Che oggi il mondo della pubblica opinione, cioè delle meditate convinzioni diffuse, sia in rovina, è un dato di fatto.
Negli ultimi vent’anni, in Europa e negli Stati Uniti, è cresciuto il cosiddetto pensiero antisistemico, che si è nutrito di “teorie
cospirazioniste”. Il successo dei partiti populisti e neofascisti, lo
stesso avvento al potere di personaggi estranei alla
liberal-democrazia come Donald Trump e Giorgia Meloni indica una
polarizzazione dell’opinione pubblica che esclude il compromesso
liberale. Cioè sembra essere venuto meno l’accordo su alcuni aspetti
fondamentali dello stato di diritto (ad esempio l’indipendenza della
magistratura), della rappresentanza parlamentare (sul valore del
professionismo politico), dell’economia di mercato (sull’importanza del
libero scambio).
Quale ruolo ha avuto in tutto questo la cultura cospirazionista? Una
risposta, non definitiva ma sicuramente rigorosa, è racchiusa in Le teorie cospirazioniste. Un’introduzione (Franco Angeli *), eccellente volume, appena uscito, ben tradotto e curato da Marco Cupellaro.
Un testo prezioso scritto da Joseph E. Uscinski e Adam M. Enders,
docenti rispettivamente nelle università di Miami e Louisville,
scienziati politici e specialisti in una disciplina che in Italia, ad
esempio, non è neppure agli esordi.
Il volume è diviso in sette capitoli e un’ appendice metodologica in
cui si dà conto delle tecniche di indagine (dal sondaggio
all’intervista, tra le altre). Oltre ad essere ricco nelle note (senza
essere invasivo), ogni capitolo è corredato da puntualissimi
approfondimenti e riferimenti bibliografici. Insomma un lavoro
accademico di alto livello che però si fa leggere tutto d’un fiato senza mai annoiare. Piaccia o meno, abbiamo ancora molto da imparare
dalle scienze politiche statunitensi, soprattutto dal pragmatismo, tutto
americano, capace di andare al nocciolo del problema, senza perdersi
in piagnistei ideologici.
Nel primo capitolo (“Perché studiare le teorie cospirazioniste?”)
si sfronda la boscaglia dei luoghi comuni in argomento: la teoria
cospirativa, pur con colorazioni ideologiche differenti, come del
resto aveva già colto Pareto parlando di istinto delle combinazioni,
non è il terreno privilegiato, semplificando, di pazzi ed estremisti.
Ma, come provano le indagini sul campo, è il portato profondo di un
patrimonio di sana diffidenza verso il potere, comune ad esempio alla
maggioranza degli americani, con percentuali molto interessanti anche
nei paesi europei.
Però con una distinzione importante: ad esempio, la stragrande
maggioranza degli americani ( ma non solo) ritiene tuttora che dietro la
morte a Dallas del presidente Kennedy vi fosse un complotto. Il che
però non significa che le stesse persone ritengano che dietro ogni
evento politico si nasconde un complotto. Qui la differenza: il
cospirazionismo si trasforma in micidiale teoria onnicomprensiva,
quando ogni singolo evento politico è automaticamente ricondotto
nell’alveo di una strategia coordinata, per capirsi, da pochi uomini al
potere incappucciati.
Nel secondo capitolo (“Che cos’è una teoria cospirazionista?”) si
approfondisce la differenza, diremmo di fatto, tra un complotto, come
tale, quindi provato, dalle “autorità epistemiche”, giudici o
scienziati (ad esempio il famigerato “Watergate” che costrinse Nixon, un
volta approdato al porto giudiziario, alle dimissioni per evitare
l’incriminazione), e il complottismo come romanzo criminale del
complotto, addirittura zoologico, come quando si ritiene che dietro ogni
scelta politica vi siano diabolici uomini-rettiliformi. Da questo punto di vista, rispetto alla maggioranza diffidente verso il potere, i
complottisti veri e propri sono pochi: secondo gli autori si tratta
di un rapporto, in termini di percentuale, di appena cinque contro sessanta-ottanta diffidenti.
Come strumento per separare la teoria cospirazionista da ciò che non
lo è gli autori usano il cannone popperiano del falsificazionismo.
Ciò che non è falsificabile è giustamente fuori della scienza e della
realtà. Anche se, come ammettono Uscinski e Enders, una cosa è
definire una teoria non falsificabile, un’altra credervi o meno. La
credenza nell’esistenza di dio non è falsificabile, eppure miliardi
di uomini vi credono. Il fascino discreto del complottismo purtroppo è
tutto qui: nel bisogno umano di scovare una verità ultima nelle cose.
L’uomo, insomma, è nato complottista.
Nel Terzo capitolo (“La popolarità delle credenze cospirazioniste e
delle credenze anomale”) si approfondisce l’aspetto della “credenza”,
cioè il fatto che ognuno di noi, quindi addirittura senza saperlo,
crede almeno in una teoria del complotto: si pensi ad esempio, come
anticipato, all’assassinio del maggiore (allora vivente) dei fratelli Kennedy. Sono
tuttora in pochi a non credere al complotto, pur accettando il fatto
che l’esecutore fu uno solo. Come provò il rapporto della commissione
Warren, “autorità epistemica”.
La credenza nasce dal bisogno umano di un punto di appoggio
psico-sociale. Non si vive nel vuoto delle idee collettive o
rappresentazioni sociali come le definì Durkheim, tra le quali
affiorano anche le idee complottiste. Di qui, la facilità di essere
complottisti anche senza saperlo o ammetterlo. Qui risiede la forza di
queste credenze difensive. Nonché la difficoltà di estirparle come
erbacce cattive, perché spesso aiutano a vivere, fino a tramutarsi in
alcuni casi in una specie di corazza esistenziale, che come
rappresentazione sociale individuale assume l’ aspetto difensivo di un
squilibrio con un suo equilibrio. Si pensi a una frattura mal saldata,
si zoppica eppure si cammina.
