e che a noi non piacciono), ma che in realtà sono di natura riformista non rivoluzionaria. Landini batte e ribatte sugli aspetti economici, come un classico leader riformista.

Non capire questo significa pescare nel torbido dell’immaginario fascista di una destra autoritaria, che vuole eliminare ogni forma di conflitto, anche la più fisiologica, e che odia il sindacato in quanto tale.

Il che significa che i veri eversori dell'ordine liberale sono a destra non a sinistra.

Carlo Gambescia

giovedì 28 novembre 2024

Canone Rai, il voto contrario di Forza Italia e l’ira della Meloni. Divagazioni metapolitiche

 


In politica esistono due tipi di logica: la logica della politica e la politica della logica.

Nel primo caso,  come ad  esempio nei  governi di coalizione, la logica della politica impone che tra alleati si debba andare d’accordo,  per il bene del governo ( come durata) e del  paese (come misure per il bene comune). Buon governo è il governo del "giusto mezzo" tra questi due obiettivi: durata e bene comune. Si chiama logica della politica, nel senso che  è logico durare, e che per durare si deve essere uniti, facendo anche il bene del paese. Altrimenti prima o poi si soccombe in quella  lotta evolutiva per il potere (che premia le  forze più  adeguate sotto l’aspetto della logica della politica),  lotta segnata da processi centripeti e centrifughi. Processo, quest'ultimo, che costituisce una regolarità metapolitica.   

Nel secondo caso, parliamo sempre di un governo di coalizione, la politica della logica si traduce  nello  sviluppo di un  pericoloso  contrasto tra bene proprio del governo (la durata)  e del paese ( misure di bene comune). Si chiama politica della logica, nel senso che  non è più la  logica  a  governare la politica, ma la politica a governare la logica, sicché, dal momento che la politica è anche conflitto,  si genera un contrasto  tra il bene proprio del governo e il bene del paese. In questo modo però  la lotta evolutiva per il potere, interna al governo, ne  rende  problematica l’esistenza.

Ora,  il voto di  Forza Italia, che da partito liberale (come si dice) avrebbe  dovuto votare per l’abolizione del canone Rai, e non per una semplice riduzione,  come primo passo verso la privatizzazione dell’ente pubblico,  rientra in pieno nella politica della logica. Cioè il bene del partito ( nel senso ad esempio di un  frainteso guadagno di visibilità) che  prevale sul bene del  governo. Una scelta che però   indebolisce la forza del governo  in quella che è la lotta evolutiva per la politica. Qualcosa di non logico, se si vuole incoerente, dal punto di vista della logica della politica.

Non stiamo difendendo il governo Meloni, ma semplicemente sottolineando come certe regolarità metapolitiche, travalichino le ideologie professate,  per culminare nell’autodistruzione politica.

La politica si fonda (anche)  sull’eterno contrasto  tra essere e apparire.  Si vuole apparire come animati  dalla logica della politica (si pensi ai  grandi discorsi di Giorgia Meloni, sulla diversità di “questo” governo), mentre in realtà  si  finisce per obbedire alla politica della logica
(il voto contrario di Forza Italia).

Siamo davanti a  una buona notizia per coloro che non simpatizzano con il governo Meloni? Certamente,  però il contrasto tra logica della politica e politica della logica è insopprimibile. Perché animerà anche una coalizione di sinistra o di centro-sinistra, come pure  le  forme di regime politico profondamente differenti dai regimi liberal-democratici. Con una sola differenza – fondamentale  - che questi contrasti in una liberal-democrazia avvengono alla luce del sole,  in un’autocrazia, ristagnano nel buio delle stanze del potere.

E qui è interessante fare un’osservazione a proposito dell’ira della Meloni.  Chi non ha radici liberal-democratiche, come ad esempio Fratelli d’Italia, tenderà a vedere nel  voto contrario di  Forza Italia,  non il portato di una  vittoria della politica della logica sulla logica della politica,  ma una inevitabile aberrazione  della democrazia parlamentare. Di qui l’idea cara alla destra dalle radici fasciste, di rafforzare i poteri del governo e di ridurre al minimo il potere coalizionale e di controllo dei parlamenti. Una posizione che si concretizza   nella scelta plebiscitaria.  Il cosiddetto premierato, che piace tanto alla destra, non è che un passo in questa direzione. 

Giorgia Meloni, gonfia di ira  verso gli alleati, crede che così facendo ingabbierà le pulsioni centrifughe. In realtà, dal punto di vista della pubblicità delle decisioni politiche è ininfluente che il primo ministro sia eletto direttamente dal popolo.   

Perché, in  realtà,  la tensione  tra  politica della logica e logica della politica è ineliminabile. Essere eletti o  nominati – semplifichiamo -  dal popolo o dal parlamento non cambia nulla.  Dal momento che  su  ogni questione,  per semplificare,  ci saranno sempre almeno due soluzioni, due modi di vedere le cose, eccetera.  Inoltre, quanto ai poteri, assoluti o meno,  neppure Luigi XIV governava da solo. Esiste un’amministrazione, con i suoi gradi alti e bassi. Implementare dall’alto non è mai facile. Due ministri, anche in un regime autocratico, possono  pensare  in modo opposto. E qui si pensi, con riguardo al Novecento, alle grandi fratture interne persino ai regimi totalitari.

Però, come detto, la tensione tra  politica della logica e logica della politica,  la si può portare alle luce del sole.   Come nelle liberal-democrazie.  E questa è una buona cosa.  Perché  è vero che un leader, democratico o autocratico, si troverà sempre a fare delle scelte tra i propri interessi e quelli del paese, però è altrettanto vero che  le cose cambiano, e in meglio,  quando avvengono alla luce del sole, ad esempio in parlamento.   

Qui, ripetiamo, la differenza tra una democrazia liberale e una autocrazia. Differenza che sembra sfuggire a Giorgia Meloni.

Carlo Gambescia

mercoledì 27 novembre 2024

Quando tutti gridano al complotto…

 


Che oggi il mondo della pubblica opinione, cioè delle meditate convinzioni diffuse, sia in rovina, è un dato di fatto.

Negli ultimi vent’anni, in Europa e negli Stati  Uniti, è cresciuto il cosiddetto pensiero antisistemico, che si è nutrito di “teorie cospirazioniste”. Il successo dei partiti populisti e neofascisti, lo stesso avvento al potere di personaggi estranei alla liberal-democrazia come Donald Trump e Giorgia Meloni indica una polarizzazione dell’opinione pubblica che esclude il compromesso liberale. Cioè sembra essere venuto meno l’accordo su alcuni aspetti fondamentali dello stato di diritto (ad esempio l’indipendenza della magistratura), della rappresentanza parlamentare (sul valore del professionismo politico), dell’economia di mercato (sull’importanza del libero scambio).

Quale ruolo ha avuto in tutto questo la cultura cospirazionista? Una risposta, non definitiva ma sicuramente rigorosa, è racchiusa in Le teorie cospirazioniste. Un’introduzione (Franco Angeli *), eccellente volume, appena uscito, ben tradotto e curato da Marco Cupellaro.

Un testo prezioso scritto da Joseph E. Uscinski e Adam M. Enders, docenti rispettivamente nelle università di Miami e Louisville, scienziati politici e specialisti in una disciplina che in Italia, ad esempio, non è neppure agli esordi.

Il volume è diviso in sette capitoli e un’ appendice metodologica in cui si dà conto delle tecniche di indagine (dal sondaggio all’intervista, tra le altre). Oltre ad essere ricco nelle note (senza essere invasivo), ogni capitolo è corredato da puntualissimi approfondimenti e riferimenti bibliografici. Insomma un lavoro accademico di alto livello che però si fa leggere tutto d’un fiato senza mai annoiare. Piaccia o meno, abbiamo ancora molto da imparare dalle scienze politiche statunitensi, soprattutto dal pragmatismo, tutto americano, capace di andare al nocciolo del problema, senza perdersi in piagnistei ideologici.

