giovedì 21 novembre 2024

Croce, il filosofo del giusto mezzo (cognitivo)

 


Il regalo (quasi) di Natale, un film su Benedetto Croce, di Pupi Avati e una data , ieri ricorreva il settantaduesimo anniversario della morte di Croce (20 novembre 1952), non possono passare invano. Niente di esaustivo. Scarni appunti di lettura su un filosofo che in qualche misura è intellettualmente al nostro fianco da una vita.

Croce è il filosofo del juste milieu, non nel senso politico dei guizotiani al tempo della monarchia costituzionale di Luigi Filippo, ma più semplicemente del giusto mezzo cognitivo. La cosa, come spiegheremo, può non piacere a certa cultura costruttivista, che non solo a tavolino, si propose, in particolare nel Novecento, di ricostruire da zero il mondo o di farne tabula rasa, che era ed è la stessa cosa. Ce ne faremo una ragione.

Procediamo per gradi: filosofia, politica, storia.

La filosofia crociana dei distinti, non è altro che un apprezzamento dialettico delle differenti sfere della vita umana, sfere che trovano unità, non nell’atto (unico) teorizzato da Giovanni Gentile, in principio crociano, poi dottrinario fascista, ma nel libero fluire dei quattro filoni dell’arte e della logica ( momenti teorici), dell’etica, dell’economia ( momenti pratici). Uniti e separati, vicini e lontani al tempo stesso, i quattro momenti costituiscono tutti insieme una specie di costante banco di prova dell’uomo con la realtà. Di qui la ricerca del giusto mezzo filosofico tra teoria e pratica, tra il momento concettuale e il momento organizzativo. Per capirsi: l’artista, se per un verso è solo artista, per l’altro non vive nel nulla, esulando dalla logica, dall’etica e dall’economia. E di questo bisogna tenere conto. Il conflitto che ne nasce, che non è solo interiore, è storia in atto. Flusso circolare di atti differenti: si crea, si fa scienza, si decide, si intraprende. Non si tratta di atto (unico), ripetiamo, che deve farsi storico, come in Gentile, rispondendo all’infedele criterio soggettivo, spesso solipsistico di realtà plasmabile a piacimento secondo una certa ideologia che ispira il  capo carismatico di turno. Se fusione c’è, non è mai perfetta. Ne consegue quell’accettazione delle miserie umane, che è rifiuto del perfettismo ideologico.

La storia per Croce è evento e soprattutto riflessione sull’evento. Anche qui una distinzione. Tra le passioni dello storico e le passioni degli uomini. Lo storico, pur partendo dalle passioni del suo tempo, deve saper trascendere la mischia, per cogliere, al di sopra di esse il senso di un certo tempo. Senza però ricorrere a stereotipi o schemi di nessun tipo. Croce respinge sia l’idea di una storia che procede spedita verso il bene assoluto, sia l’idea di una storia ciclica o regressiva che ripete sempre se stessa o torna indietro all’età dell’oro. Anche qui giusto mezzo, tra una storia come eterno procedere, tra i conflitti, della libertà, e storia come pesantezza delle istituzioni, ai quali gli uomini non sempre riescono a sottrarsi. Di qui la necessità di convivere ma solo esteriormente con il proprio tempo. Come dire? Adelante Pedro, con juicio, si puedes. A dire il vero questo resta uno dei punti critici della sua filosofia della storia: la prevalenza del momento teorico su quella pratico. Scelta a nostro avviso inevitabile, anche sul piano cognitivo, se si voleva evitare la deriva attivistica gentiliana.

La politica per Croce è arte del possibile. Non nel senso del voler andare d’accordo con tutti, piegandosi, ma di capire cosa sia possibile fare o meno in un certo momento storico, quindi di vita vissuta. Croce restò sempre lontanissimo dal moralismo pretesco, come dal realismo pseudopolitico dei grandi cinici della storia. Il filosofo deve restare a guardia dei fatti: sa che il momento politico non esclude il conflitto e l’uso della forza, ma sa pure che impone equilibrio e talvolta qualche patto temporaneo con il diavolo. Il che ovviamente può avere un risvolto negativo: come prova l’iniziale passività crociana nei riguardi del fascismo. Anche questo resta un punto del suo pensiero oggetto di critiche:  il rischio di cadere priogionieri  di un realismo politico fine a se stesso. Che però in Croce, davanti al fascismo, durò l’espace d’un matin .  Perché resto sempre un uomo libero. E del resto, come ci piace spesso ripetere, nessuno è perfetto.

A proposito del juste milieu crociano, alcuni ne hanno parlato, ingiustamente, come di un mediocre quietismo. In realtà si tratta di una potente fede laica nella religione della libertà. Ma lasciamo la parola Croce:

E poiché la libertà è l’essenza dell’uomo, e l’uomo la possiede nella sua qualità stessa di uomo, non è da prendere letteralmente e materialmente l’espressione che bisogni all’uomo ‘dare la libertà’, che è ciò che non gli si può dare perché già l’ha in sé. Tanto poco gli si può dare che non si può neanche togliergliela; e tutti gli oppressori della libertà hanno potuto bensì spegnere certi uomini, impedire più o meno certi modi di azione, costringere a non pronunziare certe verità e a recitare certe menzogne, ma non togliete all’umanità la libertà cioè il tessuto della sua vita, che anzi, com’è risaputo, gli sforzi della violenza, invece di distruggerla, la rinsaldano e, dove era indebolita, la restaurano”(*).

Detto altrimenti, la libertà è un concetto che appartiene all’ eterno, un ideale che, se ben interiorizzato, non perde smalto al trascorrere del nel tempo. Certo, libertà che talvolta rischia di essere soffocata, ma non per questo muore.

La crisi dell’Occidente, geo-concetto che a dire il vero Croce non avrebbe apprezzato, dipende dall’assenza di questa forte fede laica, non tanto nel progresso, ma nella libertà, senza la quale il progresso si tramuta in una marcia trionfale verso il nulla. Sul punto si ricordino le seminali pagine di Croce, storico dell’Italia e dell’Europa, sul decadentismo, non solo letterario.

Probabilmente, siamo davanti a una fede troppo grande e profonda per essere accettata da tutti i popoli occidentali, spesso divisi, addirittura litigiosi, schiavi di abitudini e piccoli piaceri. Di qui un procedere in ordine sparso, che può favorire i nemici della libertà.