Nel Quarto capitolo ( “La psicologia e la sociologia delle teorie
cospirazioniste”) si spiegano i pericoli del riduzionismo psicologico e
i possibili correttivi sociologici. Il fatto che nella teoria
cospirazionista, soprattutto sul piano dell’adesione, sussista ciò che
gli autori individuano nella “triade oscura” ( narcisismo,
machiavellismo come manipolazione dell’altro, e psicopatia), non
implica l’impossibilità di affiancare a questi aspetti alcuni fattori
sociologici correttivi ed esplicativi, come il reddito e l’istruzione.
Spesso chi sposa la causa della teoria cospirazionista non ha una
buona istruzione né gode di alti guadagni: la maggioranza della gente.
Spesso il complottismo è un compromesso esistenziale, quasi
necessario, tra frustrazione economica e culturale.
Nel Quinto capitolo (“La politica delle teorie cospirazioniste”) è
esaminato ciò che Ortega, definì il problema del migliore
conferenziere, nel senso che il conferenziere più bravo, o comunque che
riceve più applausi, è colui che dice cose che i suoi uditori
desiderano sentirsi dire. Regola che vale per la ricaduta politica
della teoria cospirativa, che trova i suoi adepti tra i partigiani di
una certa idea dell’avversario politico, ovviamente negativa. Di
conseguenza il partigiano – chi parteggia – non può non
entusiasmarsi dinanzi all’idea che il suo avversario, anzi il suo
nemico politico, sia un mascalzone che complotta alle sue spalle: il
male nell’altro gratifica. E purtroppo giustifica il proprio.
Sotto questo aspetto, il cospirazionismo, facilita la versione
preferita dello sconfitto, che non vede l’ora di potere attribuire al
complotto del nemico vincitore le ragioni delle sua sconfitta,
sottraendosi così a ogni responsabilità. Un atteggiamento, di tipo
partigiano, ma accomunante gli attori sociali e politici. Un
atteggiamento che perciò va al di là della destra e della sinistra. E
soprattutto resta nemico di ogni falsificazionismo, perché il fazioso
crede e applaude alle idee preferite, scartando tutte le altre.
Diciamo pure che proprio non le vede.
Infine nei capitoli 6 (“Donald Trump e le elezioni del 2016 e del
2020”) e 7 (“QAnon, il Covid-19, i social media e l’era della
‘post-verità’”) la teoria cospirativa viene indagata nella realtà del
nostro tempo, per dare conto del vicolo cieco in cui rischiamo di
finire. Ciò che colpisce, anche gli autori, è la saldatura, come
dicevamo all’inizio, tra movimenti populisti e teoria della
cospirazione. Populismo in senso largo transpolitico (da destra e
sinistra e viceversa). Quindi Uscinski e Enders non fanno sconti
politici nel delineare un clima politico marchiato a fuoco dalla
polarizzazione-radicalizzazione delle posizioni: una atmosfera mefitica
che trova nelle teorie cospirazioniste la devastante risorsa politica.
Però, sotto quest’ ultimo aspetto, ciò che sembra sfuggire a
Uscinski e Enders ( e forse questo è un limite del pur apprezzabile
pragmatismo sociologico americano ) è che il complottismo di destra a
differenza di quello sinistra, difende, pur con modalità populiste
soprattutto nello stile, il compromesso liberale. Per capirsi, Trump
venne accusato dai Democratici di essere al servizio della Russia, cosa
mai provata, Trump a sua volta, accusò i Democratici di satanismo
pedofilo, accusa, questa, mai provata. Come si può intuire, a parte
il livello molto basso della polemica, un conto è indicare una pista
politica un altro una pista diabolica.
Il complottismo populista della destra è decisamente sopra le
righe. E proprio l’enfatizzazione populista-cospirativista – cosa che
sembra sfuggire a Uscinski e Enders – della critica antisistemica,
al di là della destra e della sinistra, riconduce alle tenebre
fasciste.
Si rifletta, non era forse il fascismo che vedeva complotti ovunque?
E che si riteneva movimento politico capace di unire tutti i
cittadini, annullando così ogni preferenza e differenza politica?
A quanto ci risulta Uscinski e Enders pesano con il bilancino del
farmacista l’uso la parola fascismo, soprattutto in relazione agli
ultimi sviluppi del populismo cospirativo.
Ovviamente condividiamo le conclusioni degli autori che scorgono
nell’istruzione e nell’inclusione economica due fattori per attenuare
le credenze cospirative: si badi, attenuare, perché secondo gli autori
– tesi che condividiamo – il complottismo è un aspetto della
condizione umana, il lato imbarazzante dell’umana medaglia cognitiva.
Però, ecco il punto, la destra populista rifiuta il compromesso
liberale, che rappresenta la via maestra all’inclusione culturale ed
economica, al lato rilucente della medaglia cognitiva. Quindi il
populismo è costitutivamente incapace di contrastare – ammesso e non
concesso un suo sforzo di volontà al riguardo – le teorie
cospirazioniste.
La sinistra sembra invece crogiolarsi nell’idea alla moda di
“post-verità”, quindi in un pigro e cinico relativismo, per capirsi,
del tipo “La politica economica di Stalin? Parliamone”.
Invece, sempre politicamente parlando, si dovrebbe tornare al compromesso liberale. Ma come? Se tutti gridano al complotto?
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://francoangeli.it/Libro/Le-teorie-cospirazioniste-Un%27introduzione?Id=29067