Nel primo capitolo (“Perché studiare le teorie cospirazioniste?”) si sfronda la boscaglia dei luoghi comuni in argomento: la teoria cospirativa, pur con colorazioni ideologiche differenti, come del resto aveva già colto Pareto parlando di istinto delle combinazioni, non è il terreno privilegiato, semplificando, di pazzi ed estremisti. Ma, come provano le indagini sul campo, è il portato profondo di un patrimonio di sana diffidenza verso il potere, comune ad esempio alla maggioranza degli americani, con percentuali molto interessanti anche nei paesi europei.

Però con una distinzione importante: ad esempio, la stragrande maggioranza degli americani ( ma non solo) ritiene tuttora che dietro la morte a Dallas del presidente Kennedy vi fosse un complotto. Il che però non significa che le stesse persone ritengano che dietro ogni evento politico si nasconde un complotto. Qui la differenza: il cospirazionismo si trasforma in micidiale teoria onnicomprensiva, quando ogni singolo evento politico è automaticamente ricondotto nell’alveo di una strategia coordinata, per capirsi, da pochi uomini al potere incappucciati.

Nel secondo capitolo (“Che cos’è una teoria cospirazionista?”) si approfondisce la differenza, diremmo di fatto, tra un complotto, come tale, quindi provato, dalle “autorità epistemiche”, giudici o scienziati (ad esempio il famigerato “Watergate” che costrinse Nixon, un volta approdato al porto giudiziario, alle dimissioni per evitare l’incriminazione), e il complottismo come romanzo criminale del complotto, addirittura zoologico, come quando si ritiene che dietro ogni scelta politica vi siano diabolici uomini-rettiliformi. Da questo punto di vista, rispetto alla maggioranza diffidente verso il potere, i complottisti veri e propri sono pochi: secondo gli autori si tratta di un rapporto, in termini di percentuale, di appena cinque contro sessanta-ottanta diffidenti.

Come strumento per separare la teoria cospirazionista da ciò che non lo è gli autori usano il cannone popperiano del falsificazionismo. Ciò che non è falsificabile è giustamente fuori della scienza e della realtà. Anche se, come ammettono Uscinski e Enders, una cosa è definire una teoria non falsificabile, un’altra credervi o meno. La credenza nell’esistenza di dio non è falsificabile, eppure miliardi di uomini vi credono. Il fascino discreto del complottismo purtroppo è tutto qui: nel bisogno umano di scovare una verità ultima nelle cose. L’uomo, insomma, è nato complottista.

Nel Terzo capitolo (“La popolarità delle credenze cospirazioniste e delle credenze anomale”) si approfondisce l’aspetto della “credenza”, cioè il fatto che ognuno di noi, quindi addirittura senza saperlo, crede almeno in una teoria del complotto: si pensi ad esempio, come anticipato, all’assassinio del maggiore (allora vivente) dei fratelli Kennedy. Sono tuttora in pochi a non credere al complotto, pur accettando il fatto che l’esecutore fu uno solo. Come provò il rapporto della commissione Warren, “autorità epistemica”.

La credenza nasce dal bisogno umano di un punto di appoggio psico-sociale. Non si vive nel vuoto delle idee collettive o rappresentazioni sociali come le definì Durkheim, tra le quali affiorano anche le idee complottiste. Di qui, la facilità di essere complottisti anche senza saperlo o ammetterlo. Qui risiede la forza di queste credenze difensive. Nonché la difficoltà di estirparle come erbacce cattive, perché spesso aiutano a vivere, fino a tramutarsi in alcuni casi in una specie di corazza esistenziale, che come rappresentazione sociale individuale assume l’ aspetto difensivo di un squilibrio con un suo equilibrio. Si pensi a una frattura mal saldata, si zoppica eppure si cammina.

Nel Quarto capitolo ( “La psicologia e la sociologia delle teorie cospirazioniste”) si spiegano i pericoli del riduzionismo psicologico e i possibili correttivi sociologici. Il fatto che nella teoria cospirazionista, soprattutto sul piano dell’adesione, sussista ciò che gli autori individuano nella “triade oscura” ( narcisismo, machiavellismo come manipolazione dell’altro, e psicopatia), non implica l’impossibilità di affiancare a questi aspetti alcuni fattori sociologici correttivi ed esplicativi, come il reddito e l’istruzione. Spesso chi sposa la causa della teoria cospirazionista non ha una buona istruzione né gode di alti guadagni: la maggioranza della gente. Spesso il complottismo è un compromesso esistenziale, quasi necessario, tra frustrazione economica e culturale.

Nel Quinto capitolo (“La politica delle teorie cospirazioniste”) è esaminato ciò che Ortega, definì il problema del migliore conferenziere, nel senso che il conferenziere più bravo, o comunque che riceve più applausi, è colui che dice  cose che i suoi uditori desiderano sentirsi dire. Regola che vale per la ricaduta politica della teoria cospirativa, che trova i suoi adepti tra i partigiani di una certa idea dell’avversario politico, ovviamente negativa. Di conseguenza il partigiano – chi parteggia – non può non entusiasmarsi dinanzi all’idea che il suo avversario, anzi il suo nemico politico, sia un mascalzone che complotta alle sue spalle: il male nell’altro gratifica. E purtroppo giustifica il proprio.

Sotto questo aspetto, il cospirazionismo, facilita la versione preferita dello sconfitto, che non vede l’ora di potere attribuire al complotto del nemico vincitore le ragioni delle sua sconfitta, sottraendosi così a ogni responsabilità. Un atteggiamento, di tipo partigiano, ma accomunante gli attori sociali e politici. Un atteggiamento che perciò va al di là della destra e della sinistra. E soprattutto resta nemico di ogni falsificazionismo, perché il fazioso crede e applaude alle idee preferite, scartando tutte le altre. Diciamo pure che proprio non le vede.

Infine nei capitoli 6 (“Donald Trump e le elezioni del 2016 e del 2020”) e 7 (“QAnon, il Covid-19, i social media e l’era della ‘post-verità’”) la teoria cospirativa viene indagata nella realtà del nostro tempo, per dare conto del vicolo cieco in cui rischiamo di finire. Ciò che colpisce, anche gli autori, è la saldatura, come dicevamo all’inizio, tra movimenti populisti e teoria della cospirazione. Populismo in senso largo transpolitico (da destra e sinistra e viceversa). Quindi Uscinski e Enders non fanno sconti politici nel delineare un clima politico marchiato a fuoco dalla polarizzazione-radicalizzazione delle posizioni: una atmosfera mefitica che trova nelle teorie cospirazioniste la devastante risorsa politica.

Però, sotto quest’ ultimo aspetto, ciò che sembra sfuggire a Uscinski e Enders ( e forse questo è un limite del pur apprezzabile pragmatismo sociologico americano ) è che il complottismo di destra a differenza di quello sinistra, difende, pur con modalità populiste soprattutto nello stile, il compromesso liberale. Per capirsi, Trump venne accusato dai Democratici di essere al servizio della Russia, cosa mai provata, Trump a sua volta, accusò i Democratici di satanismo pedofilo, accusa, questa, mai provata. Come si può intuire, a parte il livello molto basso della polemica, un conto è indicare una pista politica un altro una pista diabolica.

Il complottismo populista della destra è decisamente sopra le righe. E proprio l’enfatizzazione populista-cospirativista – cosa che sembra sfuggire a Uscinski e Enders – della critica antisistemica, al di là della destra e della sinistra, riconduce alle tenebre fasciste.