Ma non per sempre.

Carlo Gambescia

(*) Benedetto Croce, La mia filosofia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano1993, pp. 96-97. Si tratta un’ antologia, che risale al 1945, testi che Croce scelse personalmente su richiesta di un editore inglese, per far conoscere a un pubblico più largo le linee generali della sua opera. Per una immediata introduzione al Croce filosofo della libertà, si vedano Etica e politica e La storia come pensiero e come azione, nonché le storie d’Italia e d’Europa.

mercoledì 20 novembre 2024

Giorgia Meloni e le parole come pietre

 


Quando Giorgia Meloni replica alle critiche, oppure contrattacca quasi sempre in modo tagliente, viene subito da pensare che sarà molto difficile liberarsi di lei.

Perché funziona così: Giorgia Meloni viene attaccata dalla sinistra su un fatto specifico, lei risponde in modo sarcastico, e finisce lì. Non c’è un rilancio da parte della sinistra. E soprattutto, quando e se la polemica prosegue, si discute della replica della Meloni, quindi si accetta di scendere su un piano a lei congeniale.

Si pensi, per fare un esempio, alle discussioni sui social: a un certo punto non si sa più di cosa si discute e soprattutto delle cause della discussione. Ci si “attacca” ai commenti successivi. In questo modo però il cuore della questione si trasforma in miraggio. C’è un’espressione dialettale (“ in romanesco”) che rende bene l’idea: “buttarla in caciara”.

Facciamo subito un esempio. Si prenda la vicenda dell’attacco ai giudici italiani da parte di Musk. Come abbiamo scritto (pardon per l’autocitazione), siamo davanti al

“disprezzo tipico del cesarista, o aspirante autocrate, verso i giudici. Trump, Musk e gli altri esponenti delle destre europee non accettano la divisione dei poteri né la funzione di garanzia del giudice, il ruolo di contrappeso di un potere terzo. Per dirla fuori dai denti, Musk ha mollato un calcione allo stato di diritto. Il mantra autocratico del cesarista è semplicissimo: il potere politico di Cesare non deve incontrare ostacoli. Soprattutto quando è votato da tutto il popolo o da una larga maggioranza di esso. Per il cesarista la minoranza non merita alcun rispetto e il giudice deve attenersi al volere della maggioranza. O, altrimenti, come dichiara Musk, ‘ andarsene’ ” (*).

Si tratta di qualcosa di veramente grave. E qual è stato il comportamento di Giorgia Meloni? Da manuale del depistaggio argomentativo.

Nell’immediatezza, cioè la settimana scorsa, la Meloni ha taciuto, non sappiamo se concordando o meno il suo silenzio con Mattarella. Che invece è subito intervenuto, rivendicando il principio della sovranità nazionale. Il Presidente della Repubblica, dispiace dirlo, ha comunque commesso un errore, spostando il tiro dalla difesa dello stato di diritto ( tema indigesto per la destra) a quello delle difesa della sovranità nazionale ( cavallo di battaglia della destra).

Dopo di che – la cosa è di ieri, – Giorgia Meloni è finalmente intervenuta, prima elogiando Mattarella come difensore della sovranità nazionale, poi annientando in modo sarcastico Musk. Ecco le parole di Giorgia Meloni:

‘Tra le tante imprese portate a casa da Elon Musk c’è pure quella di far rivendicare la sovranità nazionale alla sinistra: credo sia più difficile che andare su Marte’ ironizza. E a una domanda sul botta e risposta tra Musk e il capo dello Stato, Sergio Mattarella, Meloni risponde: ‘Penso che le parole del Presidente della Repubblica siano state importanti, sono sempre contenta quando sento difendere la sovranità nazionale ‘ “ (**).

Per ricapitolare: grazie  all'aiutino, intenzionale o meno,  di Mattarella e ai riflessi  lenti della sinistra, Giorgia Meloni  è riuscita a trasporre  l’intera questione sul piano della difesa della sovranità nazionale, aggirando così  la  questione dello stato di diritto a rischio in Italia.  

Ha scelto un terreno congeniale alla destra, capace di far scaldare il cuore populista di molti italiani, anche di sinistra, perché l’ antiamericanismo in Italia ha natura trasversale. Si è dato fuoco alla polveri del nazionalismo: atteggiamento arcaico e pericoloso, largamente fuori tempo, ma non nell’ Italia dimentica della catastrofe del nazionalismo fascista.

Sul piano della poco nobile arte del depistaggio argomentativo, dell’esaltare la pagliuzza nell’occhio dell’avversario, occultando la trave nel proprio, Giorgia Meloni è abilissima, una vera virtuosa del sarcasmo traspositivo. 

I suoi fanatici sui social inneggiano  istericamente alla  capacità  di "Giorggia"  di "asfartare" i nemici. Un clima non proprio da club britannico. Che lei incoraggia, offendendo la logica. E i suoi stessi fans che non si rendono conto di essere presi per il naso.

Si tratta di una “tecnica” collaudata: Femminicidi? La colpa è dei migranti difesi dalla sinistra. Il migrante affoga? La colpa e dei trafficanti di esseri umani, difesi dalla sinistra. E così via.

Ovviamente, fino a quando Giorgia Meloni non decide, come accaduto, di ricorrere al "Piano B". Cioè di scegliere il silenzio e atteggiarsi a vittima della sinistra. 

Anche qui, ecco qualche esempio. Il fascismo? Roba di ottant’anni fa, cavalcata dalla sinistra, perché non ha altri argomenti. I giovani del partito che inneggiano a Hitler e Mussolini? Quattro gatti, strumentalizzati da una sinistra che ha violato la privacy di Fratelli d’Italia. E così via.

Ovviamente tutto ciò avviene grazie alla complicità pavloviana di larga parte dei mass media, a rimorchio da anni dei social e delle piazze televisive. Sicché il depistaggio da argomentativo si tramuta in comunicativo muro di gomma.

Non sarà perciò facile liberarsi di un avversario così pericoloso, capace di usare le parole come pietre.

Abbiamo criticato l’atteggiamento della sinistra. Però va anche detto che se la sinistra spostasse verso l’alto l’asticella dello scontro sociale, rischierebbe l’accusa di fomentare disordini, favorendo così un giro di vite. Se, per contro, la sinistra continuasse a sposare la causa della passività, rischieremmo invece di ritrovarci tra dieci anni con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, La Russa o Nordio al Quirinale e con una nuova Costituzione autoritaria e plebiscitaria. E  magari con l'Italia nelle braccia della Russia e della Cina.