Si rifletta, non era forse il fascismo che vedeva complotti ovunque? E che si riteneva movimento politico capace di unire tutti i cittadini, annullando così ogni preferenza e differenza politica?

A quanto ci risulta Uscinski e Enders pesano con il bilancino del farmacista l’uso la parola fascismo, soprattutto in relazione agli ultimi sviluppi del populismo cospirativo.

Ovviamente condividiamo le conclusioni degli autori che scorgono nell’istruzione e nell’inclusione economica due fattori per attenuare le credenze cospirative: si badi, attenuare, perché secondo gli autori – tesi che condividiamo – il complottismo è un aspetto della condizione umana, il lato imbarazzante dell’umana medaglia cognitiva.

Però, ecco il punto, la destra populista rifiuta il compromesso liberale, che rappresenta la via maestra all’inclusione culturale ed economica, al lato rilucente della medaglia cognitiva. Quindi il populismo è costitutivamente incapace di contrastare – ammesso e non concesso un suo sforzo di volontà al riguardo – le teorie cospirazioniste.

La sinistra sembra invece crogiolarsi nell’idea alla moda di “post-verità”, quindi in un pigro e cinico relativismo, per capirsi, del tipo “La politica economica di Stalin? Parliamone”.

Invece, sempre politicamente parlando, si dovrebbe tornare al compromesso liberale. Ma come? Se tutti gridano al complotto?

Carlo Gambescia

(*)  Qui: https://francoangeli.it/Libro/Le-teorie-cospirazioniste-Un%27introduzione?Id=29067 

martedì 26 novembre 2024

Giorgia Meloni, violenze sessuali e migranti

 


Giorgia Meloni, conferma e rilancia. Che cosa? Il razzismo vero, quello dentro, che sembra essere nel suo Dna. E ovviamente del partito che rappresenta. Su questo ha ragione.

Qualsiasi studioso di sociologia, a meno che non sia un iscritto al KKK, sa che per quanto riguarda i casi di violenza sessuale i dati sull’ elevata incidenza dei migranti, poi addirittura dei migranti irregolari (quindi non perfettamente censiti proprio perché tali), non sono attendibili(*). Quindi si tratta di una materia “terra di nessuno” ideale per fabbricare quelle accuse che tanto piacciono al “razzista medio”, diciamo così.

In realtà non è una questione quantitativa ma qualitativa: di atteggiamento mentale e comportamentale verso il migrante.

Si rifletta. Ammesso e non concesso che sui dati Giorgia Meloni (e prima di lei il leghista Valditara) abbia ragione, la discriminazione penale sulla base della razza – perché di questo si tratta – a quali precedenti rimanda e dove può condurre?

Sui precedenti rinvia direttamente al filone razzista della storia europea che culmina nelle efferatezze del nazionalsocialismo. Quanto agli sviluppi, rinvia alla segregazione razziale, cioè alla non inclusione sociale del migrante.

Si critica e deride la sinistra buonista, perché, come si dice, vuole accogliere tutti. Cosa che, sul piano quantitativo può essere discussa o meno, ma non su quello qualitativo.

Per la seconda volta usiamo il termine qualitativo. Che cosa vogliamo dire? Che l’elemento qualitativo, è quello ad esempio, per chi studia la politica, che impedisce di mettere sullo stesso piano De Gasperi e Mussolini, Hitler e Adenauer.

E qual è l’elemento qualitativo nell’ambito della sociologia delle migrazioni? Che, sociologicamente parlando, è sempre preferibile un atteggiamento di apertura, di inclusione a un atteggiamento di chiusura ed esclusione.

Qui introduciamo un concetto molto interessante (che riprediamo dall'amico Jerónimo Molina): quello di immaginazione del disastro. Cioè, che il politico lungimirante – semplificando – deve sempre pensare al peggio. Detto altrimenti, deve immaginare lo scenario peggiore, e prendere la sua decisione in base all’ ipotesi di futuro più sfavorevole.

Di conseguenza, rispetto all’inclusione-esclusione del migrante, il disastro da immaginare rinvia alla società chiusa sotto il profilo razziale. Sotto questo aspetto, l’autoconsunzione di Sparta, società chiusa, resta per noi un esempio storico esemplare di immaginazione del disastro esemplare. Per contro, la gagliardia di Roma, società aperta, indica tuttora la strada da seguire, sempre sul piano dell’esempio.

Pertanto il razzista medio, diciamo, ben rappresentato da Giorgia Meloni, pensa come un spartano e non come un antico romano.

Cosa vogliamo dire? Che fatte le debite differenza tra società del passato e società moderne, resta sempre preferibile un atteggiamento di apertura a uno di chiusura. E qui parlano da sole ricchezza culturale e durata storica di Roma.

Ovviamente, i processi di inclusione, implicano i conflitti sociali. Quindi rischi da assumere, che vanno gestiti. Certo, a un occhio, politicamente rozzo, l’esclusione preventiva, sembra rappresentare la strada più facile. Che c'è di più facile di una specie di armonia totalitaria.

In realtà è una soluzione esiziale, perché la chiusura alla lunga incide sui processi di riproduzione sociale, culturale e demografica. Fermo restando un fatto fondamentale di cui tenere conto: che alla moderna ottica liberale ripugna l’idea di costringere gli individui a prolificare come animali. Pertanto, oggi come oggi, in una società liberale, l’unica strada percorribile resta l’inclusione.

Insomma, la reale alternativa è tra l’autoconsunzione esclusivista e la crescita inclusivista. Tra Sparta e Roma.

Il che significa che l’atteggiamento razzista di Giorgia Meloni non ha alcuna giustificazione, né sociologica, né metapolitica, se non quella di predicare l’odio verso i migranti, immaginando disastri che sono solo nella sua mente ossessionata, quasi in chiave psicopatologica, dalla figura dell’altro, del diverso, come un essere pericoloso, da tenere a debita distanza.

Cento volte meglio il cosiddetto buonismo della sinistra. Che, tra l’altro, sta dalla parte di Roma antica e accetta le sfide dell’immaginazione. Del disastro. Quello vero però, che consiste nella chiusura.

Carlo Gambescia

(*) Per un rapida rassegna della questione, alla portata di tutti, si veda qui: https://pagellapolitica.it/articoli/fact-checking-valditara-immigrati-irregolari-violenze-sessuali .

lunedì 25 novembre 2024

Mosca e le balle spaziali

 


La storia del missile russo Oreshnik , cioè se sia o meno una balla spaziale, è interessante dal punto di vista dell'analisi del rapporto tra propaganda e reale conduzione della guerra.

Quale immagine di sé vuole trasmettere Mosca con questo missile? Che è fortissima e  che in qualsiasi momento può colpire in modo devastante l’Ucraina e gli alleati.

Che l’arma esista o meno, e sia così efficace, è tutto sommato una questione secondaria. Almeno nella guerra delle parole rispetto all’evoluzione reale dei fatti. E qui veniamo alle "balle spaziali", al rapporto, come dicevamo,  tra guerra e propaganda. O per dirla con Pareto, tra fatti e teorie.

Quali sono i fatti? Che la Russia, da sola non sembra farcela. Mentre l’Ucraina, che non è sola (almeno finora) resiste da quasi tre anni. Tutto il resto è teoria spalmata sul pane.

Questa è la vera realtà. Che, in termini di “due più due uguale quattro”, significa che, con un sostegno pari o superiore a quello finora fornito all’Ucraina, Kiev può farcela, nel senso di recuperare e conservare (con un punto interrogativo sulla Crimea) la sua integrità territoriale violata da Mosca

Su questo capitale morale, non da tutti condiviso, quindi con  crepe, si innesta la propaganda russa che in debito di ossigeno sul campo prova a cambiare le carte in tavola, minacciando l’uso di armi potentissime, eccetera. Da ultimo il missile Oreshnik.

Il lato interessante, dal punto di vista dell’interazione tra fatti e teorie, è che ( i fatti) la Russia sta perdendo – perdendo rispetto al progetto iniziale di ridurre all’obbedienza in due settimane l’Ucraina. Di qui quel combinato disposto tra minacce e propaganda ( le teorie) per mascherare le enormi difficoltà che sta incontrando.

Ma non è tutto perché c’è anche un lato tragicomico rappresentato dalle non poche teorie, sviluppate, soprattutto in Europa, dalla quinta colonna, i filorussi insomma: un grumo di politici, professori, giornalisti, commentatori improvvisati che pur di giustificare l’insuccesso sovietico, da ultimo, ha sposato l’immaginosa teoria che la Russia fatica sul campo volutamente, perché  vuole mandare per le lunghe la guerra allo scopo di  far esplodere le contraddizioni interne all’Occidente euro-americano.

Insomma, se Mosca vince è merito di Mosca, se perde, è sempre merito di Mosca. Una tragicommedia, perché c’è chi muore.

Possibile che quasi tre anni di guerra non abbiano insegnato all’Occidente una cosa fondamentale? Cioè che per i russi il rapporto tra insuccessi e propaganda è direttamente proporzionale. Detto altrimenti: all’aumento della prima variabile (insuccesso) si accompagna l’aumento della seconda variabile (propaganda).

In realtà, come dicevamo, non esiste prova migliore delle difficoltà russe, come la crescita delle balle spaziale in base alla tecnica propagandistica delle famose armi segrete risolutive per minacciare e spaventare gli avversari. E’ così difficile da capire? Pare proprio di sì.

Già conosciamo la domanda: se la Russia non bleffasse? In realtà, dopo quasi tre anni di guerra Mosca non è molto credibile. Doveva fare un solo boccone dell’Ucraina, e invece arruola soldati coreani, compra armi in Cina e droni in Iran.

Si dirà, che nell’impossibilità di poter rispondere con certezza al quesito, sarebbe meglio cedere, abbandonando l’Ucraina al suo triste destino, perché la Russia possiede comunque le armi atomiche.

Questo è l’argomento dei pacifisti che piace molto a russi e filorussi.

Ma siamo proprio sicuri che i russi vogliano la pace e che si accontentino solo dell’Ucraina? No, non vi è certezza.

Nella totale assenza di certezze, sia in un senso che nell’altro, tanto varrebbe continuare a sostenere l’Ucraina, e con successo, come da quasi tre anni a questa parte (fatti).  E di non credere alle balle spaziali russe (teorie).

Però, per fare questo, si deve essere uniti. E l’Occidente euro-americano, soprattutto dopo l’avvento al potere dei sovranisti e ora di Trump, non sembra esserlo. E i russi lo sanno.

Concludendo, il vero problema è rappresentato dalle crepe dell’Occidente non dalle balle spaziali di Mosca.

Carlo Gambescia

domenica 24 novembre 2024

La fiamma e la strategia del vittimismo

 


Su “Libero” in questi giorni si dibatte, tra vecchi fusti e befane senza scope, sull’idea di togliere o meno la fiamma dal simbolo elettorale di Fratelli d’Italia.

Una discussione di pura facciata. Perché il partito, oggi di Giorgia Meloni, un tempo di Gianfranco Fini, e prima ancora di Giorgio Almirante, dovrebbe discutere di ben altro.

Non si diventa liberali, filo-capitalisti e filo-occidentali a comando. Sganciarsi dalla fiamma che rinvia al sepolcro di Mussolini, non significa separarsi dalla cultura della tentazione fascista.

Si dirà che Fratelli d’Italia dichiara ai quattro venti di stare dalla parte dell’Ucraina e di Israele. Nulla di significativo, perché sono scelte di politica estera, sempre revocabili, soprattutto quando, come nel caso di Fratelli d’Italia, sono dettate non da ideali meditati e condivisi, ma da puri calcoli politici.

Si rifletta. Nel quadro delle  attuali alleanze, una destra apertamente filorussa e antisemita entrerebbe subito in urto con gli Stati Uniti, la Nato e l’Unione europea.

Giorgia Meloni, da brava temporeggiatrice, sa quando colpire o meno il nemico. Perciò non può ignorare che, al momento,  da una svolta anti-occidentale non avrebbe nulla da guadagnare. Sa benissimo che finirebbe sotto tiro.

Si noti una cosa: la sproporzione tra l’intensità degli attacchi della sinistra sull’antifascismo, piuttosto bassa, e le reazioni spropositate della destra.

Perché questa continua amplificazione degli attacchi ricevuti? La destra ha scoperto il valore del vittimismo politico. Di qui la strategia di atteggiarsi a vittima di una congiura politica, che con la scusa dell’antifascismo – si dice – pretende di calpestare il voto a destra degli italiani.

La prima pagina di ieri del “Secolo” sembra riportare l’Italia agli anni Settanta del Novecento. Ma anche sugli altri giornali più o meno organici alla destra sembra prevalere la stessa linea politico-editoriale, volta a creare l’immagine di un governo assediato da una sinistra in combutta con il terrorismo, ovviamente rosso.

E ciò che è ancora peggio è che la sinistra sembra soffrire questa strategia vittimista della destra. La pressione politica è talmente forte che l’accusa di fascismo, che in termini di “tentazione” avrebbe un senso, sembra essere diventata anche a sinistra sconveniente, inopportuna, impropria. Roba da studentelli impreparati e da gruppetti di nostalgici del comunismo. Insomma, folclore di sinistra.

Pertanto la situazione è questa: la sinistra è divisa proprio sull’antifascismo e perde colpi, mentre la destra continua imperterrita a gridare alla congiura antifascista, alla “violenza rossa”, come appunto si legge sul “Secolo”. Per inciso, a parlare di congiure è il governo non l’opposizione: roba da dittatori sudamericani.

Di conseguenza, in questo contesto, la condivisione delle ragioni di Kiev e Gerusalemme si trasforma in un eccellente paravento politico: come ci si può accusare di essere fascisti se siamo contro la dittatura di Putin e amici di Israele?

In realtà il brodo culturale di Fratelli d’Italia è sempre quello primordiale della tentazione fascista: futurismo, dannunzianesimo, antiparlamentarismo vociano, niccianesimo, nazionalismo e autarchismo. La stessa saga del Signore degli Anelli è vissuta secondo il cliché del romanticismo fascista: del pugno di eroi, cameratescamente in lotta contro il nichilistico mondo borghese.

Infine, dell’Occidente si condivide il lato oscuro: quello medievaleggiante, controriformista e controrivoluzionario. Non si dimentichi mai che la cultura della tentazione fascista è animata dalla critica radicale all’illuminismo e alla modernità, vista, quest'ultima,   come mezzo e non come fine. La modernità come leva contro se stessa.

Ripetiamo,  la forza di Giorgia Meloni è nel vittimismo: nel presentare il governo come incolpevole vittima del pericolo rosso. Si pensi al poveretto che va a passeggio è viene investito sul marciapiede da una automobile. Sono cose che possono capitare, ma di rado. Ecco la destra meloniana, presenta se stessa, come un bersaglio ogni cinque minuti di un pirata della strada.

È possibile? No. Eppure sul pericolo rosso Giorgia Meloni sta costruendo, intorno a un partito che non ha mai fatto i conti con il fascismo, un consenso che non ha precedenti nell’Italia repubblicana.

Il rischio è che una volta consolidato il governo, anche con  devastanti riforme istituzionali in chiave plebiscitaria, torni a galla la vecchia merda politica.

Sotto tale aspetto togliere dal simbolo la fiamma, significa solo cambiare marca di carta igienica.