Un bel dilemma. Che fare? La parola ai lettori.

Carlo Gambescia

(*): Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/11/musk-e-la-legge-del-piu-forte.html .

(**)Qui: https://www.adnkronos.com/politica/meloni-musk-cosa-ha-detto-oggi-la-premier_7jNOA62kDCXuzyk5POCTAe?refresh_ce .

martedì 19 novembre 2024

G20 Rio. Chi è liberale e chi no

 


Come spiegare in che cosa consiste la differenza tra un leader liberale e un leader statalista? In modo semplice, senza tanti giri di parole?

Si prenda il G20 di Rio. Si è parlato di povertà e fame nel mondo in chiave come al solito decisamente anticapitalista. La cosa però torna utile per spiegare la differenza di cui sopra. Ad esempio la posizione di Giorgia Meloni è più vicina, se non addirittura simile, a quella di Lula, un socialista, quindi statalista tutto d’un pezzo, che a quella di Javier Milei, un liberale, amico della libertà e del libero mercato.

Si legga, in proposito, questa dichiarazione di Milei:

” ‘La maggior parte dei governi moderni, per malizia o ignoranza, insiste sull’errore secondo cui per combattere la fame e la povertà è necessario più intervento statale e più pianificazione centralizzata dell’economia’ , ha esordito Milei. Poi ha aggiunto che ‘ogni volta che uno Stato ha avuto una presenza al 100% nell’economia, che è solo un modo carino di chiamare la schiavitù, il risultato è stato l’esodo sia della popolazione che del capitale e milioni di morti per fame, freddo o crimini’ ” (*).

Per Milei, lo stato non è la soluzione ma il problema. Riesca o meno a trasformare la sua Argentina malata di peronismo, Milei è un liberale. Non c’è da aggiungere altro.

Si legga ora la dichiarazione di Giorgia Meloni:

“ ‘ Se vogliamo raggiungere la sicurezza alimentare, dobbiamo prima di tutto difendere il diritto di ogni popolo e di ogni Nazione di scegliere il modello produttivo e il sistema di alimentazione che reputano più adatto alle proprie caratteristiche’. Ogni Nazione, il ragionamento della premier, ‘ha le sue peculiarità e le scelte non possono che partire dai territori, dalle realtà locali, dalla propria cultura’ ” (**).

Per Giorgia Meloni, al contrario lo stato è la soluzione mentre il mercato il problema.

Si rifletta: qual è il corollario politico del suo ragionamento. Chi difende “le peculiarità ” dei popoli? Lo stato. Quindi in ultima istanza è lo stato che decide se aprire o chiudere al mercato.

Milei fa invece notare che la chiusura al mercato implica “fame, freddo, crimini”.

Chi ha ragione? Milei, che basa le sua tesi su una corretta analisi della storia economica mondiale. Storia che ci insegna che il mercato è apportatore di ricchezza. E che nel 1724 si viveva male. Nulla a che vedere con il 2024 . Di più, la povertà e la fame resistono in quei paesi dove autocrazia, corruzione e protezionismo hanno la meglio, come in Venezuela, Russia, Cuba. O in Africa e Asia dove prevalgono le dittature nazionaliste.

Più ci si chiude “dentro casa”, diciamo così, evocando i demoni dell’identità, più si torna indietro alle economie preindustriali. Quando, in un’economia bloccata, dove i beni non circolavano, bastava un cattivo raccolto per provocare la morte di centinaia di migliaia di persone.

Il libero mercato e diciamo pure la tecnologia alimentare hanno permesso di risolvere ciò che era un problema basico dell’umanità: la popolazione cresceva, però che cosa accadeva? Che a un certo punto, poiché il mercato era frazionato in tanti piccoli stagni (comunali, regionali, nazionali), i prodotti non circolavano, e così non si riusciva a nutrire tutti. Di conseguenza, il sovrappiù sottoalimentato moriva. E si ricominciava, fino a una nuova crisi e così via. E così è stato fino a quando scienza, tecnica e mercato non hanno permesso, negli ultimi tre secoli, una moltiplicazione dei beni che, dal punto di vista retrospettivo, ha del miracoloso.

Pertanto, invece di strapparsi i capelli sui 700 milioni di poveri, oggi esistenti, più o meno la decima parte dell’umanità, e di maledire “il capitalismo”, si dovrebbe ricordare e sottolineare, anche con giusta soddisfazione, che nel 1724, i poveri erano quasi i nove decimi dell’umanità (***).

Il sistema capitalistico funziona. Però per funzionare ha necessità di frontiere aperte e massima libertà individuale di viaggiare, migrare, commerciare, inventare. Ma diremmo pure di conoscersi, amare, ammirare, scoprire.

A tale proposto, non si può non definire inquietante quanto dichiarato da Giorgia Meloni sul rapporto tra tecnologia e beni alimentari. Si legga qui:

È ‘fondamentale il ruolo della ricerca’ ma ‘non per produrre cibo in laboratorio’ che significherebbe andare verso un mondo nel quale ‘chi è ricco potrà mangiare cibo naturale e a chi è povero verrà destinato quello sintetico’. E’ uno dei concetti che, secondo quanto si apprende, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito al G20 di Rio de Janeiro, ripetendo che quello non sarebbe ‘il mondo nel quale voglio vivere’ ” (****).

Roba da complottisti alimentari, stupidaggini che partono da due pre-assunti sbagliati. Il primo, antiscientifico che attribuisce al cibo sintetico un valore non nutritivo. Il secondo, classista, che preconizza una futura realtà piramidale di tipo fantascientifico.

Insomma, Giorgia Meloni, naviga intellettualmente (parola grossa) tra pregiudizi antiscientifici e fantascienza. E questo perché la sua cultura della tentazione fascista la spinge inevitabilmente a odiare il libero mercato e disprezzare la libertà tout court. Soprattutto quando parla di difesa delle identità collettive, la Meloni cade nello stesso errore storico del nazionalista che vedeva e vede nella libertà individuale non un’opportunità ma un ostacolo.

Un’ultima cosa. In Italia la sinistra ha vinto le regionali in Emilia-Romagna e in Umbria. La cosa può anche fare piacere a coloro che avversano il governo Meloni. Però c’è un fatto: che, al momento, questa sinistra (a maggior ragione se in “campo largo”) non è liberale. Addirittura estremizza le sue posizioni anticapitaliste.  Si pensi solo alla monomania welfarista.

Detto altrimenti: è lontana da Javier Milei come lo è Giorgia Meloni. 

Cosa significa?   Nulla di buono. Che la sinistra estrema e la destra estrema si toccano.

E questo è un grosso problema.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2024/11/19/milei-firma-la-dichiarazione-finale-del-g20-ma-la-critica_4f5ccf3d-d80f-4648-9929-810587296b57.html .

(**) Qui: https://www.adnkronos.com/politica/g20-italia-alleanza-contro-fame-e-poverta_72BKtivE1zMMO2navzshm1?refresh_ce#google_vignette .

(***) Sul punto si vedano: Sergio Ricossa, Storia della fatica, Armando 1974 (economista) e Piero Melograni, La modernità e i suoi nemici, Euroclub, Milano 1996 (storico). Nonché, Hans Rosling, Factfulness. Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo, Rizzoli 2018 (medico e statistico).

(****) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2024/11/18/meloniitalia-aderisce-convinta-allalleanza-contro-la-fame_a069fbe7-5214-4c89-81af-74c2f58f3859.html .

lunedì 18 novembre 2024

Femminismo di destra?

 


Qual è il lascito principale del Novecento? Diciamo maledetto? L’ ideologia come braccio armato dell’intolleranza. Cioè del pensare, ma sempre contro qualcuno o qualcosa. Parliamo di un odio capillare, sistematico, organizzato, incarnato dal fascismo, dal nazionalsocialismo, dal comunismo.

A differenza del liberalismo, che prima di ogni altra cosa (quindi anche dei possibili difetti “ideologici”) è una mentalità aperta e tollerante, l’ideologia divide il mondo in buoni e cattivi. E al tempo stesso, cerca di appropriarsi delle idee altrui, riconvertendole in proprie. Le famigerate Gramsci-strategie a destra, che hanno ormai superato i cinquant’anni.

Si pensi a una tematica come quella femminista, che non è altro che un portato della moderna idea di eguaglianza, nel senso di perseguire la parità di diritti tra uomo e donna.

Nonostante questa diversità di Dna culturale, la destra, soprattutto quella al governo in Italia, dalle radici fasciste, sembra rivendicare ciò che si potrebbe definire il femminismo di destra, come provano convegni, incontri e pubblicazioni. 

In realtà qualsiasi tentativo di collegare destra, “quella” destra, e femminismo assume inevitabilmente valore ossimorico. Per dirla alla  buona, si pensi ai famosi cavoli a merenda.

La destra ha sempre posto l’accento sulla madre, o comunque sulla donna impegnata nelle attività di cura: lavoro domestico, di maestra, infermiera, ma anche “soldatessa” come nel caso della famose “Ausiliarie” della Repubblica di Salò, impiegate però nelle retrovie in attività appunto di cura e di sussistenza.

Nonostante ciò, può anche essere comprebsibile che un partito, che ha come leader una donna, Giorgia Meloni, presidente e “madre”, come non a caso si sottolinea, si sforzi di delineare la figura della donna di destra. Un’operazione però molto a tavolino, puro costruttivismo ideologico in stile Novecento.

Che tuttavia – ecco il pericoloso strascico ideologico – assume l’aspetto della ricerca di identità contro qualcosa. Per capirsi: A non può essere B. Quindi siamo davanti a un discorso non inclusivo. Nel caso specifico si va contro l’idea di una famiglia fluida (semplificando). Il concetto di esclusione per la destra è un fattore unificante. Il che spiega la lotta all’ultimo sangue contro la famiglia B che non può essere famiglia A, lotta che accomuna uomini e donne di destra.

Ciò significa due cose: 1) che il femminismo di destra è tradizionalista e 2) che si impone di combattere il femminismo di sinistra, visto come veicolo, altro tema gradito agli uomini di destra, di cultura woke, cancel, transgender: l’ultimo grido in tema di cultura catalizzante l’odio della destra.

Il femminismo di destra in parole povere si schiera con la normalità, o meglio con ciò che ritiene sia la normalità, a partire dalla difesa della famiglia tradizionale. Un vero e proprio assunto storico e logico.

Perché? Per il semplice fatto che la cultura di destra rifiuta il liberalismo, e rifiutandolo, disprezza il pluralismo, quindi l’idea stessa di una famiglia plurale. E, cosa più grave ancora, il diritto, uguale per tutti e tutte, di sposarsi o mettersi insieme con chiunque si desideri, con i diritti che ne discendono in termini di prole, gestione familiare, eccetera.

Insomma, una volta sfrondato il femminismo di destra dagli inutili orpelli della retorica contro la sinistra, non resta che una visione tradizionalista, prima che della donna, del mondo. Il pre-assunto dell’ assunto di cui sopra.

Un vicolo cieco. Perché tradizione significa ripetizione del medesimo attraverso la trasmissione generazionale. Pertanto già nell’atto stesso di tradere (trasmettere, tramandare) si rivela la negazione di ciò che non viene trasmesso (giudizio di valore incluso).

E poiché la tradizione è  invitabilmente gerarchia (di valori e di uomini in primo luogo), la parità dei diritti, concetto moderno per eccellenza, con tutto quel che ne consegue, è qualcosa di totalmente inaccettabile per la destra.

Di qui, una volta esauritosi il fumo propagandistico degli attacchi portati contro la sinistra, si può scoprire quel nulla  che caratterizza un pensiero che non ha mai accettato la modernità. E  che quindi non è del mondo (moderno) e che  non vuole neppure parlare al mondo (moderno). La negazione sublima l'incapacità.

Si pensi a una grande questione come quella della maternità surrogata, che la destra ha liquidato brutalmente come “utero in affitto” e tramutato in reato universale. Un problema di libertà della donna meschinamente retrocesso a comportamento sanzionabile penalmente.

Ecco un bellissimo esempio di femminismo di destra. Roba da vergognarsi.

Carlo Gambescia

domenica 17 novembre 2024

Mille ma non più mille? La dichiarazione G7 sull’Ucraina

 


Si dice che la diplomazia non debba mai usare toni forti. E che il senso di una dichiarazione debba essere colto tra le righe. Insomma, per farla breve, i confini tra diplomazia e ipocrisia non sono mai ben delineati.