Carlo Gambescia

P.S. Ci scusiamo con il lettore per la chiusa scatologica.

sabato 23 novembre 2024

Salvini e Netanyahu

 


Si legga prima quanto ha dichiarato Salvini sull’ “affare” Netanyahu:

‘I criminali di guerra sono altri, non entro nel merito delle dinamiche internazionali. Israele è sotto attacco da decenni, i cittadini israeliani vivono con l’incubo dei missili e con i bunker sotto le case da decenni, adesso dire che il criminale di guerra da arrestare è il premier di una delle poche democrazie che ci sono in Medio Oriente mi sembra irrispettoso, pericoloso perché Israele non difende solo se stesso ma difende anche le libertà le democrazie e i valori occidentali’. Salvini ha poi accusato l’Aia di essere stata influenzata dai paesi arabi, ignorando le posizioni che hanno adottato nell’ultimo anno di guerra. ‘Mi sembra evidente che sia una scelta politica dettata da alcuni paesi islamici che sono maggioranze in alcuni istituzioni internazionali’ “ (*) .

Come non essere d’accordo? Almeno in larga parte? Eppure c’è qualcosa che non convince. Una stonatura che contrassegna tutte le destre oggi definite sovraniste, incluse quelle dalle radici fasciste come Fratelli d’Italia. Destre, al momento, schierate con Israele.

Di cosa si tratta? Islamofobia. Brutta parola. Cioè lo stesso concetto razzista che a destra serve per  “bollare” il migrante: presuntivamente ritenuto di altra fede, quindi in automatico un pericoloso nemico dell’Italia e dell’Occidente.

Per capirsi: si contrasta l’antisemitismo, la semitofobia (per così dire), per sostituirla con l’islamofobia. Cosa c’entra questo atteggiamento di chiusura con i valori dell’Occidente? Che sono invece di apertura e tolleranza?

Cosa vogliamo dire? Che si può essere dalla parte di Netanyahu, di Israele e dell’Occidente, senza per questo dover portare all’altare la causa razzista delle destre sovraniste.

Qui il discorso si fa più generale – nel senso che va oltre il caso Netanyahu – perché spesso leader, non solo come Salvini, ma più o meno dalle stesse idee, come Meloni, Orbán, Le Pen, ora anche Trump, ripetono di essere dalla parte dell’Occidente, anzi ci si fregia dell’appellativo di suoi “difensori”.

Difensori di cosa? Qui risiede il vero punto debole dell’ideologia cosiddetta sovranista. Cioè di ogni visione dell’Occidente come unità biologica.

Si pensi alla cosiddetta teoria della sostituzione, molto diffusa a destra, tra i sovranisti, che scorge un pericoloso piano, ad opera dei soliti incappucciati, che punterebbe alla sostituzione in Europa della razza bianca con altre razze. Sotto questo aspetto, un africano, quando islamico, diventa il capro espiatorio ideale.

Ma non è tutto. Il biologismo delle destre gode anche della cattiva compagnia di un cristianesimo reazionario, da crociata, di tipo tradizionalista. Il che spiega, come in queste destre, curiosamente, la difesa di Israele dal cattivo islamico che guarda con bramosia sostituiva all’Europa, possa coesistere con la difesa della Russia. Si faccia attenzione: Russia. Perché i Putin passano, mentre restano al loro posto i “grandi valori” del cristianesimo ortodosso, anch’esso all’occorenza crociato e cesaro-papista.

Purtroppo la situazione è la seguente: esiste una visione biologistico-reazionaria dell’Occidente, un mix di natura e cultura. O se si preferisce un combinato disposto tra pseudoscienza razzista e organizzazione dell’entusiasmo di tipo cesarista democratico-plebiscitario che le destre difendono a spada tratta.

Ovviamente, al momento, queste destre si muovono all’interno dell’altro Occidente, quello vero, liberal-democratico, aperto e tollerante, quindi devono fare buon viso a cattivo gioco. Il classico lupo che si nasconde sotto la  pelle di agnello.

E cosa deve fare Netanyahu dinanzi a questo specie di ballo in maschera? Che vede invece sulla difensiva il “vero” Occidente, quello liberal-democratico, laico e illuminista? Di sicuro, non può permettersi di andare troppo per il sottile. Assediato, deve accettare aiuti da qualsiasi parte provengano. Si tratta di una lotta per la sopravvivenza.

Ciò che invece deve fare l’Occidente liberal-democratico è di non schierarsi, come in parte sta avvenendo, con i nemici di Israele. E per due semplici ragioni.

La prima, che andando contro Israele, si consente a personaggi pericolosi come Salvini, Meloni, Orbán, eccetera, di accreditarsi come liberal-democratici, cosa che assolutamente non è.

La seconda, è che lo stato di Israele, come purtroppo ora asseriscono anche le destre sovraniste, è un’isola liberal-democratica nell’oceano del fondamentalismo islamico. E perciò va aiutato e protetto.

Senza però – ecco la differenza con la destra sovraniste – dover sposare visioni biologistico-reazionarie a sfondo confessionale.

Qui però nasce un grande problema di tipo comunicativo. Le distinzioni molto sottili, qui avanzate, tra le due forme di Occidente non sono alla portata cogntiva  di tutti. Talvolta nei social pro Meloni e pro Salvini si legge che il loro è un occidentalismo a prova di bomba, perché difendono Israele. Che altra prova serve, si legge?

Come scritto, le cose non stanno così. Però sul piano della comprensione e della comunicazione le spiegazioni complesse non sono alla portata di tutti. Purtroppo l’elettore comune preferisce le risposte semplici, non importa se grossolane e false.

Sappiamo benissimo di aver sollevato una questione metapolitica. Insomma, di tirare in ballo i massimi sistemi… 

Però la radice del male, se così si può chiamare,  è qui: nel grande problema, forse insolubile, del nostro tempo, della democrazia, gridata, emotiva,  che non va troppo per il sottile.

Il che, tra l’altro, spiega il successo di un demagogo come Trump. 

Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2024/11/22/orban-e-salvini-sfidano-la-cpi-da-noi-netanyahu-sarebbe-benvenuto_2349c53d-8622-4bbe-a8a7-b99010c41668.html .

venerdì 22 novembre 2024

Putin ha paura

 


Il mandato di arresto internazionale per Netanyahu, Gallant e Deif per crimini di guerra rappresenta l’ennesima cattiva prova di un assurdo pacifismo che rifiuta la guerra per principio, e che di conseguenza la tratta alla stregua di una lotta tra bande criminali, prescindendo da ragioni e torti. Quindi Israele e Hamas pari sono.

La guerra per il pacifista non è neppure un eccesso di legittima difesa. L’aggredito deve sempre porgere l’altra guancia. Punto. Però non desideriamo tornare su un argomento già affrontato in precedenza (*).

Veniamo invece  al vero argomento del giorno. La paura di Putin. Sulle cui spalle, detto per inciso, grava il peso di un mandato di cattura internazionale per “presunti crimini di guerra di deportazione di bambini dai territori ucraini occupati nella Federazione Russa”. Un mandato al quale Putin, ben protetto tra le mura del Cremlino, circondato dalle sue guardie del corpo, avrà fatto come Pinocchio  milioni di marameo.

Dicevamo la paura di Putin. La nostra tesi è decisivamente controcorrente. Putin ha alzato il livello dello scontro, minacciando di attacco missilistico Gran Bretagna e Stati Uniti,  perché, teme che i missili di Kiev, forniti da americani e britannici, colpendo il territorio russo, e coinvolgendo civili, gli facciano perdere la guerra, e soprattutto il potere. Perché in caso di sconfitta, cioè di marcia indietro dai territori ucraini occupati, rischia di fare la fine di Nicola II.