Come si può cogliere allora il senso di un documento diplomatico? Non tanto da quello che dice ma da quello che non dice.

L’ipocrita, in generale, è chi parla o agisce fingendo virtù o altre buone qualità: sentimenti che in realtà non ha. L’ipocrita dissimula, al fine di ingannare gli altri per guadagnarne il favore.

Scendendo di un gradino, l’ipocrita politico è chi dice di volere una cosa, ad esempio la pace, mentre il realtà ne vuole un’altra, la guerra. Ovviamente vale anche il contrario: si parla di guerra , ma sotto il tavolo si fa piedino (di pace) con il possibile vincitore.

Sotto quest’ultimo aspetto si legga la dichiarazione, di “sostegno a Kiev”, rilasciata, su iniziativa dell’ineffabile Giorgia Meloni, attualmente alla presidenza G7, in vista, come si scrive, “del millesimo giorno dall’inizio della guerra di aggressione russa contro l’Ucraina”. Dichiarazione ovviamente concordata con gli  altri leader.

Sostegno duraturo all’Ucraina.
Noi, i leader del Gruppo dei Sette (G7), riaffermiamo il nostro fermo sostegno all’Ucraina per tutto il tempo necessario.
Rimaniamo solidali nel contribuire alla sua lotta per la sovranità, la libertà, l’indipendenza, l’integrità territoriale e la sua ricostruzione. Riconosciamo anche l’impatto dell’aggressione della Russia sulle persone vulnerabili in tutto il mondo.
Dopo 1.000 giorni di guerra, riconosciamo l’immensa sofferenza sopportata dal popolo ucraino. Nonostante queste difficoltà, gli ucraini hanno dimostrato una resilienza e una determinazione senza pari nel difendere la propria terra, la propria cultura e il proprio popolo.
La Russia resta l’unico ostacolo ad una pace giusta e duratura. Il G7 conferma il proprio impegno a imporre gravi costi alla Russia attraverso sanzioni, controlli sulle esportazioni e altre misure efficaci.
Restiamo uniti con l’Ucraina
” (*) .

Se ci si passa l’espressione “la ciccia” della dichiarazione è nella chiusa: “Il G7 conferma il proprio impegno a imporre gravi costi alla Russia attraverso sanzioni, controlli sulle esportazioni e altre misure efficaci”.

Non si parla di fornitura di armi (truppe, per carità…), ma di “altre misure efficaci”. Il massimo della genericità. Ovviamente, “per tutto il tempo necessario”, come si legge. Tanto la pistola è scarica. Insomma, in un momento così grave, si sceglie l’indeterminatezza, o peggio ancora la superficialità. Quasi un’ offesa all’intelligenza del popolo ucraino.

Italia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti d’America prendono tempo. Con la presidenza Trump alle viste può essere compromettente  parlare di armi all’Ucraina. Armi che però sono l’unico mezzo efficace per evitare che Kiev soccomba.

Che dice, in sostanza, il documento? Sanzioni economiche sì, aiuti militari ni. Non si chiude del tutto la porta, però, da quel che si capisce, se gli Stati Uniti dovessero fare un passo indietro, sarà difficile che gli altri membri assumano il compito di rifornire militarmente l’Ucraina. Diciamo che è possibile ma poco probabile.

Ovviamente Zelensky, che conosce le regole diplomatiche, ad alto tasso di ipocrisia, ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, anche perché del piano di pace di Trump si sa poco, e ancora meno delle eventuali reazioni russe. Quindi è prudente attendere, per scoprire le carte di amici e nemici. Ottima scelta.

Fin qui la diplomazia. Però, per dire le cose fuori dai denti, il bicchiere degli aiuti militari all’Ucraina è mezzo pieno o mezzo vuoto? Diciamo che, stando a Borrell, l’aiuto militare americano è del 25 per cento superiore a quello europeo (**). Di conseguenza, se gli Stati Uniti a gennaio dovessero fare un passo indietro, per l’Europa sarebbe complicato colmare il vuoto. Soprattutto per questioni legate ai tempi di una riconversione bellica, anche se parziale, dell’economia europea.

Ovviamente volere è potere. Se l’Europa volesse potrebbe riconvertire la propria economia in chiave militare (“regoletta” di coerenza, che non vale solo per le “riconversioni ecologiche”, buoniste). Il problema è che l’Europa sembra essere caduta prigioniera della propaganda pacifista, una forte pressione, anche a livello mediatico, che indebolisce le difese immunitarie europee. Comunque sia, la riconversione militare, richiede tempo, e all’inizio, grosso modo almeno per un anno secondo gli esperti, la linea di rifornimento bellica subirebbe seri contraccolpi, con gravi conseguenze per le linee di difesa ucraine.

Il nostro pensiero è che per l’Ucraina si preparano tempi durissimi. Gli Stati Uniti, si avviano a recitare il copione, con le pagine macchiate di caffè, del 1914-1917 e 1933-1939: quello di un isolazionismo stupido e controproducente che finirà per favorire Russia e Cina e altri possibili servitori geopolitici.

D’altra parte, con una Nato priva del sostegno americano, l’ Europa, debole e disunita, potrà fare ben poco. La triste ratio della dichiarazione G7 a trazione Meloni potrebbe essere: “Mille ma non più mille”. Il contrario insomma di quel che si celebra a parole.

Il che spiega il trionfo di un’ipocrisia, per dirla con Machiavelli, che è dissimulazione della debolezza, non della forza. In qualche misura di necessità si fa virtù. O per dirla con François de La Rochefoucauld, per l’ennesima volta abbiamo la prova che purtroppo “l’hypocrisie est un hommage que le vice rend à la vertù”.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.governo.it/it/articolo/dichiarazione-di-sostegno-all-ucraina-da-parte-dei-leader-g7/27056.
(**) Si veda qui ad esempio: https://www.analisidifesa.it/2024/11/quasi-tutti-consegnati-gli-aiuti-militari-statunitensi-allucraina/ .

sabato 16 novembre 2024

La telefonata di Scholz a Putin

 


"Confusione/Confusione /Mi dispiace/ Se sei figlia della solita illusione" cantava Lucio Battisti… Ecco, il primo apporto di Trump, ancora privo dei pieni poteri, è quello di  accrescere la confusione, già presente sul campo, ovviamente anche diplomatico. E qual è l’illusione? Quella di far venire a miti consigli Mosca rilanciando su parole e frasi fatte, tratte dal repertorio pacifista. Del resto, Trump, come dice,   tempo  24  ore  risolverà tutto. 

La stessa telefonata di Scholz a Putin, di cui oggi parlano i giornali, non è altro che la figlia vigliacca della “solita illusione” pacifista. “Perché morire per Kiev?”, come fu per Danzica fino al 1939. E Scholz, cedendo all’invasore e al clima di incertezza instaurato da Trump, che però promette di risolvere problemi come Mister Wolf,  ha alzato per primo il telefono. Il pavido, quando la confusione incalza, cede. “Buonasera Dottor (Putin)”, cantava tanti anni fa una bella ma lagnosa Claudia Mori, gorgheggiando al telefono con l’amante…

Al di là delle battute canore, gradite o meno, da più due anni ci siamo assunti su queste pagine l’ingrato compito di Marco Porcio Catone. O più modernamente di una specie di Dottor Stranamore. Cioè di sottolineare la necessità di dare una salutare lezione a Mosca fornendo le armi necessarie e gli uomini all’Ucraina aggredita dai russi. Non per bellicismo congenito. Ma per contrastare la sindrome del conquistatore, o del carciofo geopolitico che il conquistatore si vuole mangiare foglia dopo foglia.

Da una parte noi, come pochi altri osservatori, a evocare la guerra, dall’altra i tanti, troppi pacifisti, di ogni colore, persino fasciocomunisti, tutti disposti a cedere all’arroganza russa, perché la pace, eccetera, eccetera.

Si dirà che però armi sono state fornite, aiuti di vario genere anche. Certamente, ma di malavoglia. Senza una linea strategica. Solo per tirare avanti nella speranza di un miracoloso ritiro russo. Quindi, dell’ idea verdoniana , per capirsi, dell’amore per l’Ucraina che è bello finché dura. Di qui incertezza sugli scopi e confusione sui mezzi da usare. Si pensi solo alle oziose discussioni sulla natura offensiva o difensiva delle armi, cedute all’Ucraina. Per la cronaca (storica), inizio anni Trenta, con il Giappone in Manciuria, armato fino ai denti e con Hitler che affilava i coltelli, alla Società delle nazioni si discuteva delle stesse ridicole tematiche. Per poi finire, come tutti sappiamo.

In questo quadro confuso a Occidente, circa le finalità della guerra, Zelensky e la classe dirigente ucraina, inclusi i quadri militari, hanno mostrato dinanzi a un nemico superiore sotto il profilo militare, ma inferiore sotto quello delle motivazioni morali, di avere idee chiare, coraggio, con sconfinamenti, ma solo qualche volta, nel visionario (Trump e Musk possono esserlo, Zelenski no?), nonché dotati di una eccellente capacità di resistenza, che va doverosamente estesa all’intero popolo ucraino. E in particolare alle donne: madri, mogli, figlie che onorano i caduti, trattenendo fieramente le lacrime. Si pensi alla forza tranquilla dei giusti. Si parla di trentamila soldati morti e di diecimila vittime civili. Con la pace di Trump e Scholz sarebbero morti invano.

Certe parole oggi non si usano più. Anzi, quasi se ne proibisce l’uso nel dorato mare di latte e miele pacifista. La parola eroe è mal giudicata.

Tuttavia il popolo ucraino, per come si è difeso, al fronte come nelle città bombardate dai russi, merita pienamente la definizione di eroico. Altro che le lotte italiane per il “salario minimo” e l’ “aumento delle pensioni”. Da un parte un popolo di liberi cittadini, l’Ucraina, dall’altro un manipolo di sudditi, la Russia. Sono parole forti, ma non abbiamo paura di pronunciarle.

Soprattutto quando si pensa a un fatto molto semplice: che sarebbe bastata più decisione da parte dell’Occidente euro-americano per rovesciare le sorti della guerra. Più gusto per sfida. E invece la melassa pacifista, in cui annega la cultura europea, non ha aiutato. Come pure, non ha facilitato il compito della Nato l’ambiguità di non pochi leader politici , a cominciare dai silenzi di Giorgia Meloni. E ora, con l’avvento di Trump, sarà più facile, sfruttare il ventre molle dell’Europa: una cultura pacifista, a destra come a sinistra, fine a se stessa. Insomma, la telefonata di Scholz non è che la punta dell’iceberg.

Tutto sommato Biden, che non dimentichiamo si è ritirato in modo ignobile dall’Afghanistan, sull’Ucraina si è mostrato più deciso. Ora però con Trump, malato tra l’altro di esibizionismo, e con un’Europa, regina dell’anfibologia politica, che non vede l’ora di allinearsi al nuovo egoistico pacifismo americano, la sorte dell’Ucraina rischia di essere segnata.

Confusione, vigliaccheria, rodomontismo, non è la prima volta che accade nella storia dell’ Europa moderna. Si pensi alle spartizioni della Polonia alla fine del Settecento. Ultima quella tra nazisti e comunisti nel 1939-1940. Oppure al silenzio occidentale dinanzi all’insurrezione ungherese nel 1956. E infine al vergognoso ritiro americano dal Vietnam nel 1973 e alla caduta  dello Shah di Persia nel 1979.

E per oggi basta così. Troppa vergogna sulle nostre povere spalle di osservatore metapolitico di un Occidente sull’orlo dell’abisso.

Carlo Gambescia

venerdì 15 novembre 2024

Umbria Ring

 


In un paese normale, diciamo dalle radici protestanti (poi spiegheremo perché), il candidato di turno avrebbe fatto un passo indietro. E invece, anche questa volta, un’ inchiesta giudiziaria è diventata quasi una medaglia da appuntarsi sul petto.

Il caso è quello di Donatella Tesei, Presidente della Regione Umbria, anzi “Governatrice”, della Lega, che, nonostante sia incappata in un’inchiesta giudiziaria, si presenterà domenica prossima agli elettori per un secondo mandato, sostenuta dalle destre.