Perciò, minaccia. Non c’è una precisa strategia dietro le minacce a Stati Uniti e Gran Bretagna. Si scorge solo la paura delle defenestrazione. Putin come ogni autocrate teme le sommosse popolari, le rivolte militari, il colpo di stato di possibili traditori al momento al suo fianco e in apparenza fedeli.
 

L’autocrate vive nella paura, la trasmette, la usa come strumento di governo e tortura. Ecco perché ogni cedimento pacifista dell’Occidente rischia di rafforza  la posizione del dittatore russo.

Pertanto non è vero come si legge che Putin è un pazzo al quale bisogna dire sempre di sì. Diciamo invece che si finge pazzo, lascia che lo si creda pazzo per godere dello statuto dell’imprevedibilità dei pazzi.

In realtà, se l’Occidente invece di bersi fin dall’inizio la storia di Putin privo di qualche rotella, avesse risposto in modo deciso alle sue provocazioni, ora non saremmo qui a discutere di questioni psico-patologiche,

Si dirà che la paura può giocare brutti scherzi. Dipende dal tipo di paura. La paura di perdere il potere, che è quella che anima i dittatori come Putin, implica il non ricorso all’ uso di strumenti che, per effetto di ricaduta colpiscono vinti e vincitori. Per fare un esempio concreto, si pensi ai gas che sui campi di battaglia della “grande guerra” il vento spesso riportava indietro, uccidendo chi li aveva usati per primo.

D’altra parte di guerra atomica, al di là delle bombe sul Giappone, sappiamo poco, se non ciò che è entrato nel circuito mediatico e politico sulle basi delle presuntive e millenariste ipotesi pacifiste.

Pertanto Putin, pur di restare al potere , continuerebbe e scegliere il certo di una guerra convenzionale rispetto all’incerto di una guerra non convenzionale. Però gli piace atteggiarsi a duro come tutti gli insicuri.

Tutttavia potremmo sbagliare sulla salute mentale di Putin. Cioè potrebbe essere veramente del tutto pazzo, eccetera, eccetera. Resta l’esempio classico di Hitler. E del resto non pochi imperatori romani e bizantini, e alcuni Zar, forzarono le cose, in modo folle, da ultimo Nicola II, presero le decisioni sbagliate e così persero il potere e furono anche uccisi.

Il potere, come ha ben mostrato Shakespeare nei suoi drammi, si pensi solo al Macbeth e al Re Lear, quanto più è autocratico tanto più rischia di autodistruggersi. La regola dell’autoconservazione, che prevede la minaccia calcolata, non sempre vale.

Resta però il fatto che se si fosse imposto fin dall’inizio a Putin di mostrare le sue carte, avremmo evitato due anni di guerra. Ovvamente avremmo anche rischiato la guerra atomica. Ma chi non vuole correre rischi non ottiene nulla. E soprattutto lascia l’iniziativa all’avversario. E infatti, come per le dichiarazioni di ieri, l’iniziativa è ancora saldamente nelle mani di Putin.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/05/le-linee-nel-vuoto-di-karim-khan.html .

giovedì 21 novembre 2024

Croce, il filosofo del giusto mezzo (cognitivo)

 


Il regalo (quasi) di Natale, un film su Benedetto Croce, di Pupi Avati e una data , ieri ricorreva il settantaduesimo anniversario della morte di Croce (20 novembre 1952), non possono passare invano. Niente di esaustivo. Scarni appunti di lettura su un filosofo che in qualche misura è intellettualmente al nostro fianco da una vita.

Croce è il filosofo del juste milieu, non nel senso politico dei guizotiani al tempo della monarchia costituzionale di Luigi Filippo, ma più semplicemente del giusto mezzo cognitivo. La cosa, come spiegheremo, può non piacere a certa cultura costruttivista, che non solo a tavolino, si propose, in particolare nel Novecento, di ricostruire da zero il mondo o di farne tabula rasa, che era ed è la stessa cosa. Ce ne faremo una ragione.

Procediamo per gradi: filosofia, politica, storia.

La filosofia crociana dei distinti, non è altro che un apprezzamento dialettico delle differenti sfere della vita umana, sfere che trovano unità, non nell’atto (unico) teorizzato da Giovanni Gentile, in principio crociano, poi dottrinario fascista, ma nel libero fluire dei quattro filoni dell’arte e della logica ( momenti teorici), dell’etica, dell’economia ( momenti pratici). Uniti e separati, vicini e lontani al tempo stesso, i quattro momenti costituiscono tutti insieme una specie di costante banco di prova dell’uomo con la realtà. Di qui la ricerca del giusto mezzo filosofico tra teoria e pratica, tra il momento concettuale e il momento organizzativo. Per capirsi: l’artista, se per un verso è solo artista, per l’altro non vive nel nulla, esulando dalla logica, dall’etica e dall’economia. E di questo bisogna tenere conto. Il conflitto che ne nasce, che non è solo interiore, è storia in atto. Flusso circolare di atti differenti: si crea, si fa scienza, si decide, si intraprende. Non si tratta di atto (unico), ripetiamo, che deve farsi storico, come in Gentile, rispondendo all’infedele criterio soggettivo, spesso solipsistico di realtà plasmabile a piacimento secondo una certa ideologia che ispira il  capo carismatico di turno. Se fusione c’è, non è mai perfetta. Ne consegue quell’accettazione delle miserie umane, che è rifiuto del perfettismo ideologico.

La storia per Croce è evento e soprattutto riflessione sull’evento. Anche qui una distinzione. Tra le passioni dello storico e le passioni degli uomini. Lo storico, pur partendo dalle passioni del suo tempo, deve saper trascendere la mischia, per cogliere, al di sopra di esse il senso di un certo tempo. Senza però ricorrere a stereotipi o schemi di nessun tipo. Croce respinge sia l’idea di una storia che procede spedita verso il bene assoluto, sia l’idea di una storia ciclica o regressiva che ripete sempre se stessa o torna indietro all’età dell’oro. Anche qui giusto mezzo, tra una storia come eterno procedere, tra i conflitti, della libertà, e storia come pesantezza delle istituzioni, ai quali gli uomini non sempre riescono a sottrarsi. Di qui la necessità di convivere ma solo esteriormente con il proprio tempo. Come dire? Adelante Pedro, con juicio, si puedes. A dire il vero questo resta uno dei punti critici della sua filosofia della storia: la prevalenza del momento teorico su quella pratico. Scelta a nostro avviso inevitabile, anche sul piano cognitivo, se si voleva evitare la deriva attivistica gentiliana.

La politica per Croce è arte del possibile. Non nel senso del voler andare d’accordo con tutti, piegandosi, ma di capire cosa sia possibile fare o meno in un certo momento storico, quindi di vita vissuta. Croce restò sempre lontanissimo dal moralismo pretesco, come dal realismo pseudopolitico dei grandi cinici della storia. Il filosofo deve restare a guardia dei fatti: sa che il momento politico non esclude il conflitto e l’uso della forza, ma sa pure che impone equilibrio e talvolta qualche patto temporaneo con il diavolo. Il che ovviamente può avere un risvolto negativo: come prova l’iniziale passività crociana nei riguardi del fascismo. Anche questo resta un punto del suo pensiero oggetto di critiche:  il rischio di cadere priogionieri  di un realismo politico fine a se stesso. Che però in Croce, davanti al fascismo, durò l’espace d’un matin .  Perché resto sempre un uomo libero. E del resto, come ci piace spesso ripetere, nessuno è perfetto.

A proposito del juste milieu crociano, alcuni ne hanno parlato, ingiustamente, come di un mediocre quietismo. In realtà si tratta di una potente fede laica nella religione della libertà. Ma lasciamo la parola Croce:

E poiché la libertà è l’essenza dell’uomo, e l’uomo la possiede nella sua qualità stessa di uomo, non è da prendere letteralmente e materialmente l’espressione che bisogni all’uomo ‘dare la libertà’, che è ciò che non gli si può dare perché già l’ha in sé. Tanto poco gli si può dare che non si può neanche togliergliela; e tutti gli oppressori della libertà hanno potuto bensì spegnere certi uomini, impedire più o meno certi modi di azione, costringere a non pronunziare certe verità e a recitare certe menzogne, ma non togliete all’umanità la libertà cioè il tessuto della sua vita, che anzi, com’è risaputo, gli sforzi della violenza, invece di distruggerla, la rinsaldano e, dove era indebolita, la restaurano”(*).

Detto altrimenti, la libertà è un concetto che appartiene all’ eterno, un ideale che, se ben interiorizzato, non perde smalto al trascorrere del nel tempo. Certo, libertà che talvolta rischia di essere soffocata, ma non per questo muore.

La crisi dell’Occidente, geo-concetto che a dire il vero Croce non avrebbe apprezzato, dipende dall’assenza di questa forte fede laica, non tanto nel progresso, ma nella libertà, senza la quale il progresso si tramuta in una marcia trionfale verso il nulla. Sul punto si ricordino le seminali pagine di Croce, storico dell’Italia e dell’Europa, sul decadentismo, non solo letterario.

Probabilmente, siamo davanti a una fede troppo grande e profonda per essere accettata da tutti i popoli occidentali, spesso divisi, addirittura litigiosi, schiavi di abitudini e piccoli piaceri. Di qui un procedere in ordine sparso, che può favorire i nemici della libertà.

Ma non per sempre.

Carlo Gambescia

(*) Benedetto Croce, La mia filosofia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano1993, pp. 96-97. Si tratta un’ antologia, che risale al 1945, testi che Croce scelse personalmente su richiesta di un editore inglese, per far conoscere a un pubblico più largo le linee generali della sua opera. Per una immediata introduzione al Croce filosofo della libertà, si vedano Etica e politica e La storia come pensiero e come azione, nonché le storie d’Italia e d’Europa.

mercoledì 20 novembre 2024

Giorgia Meloni e le parole come pietre

 


Quando Giorgia Meloni replica alle critiche, oppure contrattacca quasi sempre in modo tagliente, viene subito da pensare che sarà molto difficile liberarsi di lei.

Perché funziona così: Giorgia Meloni viene attaccata dalla sinistra su un fatto specifico, lei risponde in modo sarcastico, e finisce lì. Non c’è un rilancio da parte della sinistra. E soprattutto, quando e se la polemica prosegue, si discute della replica della Meloni, quindi si accetta di scendere su un piano a lei congeniale.

Si pensi, per fare un esempio, alle discussioni sui social: a un certo punto non si sa più di cosa si discute e soprattutto delle cause della discussione. Ci si “attacca” ai commenti successivi. In questo modo però il cuore della questione si trasforma in miraggio. C’è un’espressione dialettale (“ in romanesco”) che rende bene l’idea: “buttarla in caciara”.

Facciamo subito un esempio. Si prenda la vicenda dell’attacco ai giudici italiani da parte di Musk. Come abbiamo scritto (pardon per l’autocitazione), siamo davanti al

“disprezzo tipico del cesarista, o aspirante autocrate, verso i giudici. Trump, Musk e gli altri esponenti delle destre europee non accettano la divisione dei poteri né la funzione di garanzia del giudice, il ruolo di contrappeso di un potere terzo. Per dirla fuori dai denti, Musk ha mollato un calcione allo stato di diritto. Il mantra autocratico del cesarista è semplicissimo: il potere politico di Cesare non deve incontrare ostacoli. Soprattutto quando è votato da tutto il popolo o da una larga maggioranza di esso. Per il cesarista la minoranza non merita alcun rispetto e il giudice deve attenersi al volere della maggioranza. O, altrimenti, come dichiara Musk, ‘ andarsene’ ” (*).

Si tratta di qualcosa di veramente grave. E qual è stato il comportamento di Giorgia Meloni? Da manuale del depistaggio argomentativo.

Nell’immediatezza, cioè la settimana scorsa, la Meloni ha taciuto, non sappiamo se concordando o meno il suo silenzio con Mattarella. Che invece è subito intervenuto, rivendicando il principio della sovranità nazionale. Il Presidente della Repubblica, dispiace dirlo, ha comunque commesso un errore, spostando il tiro dalla difesa dello stato di diritto ( tema indigesto per la destra) a quello delle difesa della sovranità nazionale ( cavallo di battaglia della destra).

Dopo di che – la cosa è di ieri, – Giorgia Meloni è finalmente intervenuta, prima elogiando Mattarella come difensore della sovranità nazionale, poi annientando in modo sarcastico Musk. Ecco le parole di Giorgia Meloni:

‘Tra le tante imprese portate a casa da Elon Musk c’è pure quella di far rivendicare la sovranità nazionale alla sinistra: credo sia più difficile che andare su Marte’ ironizza. E a una domanda sul botta e risposta tra Musk e il capo dello Stato, Sergio Mattarella, Meloni risponde: ‘Penso che le parole del Presidente della Repubblica siano state importanti, sono sempre contenta quando sento difendere la sovranità nazionale ‘ “ (**).

Per ricapitolare: grazie  all'aiutino, intenzionale o meno,  di Mattarella e ai riflessi  lenti della sinistra, Giorgia Meloni  è riuscita a trasporre  l’intera questione sul piano della difesa della sovranità nazionale, aggirando così  la  questione dello stato di diritto a rischio in Italia.  

Ha scelto un terreno congeniale alla destra, capace di far scaldare il cuore populista di molti italiani, anche di sinistra, perché l’ antiamericanismo in Italia ha natura trasversale. Si è dato fuoco alla polveri del nazionalismo: atteggiamento arcaico e pericoloso, largamente fuori tempo, ma non nell’ Italia dimentica della catastrofe del nazionalismo fascista.

Sul piano della poco nobile arte del depistaggio argomentativo, dell’esaltare la pagliuzza nell’occhio dell’avversario, occultando la trave nel proprio, Giorgia Meloni è abilissima, una vera virtuosa del sarcasmo traspositivo. 

I suoi fanatici sui social inneggiano  istericamente alla  capacità  di "Giorggia"  di "asfartare" i nemici. Un clima non proprio da club britannico. Che lei incoraggia, offendendo la logica. E i suoi stessi fans che non si rendono conto di essere presi per il naso.

Si tratta di una “tecnica” collaudata: Femminicidi? La colpa è dei migranti difesi dalla sinistra. Il migrante affoga? La colpa e dei trafficanti di esseri umani, difesi dalla sinistra. E così via.

Ovviamente, fino a quando Giorgia Meloni non decide, come accaduto, di ricorrere al "Piano B". Cioè di scegliere il silenzio e atteggiarsi a vittima della sinistra. 

Anche qui, ecco qualche esempio. Il fascismo? Roba di ottant’anni fa, cavalcata dalla sinistra, perché non ha altri argomenti. I giovani del partito che inneggiano a Hitler e Mussolini? Quattro gatti, strumentalizzati da una sinistra che ha violato la privacy di Fratelli d’Italia. E così via.

Ovviamente tutto ciò avviene grazie alla complicità pavloviana di larga parte dei mass media, a rimorchio da anni dei social e delle piazze televisive. Sicché il depistaggio da argomentativo si tramuta in comunicativo muro di gomma.

Non sarà perciò facile liberarsi di un avversario così pericoloso, capace di usare le parole come pietre.