Quali accuse ? La Tesei risultava indagata ( e l’uso dell’imperfetto ha una sua giustificazione) con l’accusa di abuso d’ufficio in relazione alla gestione dei fondi del Piano di sviluppo rurale. Dopo di che, però, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha inviato al Gip la richiesta di archiviazione alla luce dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio, cavallo di battaglia del Ministro delle Giustizia Nordio, che risale al luglio di quest’anno. Richiesta subito accolta dal Gip. Il quale ha archiviato l’indagine a carico della “Governatrice” e di Paola Agabiti , assessore. L’indagine, sembra di capire risaliva al mese di ottobre . I fondi, alcune centinaia di milioni, erano pervenuti all’azienda agricola del marito della Agabiti, a sua volta, come detto, indagata e “archiviata”, azienda presso la quale lavorava il figlio della Tesei (*).

Giustamente nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva, però per una questione di onore personale, di correttezza e trasparenza istituzionale il nome di un candidato a una carica politica dovrebbe essere immacolato. “Dovrebbe”, perché poi, destra e sinistra, a turno, cioè in base all’appartenenza politica del candidato, fingono di ignorare questo fatto. Fischiettano e si guardano intorno.

Ad esempio, lo stesso fatto che il reato di abuso d’ufficio non sia più tale, non escluderebbe, come nel caso Tesei, la ricaduta morale. Detto altrimenti: ciò che può essere legale (giuridicamente), può non essere legittimo moralmente.

Perché in Italia si tollerano queste cose? Perché i politici sembrano essere privi di rigore morale? Perché un’inchiesta giudiziaria talvolta diventa addirittura un fiore all’occhiello? Una specie di ferita di guerra, da esibire, come faceva Berlusconi?

Si pensi al caso della Tesei, che però, come detto, per la Procura della Repubblica, non è più un caso. Quindi i nostri sono ragionamenti puramente di scuola. Che vanno oltre le persone coinvolte o meno.

Vanno invece evidenziati due aspetti tipicamente italiani, o comunque tipici dei paesi a modernizzazione tardiva. Che ritroviamo spesso in vicende simili.

In primo luogo, il familismo, fondamentale segno di arretratezza culturale. In secondo luogo, l’altrettanto arcaico sistema del controdono politico: il voto come dono al quale il candidato eletto risponde con un controdono. Un “Kula Ring” (Anello di Kula), secondo la terminologia dell’etnologo Malinowski, non basato sullo scambio di conchiglie e monili, come tra gli indigeni delle Trobriand, ma di voti per finanziamenti pubblici. Saremmo davanti a un “Umbria Ring”. Saremmo, perché l’inchiesta è stata archiviata. E quindi non si può non tenerne conto. Ripetiamo, ipotesi di scuola.

A questo si aggiunga, il criterio controriformistico (nel senso della Controriforma cattolica) della doppia verità secondo la fede politica. L’appartenenza, un tempo religiosa, oggi politica, lava la colpa individuale, il peccatore, ma non il peccato che continua a valere per l’avversario politico. Insomma, un specie di “pass” per la giravolta politica, che conduce inevitabilmente alla distruzione di ogni forma di responsabilità morale individuale a prescindere dall’appartenenza.

Ci siamo limitati  a ricordare solo alcuni aspetti della questione.  Si badi: non che nei paesi, per così dire protestanti, dove l’etica capitalistica si è sviluppata precocemente oggi non esista corruzione o certa irresponsabilità politica ai limiti dell'infantilismo politico come nel caso di Trump.

Tuttavia, ovunque sia passato il treno della rivoluzione puritana, il senso di responsabilità individuale   - diciamo gli anticorpi morali -   è sicuramente superiore rispetto ai paesi a tradizione controriformistica, come l’Italia e la Spagna. Dove ad esempio un premier socialista, nonostante le inchieste giudiziarie, è tuttora in carica.

Carlo Gambescia

(*) Qui per una ricostruzione della vicenda: https://www.ilsole24ore.com/art/umbria-governatrice-tesei-indagata-fondi-agricoli-chiesta-l-archiviazione-AGxGfCr .

giovedì 14 novembre 2024

“DOGE”. Trump non è liberale né liberista. Punto.

 


La storia del “DOGE” (Department of Government Efficiency) annunciato da Trump, con al comando Elon Musk e Vivek Ramaswamy ( un uomo d’affari repubblicano di provata fede trumpiana), va subito chiarita perché non si tratta assolutamente di una scelta liberale né liberista.

I principali think tank italiani, o “serbatoi di pensiero”, che si qualificano liberali, dovrebbero subito smontare mattone per mattone una misura che in realtà è di tipo statalista. In pratica si annuncia di voler istituire un altro Dipartimento. Quindi siamo davanti a un atto di natura politica all’insegna del trumpiano L’ État c’est mois. Altro che la neutralità politica predicata dal pensiero liberale.

Scrive Trump che il compito del nuovo Dipartimento per l’Efficienza Governativa è  quello di “aprire la strada alla mia amministrazione per smantellare la burocrazia federale, sforbiciare le regole in eccesso, tagliare gli sprechi e ristrutturare le agenzie federali”.

Il punto è che una politica liberale non consiste nel moltiplicare i controllori dei controllati, ma più semplicemente nel ridurre il numero dei controllati. Se B controlla C, il problema non si risolve introducendo A perché impedisca a B di controllare C. Ma si elimina semplicemente B.

Il primo liberale (inconsapevole) della storia fu il filosofo francescano Guglielmo di Occam, che con il suo cosiddetto rasoio, consigliò vivamente ai suoi interlocutori, di non moltiplicare, sul piano ragionamento, gli enti non necessari: “Non sunt moltiplicanda entia sine necessitat”. Il succo del suo discorso valido, per ogni ambito e tempo, è di non fare inutilmente con molte cose ciò che si può fare con poche.

Concetto estraneo a Trump. Altrimenti avrebbe rinunciato al DOGE. Frutto invece di una scelta che risponde al criterio politico della minaccia. Per tenere al guinzaglio l’ammnistrazione si impone la moltiplicazione dei controlli. E ci si guarda ben dal ridurre i controlli e conseguenti spese per foraggiare i controlli. Spese, che al di là del valore economico (alto o basso che sia), rinviano alla sconsacrazione di un importante questione di principio: che si fa con molto ciò che si potrebbe fare con poco. Si ignora la lezione di Occam.