Abbiamo criticato l’atteggiamento della sinistra. Però va anche detto che se la sinistra spostasse verso l’alto l’asticella dello scontro sociale, rischierebbe l’accusa di fomentare disordini, favorendo così un giro di vite. Se, per contro, la sinistra continuasse a sposare la causa della passività, rischieremmo invece di ritrovarci tra dieci anni con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, La Russa o Nordio al Quirinale e con una nuova Costituzione autoritaria e plebiscitaria. E  magari con l'Italia nelle braccia della Russia e della Cina.

Un bel dilemma. Che fare? La parola ai lettori.

Carlo Gambescia

(*): Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/11/musk-e-la-legge-del-piu-forte.html .

(**)Qui: https://www.adnkronos.com/politica/meloni-musk-cosa-ha-detto-oggi-la-premier_7jNOA62kDCXuzyk5POCTAe?refresh_ce .

martedì 19 novembre 2024

G20 Rio. Chi è liberale e chi no

 


Come spiegare in che cosa consiste la differenza tra un leader liberale e un leader statalista? In modo semplice, senza tanti giri di parole?

Si prenda il G20 di Rio. Si è parlato di povertà e fame nel mondo in chiave come al solito decisamente anticapitalista. La cosa però torna utile per spiegare la differenza di cui sopra. Ad esempio la posizione di Giorgia Meloni è più vicina, se non addirittura simile, a quella di Lula, un socialista, quindi statalista tutto d’un pezzo, che a quella di Javier Milei, un liberale, amico della libertà e del libero mercato.

Si legga, in proposito, questa dichiarazione di Milei:

” ‘La maggior parte dei governi moderni, per malizia o ignoranza, insiste sull’errore secondo cui per combattere la fame e la povertà è necessario più intervento statale e più pianificazione centralizzata dell’economia’ , ha esordito Milei. Poi ha aggiunto che ‘ogni volta che uno Stato ha avuto una presenza al 100% nell’economia, che è solo un modo carino di chiamare la schiavitù, il risultato è stato l’esodo sia della popolazione che del capitale e milioni di morti per fame, freddo o crimini’ ” (*).

Per Milei, lo stato non è la soluzione ma il problema. Riesca o meno a trasformare la sua Argentina malata di peronismo, Milei è un liberale. Non c’è da aggiungere altro.

Si legga ora la dichiarazione di Giorgia Meloni:

“ ‘ Se vogliamo raggiungere la sicurezza alimentare, dobbiamo prima di tutto difendere il diritto di ogni popolo e di ogni Nazione di scegliere il modello produttivo e il sistema di alimentazione che reputano più adatto alle proprie caratteristiche’. Ogni Nazione, il ragionamento della premier, ‘ha le sue peculiarità e le scelte non possono che partire dai territori, dalle realtà locali, dalla propria cultura’ ” (**).

Per Giorgia Meloni, al contrario lo stato è la soluzione mentre il mercato il problema.

Si rifletta: qual è il corollario politico del suo ragionamento. Chi difende “le peculiarità ” dei popoli? Lo stato. Quindi in ultima istanza è lo stato che decide se aprire o chiudere al mercato.

Milei fa invece notare che la chiusura al mercato implica “fame, freddo, crimini”.

Chi ha ragione? Milei, che basa le sua tesi su una corretta analisi della storia economica mondiale. Storia che ci insegna che il mercato è apportatore di ricchezza. E che nel 1724 si viveva male. Nulla a che vedere con il 2024 . Di più, la povertà e la fame resistono in quei paesi dove autocrazia, corruzione e protezionismo hanno la meglio, come in Venezuela, Russia, Cuba. O in Africa e Asia dove prevalgono le dittature nazionaliste.

Più ci si chiude “dentro casa”, diciamo così, evocando i demoni dell’identità, più si torna indietro alle economie preindustriali. Quando, in un’economia bloccata, dove i beni non circolavano, bastava un cattivo raccolto per provocare la morte di centinaia di migliaia di persone.

Il libero mercato e diciamo pure la tecnologia alimentare hanno permesso di risolvere ciò che era un problema basico dell’umanità: la popolazione cresceva, però che cosa accadeva? Che a un certo punto, poiché il mercato era frazionato in tanti piccoli stagni (comunali, regionali, nazionali), i prodotti non circolavano, e così non si riusciva a nutrire tutti. Di conseguenza, il sovrappiù sottoalimentato moriva. E si ricominciava, fino a una nuova crisi e così via. E così è stato fino a quando scienza, tecnica e mercato non hanno permesso, negli ultimi tre secoli, una moltiplicazione dei beni che, dal punto di vista retrospettivo, ha del miracoloso.

Pertanto, invece di strapparsi i capelli sui 700 milioni di poveri, oggi esistenti, più o meno la decima parte dell’umanità, e di maledire “il capitalismo”, si dovrebbe ricordare e sottolineare, anche con giusta soddisfazione, che nel 1724, i poveri erano quasi i nove decimi dell’umanità (***).

Il sistema capitalistico funziona. Però per funzionare ha necessità di frontiere aperte e massima libertà individuale di viaggiare, migrare, commerciare, inventare. Ma diremmo pure di conoscersi, amare, ammirare, scoprire.

A tale proposto, non si può non definire inquietante quanto dichiarato da Giorgia Meloni sul rapporto tra tecnologia e beni alimentari. Si legga qui:

È ‘fondamentale il ruolo della ricerca’ ma ‘non per produrre cibo in laboratorio’ che significherebbe andare verso un mondo nel quale ‘chi è ricco potrà mangiare cibo naturale e a chi è povero verrà destinato quello sintetico’. E’ uno dei concetti che, secondo quanto si apprende, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito al G20 di Rio de Janeiro, ripetendo che quello non sarebbe ‘il mondo nel quale voglio vivere’ ” (****).

Roba da complottisti alimentari, stupidaggini che partono da due pre-assunti sbagliati. Il primo, antiscientifico che attribuisce al cibo sintetico un valore non nutritivo. Il secondo, classista, che preconizza una futura realtà piramidale di tipo fantascientifico.

Insomma, Giorgia Meloni, naviga intellettualmente (parola grossa) tra pregiudizi antiscientifici e fantascienza. E questo perché la sua cultura della tentazione fascista la spinge inevitabilmente a odiare il libero mercato e disprezzare la libertà tout court. Soprattutto quando parla di difesa delle identità collettive, la Meloni cade nello stesso errore storico del nazionalista che vedeva e vede nella libertà individuale non un’opportunità ma un ostacolo.

Un’ultima cosa. In Italia la sinistra ha vinto le regionali in Emilia-Romagna e in Umbria. La cosa può anche fare piacere a coloro che avversano il governo Meloni. Però c’è un fatto: che, al momento, questa sinistra (a maggior ragione se in “campo largo”) non è liberale. Addirittura estremizza le sue posizioni anticapitaliste.  Si pensi solo alla monomania welfarista.

Detto altrimenti: è lontana da Javier Milei come lo è Giorgia Meloni. 

Cosa significa?   Nulla di buono. Che la sinistra estrema e la destra estrema si toccano.

E questo è un grosso problema.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2024/11/19/milei-firma-la-dichiarazione-finale-del-g20-ma-la-critica_4f5ccf3d-d80f-4648-9929-810587296b57.html .

(**) Qui: https://www.adnkronos.com/politica/g20-italia-alleanza-contro-fame-e-poverta_72BKtivE1zMMO2navzshm1?refresh_ce#google_vignette .

(***) Sul punto si vedano: Sergio Ricossa, Storia della fatica, Armando 1974 (economista) e Piero Melograni, La modernità e i suoi nemici, Euroclub, Milano 1996 (storico). Nonché, Hans Rosling, Factfulness. Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo, Rizzoli 2018 (medico e statistico).

(****) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2024/11/18/meloniitalia-aderisce-convinta-allalleanza-contro-la-fame_a069fbe7-5214-4c89-81af-74c2f58f3859.html .