Il Presidente vuole imporre la propria volontà politica incutendo il timore di un imminente danno o pericolo che consiste nella soppressione di un ente governativo e nel licenziamento dei suoi membri, se non si obbedirà al nuovo corso. Il che implica che l’alito fedito del governo federale appesterà l’aria più di prima. Altro che fare di nuovo grande l’America… Solo prove tecniche di Big Government

Per semplificare il concetto: il liberista elimina i controlli, lo statalista travestito da liberista li accresce. Si inventa come Trump nuovi dipartimenti. Detto alla buona: nuovi megaministeri.

Del resto Trump – altro errore di alcuni osservatori – non è liberale, perché odia giudici, leggi e minoranze, né liberista, perché, oltre ad essere un protezionista, ai normali controlli istituzionali, politici ne vuole sovrapporre un altro, di tipo iperpolitico, sociologicamente fondato sulla richiesta, più o meno esplicita, di un atto di sottomissione al nuovo ordine, pena il licenziamento.

Al cosiddetto Spoils system, una pratica che risale ai tempi di Jackson e che consiste nella tacita regola che gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare del governo, Trump sovrappone  la Spada di Damocle del dipartimento che controlla tutti gli altri dipartimenti. Una specie di Superministero , di cui ancora non si conoscono regole e prassi, con incarico alla minaccia: o paghi il pizzo politico o sei fuori. Roba da racket. Altro che stato minimo…

La retorica trumpiana sui troppi freni rimanda non tanto ai freni economici quanto ai politici. Trump vuole tutto il potere per sé. Ragiona come Tony Soprano. Il che non è esattamente in sintonia con il principio liberale della separazione o divisione dei poteri. E neppure con quello dello sbandieratissimo Law and Order, che invece vale solo per i migranti…

Trump si comporta da monopolista del potere, da accentratore dell’offerta politica. La natura del DOGE prima che economica è politica.

Sono cose che vanno chiarite e divulgate, come dicevamo, dai principali centri di ricerca liberali. Proprio per evitare equivoci.

Carlo Gambescia

mercoledì 13 novembre 2024

Secondo Ferrarotti...

 


L’Italia del dopoguerra, che ha visto l’istituzionalizzazione della sociologia come disciplina universitaria, resterà per sempre legata a due importanti nomi: Francesco Alberoni e Franco Ferrarotti.

Alberoni è scomparso l’anno scorso, e  poche ore fa è giunta la notizia della morte di Franco Ferrarotti (1926-2024).

Se Ferrarotti ha lasciato un segno, lo si può scorgere nella concezione di una sociologia militante, non in senso ideologico, ma di impegno civile del sociologo nella soluzione del problemi sociali. Il sociologo come assistente sociale.

Sotto questo aspetto Alberoni si è mosso lungo linee assai differenti: quelle di una sociologia storica, rivolta a indagare le radici intellettuali dell’Occidente. Il sociologo come metodologo della storia.

Del resto la storia nell’opera di Ferrarotti resta una specie di illustre sconosciuta. Di qui la sua condanna di Pareto e delle sociologie storiciste. Con Max Weber in cima alla lista dei colpevoli di storiografia selvaggia.

In qualche misura i lavori basici di Ferrarotti, che spaziano dalla sociologia del lavoro alla sociologia economica, rimandano a una sociologia della modernità e della modernizzazione, con un occhio assai critico verso lo sviluppo del capitalismo e per contro, più indulgente, verso il ruolo delle socialdemocrazie e del welfare.

In Ferrarotti si possono ritrovare gli elementi costitutivi della sociologia come ancella del welfare state. Un effetto di ricaduta, per alcuni perverso, del suo rifiuto della storia. Sotto questo aspetto non particolarmente interessanti restano le sue ricostruzioni storiche della disciplina e dei principali padri fondatori.

Ferrarotti resta indubbiamente una figura importante della nostra sociologia, diciamo però dal punto di vista dello sviluppo accademico: della storia dell’istituzione sociologica, della sociologia come pratica e non come pensiero. Per inciso la sua fu la prima cattedra del dopoguerra. Nella stessa terna, se non ricordiamo male figurava anche Alberoni, che giunse secondo.

Ha pubblicato tanto (negli ultimi venti anni forse troppo), messo in cattedra eccellenti allievi, altri meno. Tuttavia non siamo in grado di indicare una sua opera fondamentale. Per capirsi: di Alberoni, non si può non indicare Movimento e istituzione, un classico delle scienze sociali non solo italiane. Ma di Ferrarotti? Forse qualcosa di metodologia, qualitativa, pensiamo al prezioso libretto, Storia e storie di vita (1981), alcuni scritti di sociologia del sindacato e delle imprese, risalenti agli anni Cinquanta-Sessanta, la memorialistica, spesso gustosa perché un pochino pettegola. 

Ferrarotti ci ha lasciato anche un Trattato di sociologia (più edizioni) che non brilla per originalità.

Gran parlatore, buon didatta e conferenziere. Scoppiettante, sguardo di fuoco, si guardava continuamente intorno. E maestro dell’anatema, una pratica che scaturiva dalla nobile arte del determinismo sociologico. Cioè della sociologia secondo Ferrarotti… Guai a contraddirlo. Un vero suicidio accademico nell’Italia degli anni Settanta del secolo scorso.

Carlo Gambescia

Musk e la legge del più forte

 


Per il nazionalismo vale la legge del più forte. Musk ha inveito contro i giudici italiani. E il governo Meloni, ultranazionalista, ha taciuto su una dichiarazione che se fosse sopraggiunta dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna, paesi liberali, avrebbe scatenato un putiferio di reazioni. E invece, finora, la macchina propagandistica del governo l’ha liquidata  come una questione privata tra Musk e i giudici italiani.

Si badi, non si tratta di affinità ideologiche tra i reazionari americani e italiani ( o comunque non solo), ma dell’accettazione della volontà del capobranco che nel nazionalista – si ricordino le terribili parole di Hitler e di Mussolini, sull’indegnità di coloro che perdono le guerre – è norma di vita: feroce darwinismo militare. Perdi? meriti di soccombere.

Il che forse significa che, in precedenza, quando negli Usa governavano democratici e repubblicani liberali, l’Italia, quando e se si allineava, era perché subiva la volontà del più forte a Washington?

No, l’Italia, saggiamente, nel 1945, ritornò nell’alveo delle istituzioni liberali e di una splendida comunione di valori occidentali e atlantici. Ovviamente gli Stati Uniti erano i più forti, senza però farlo pesare. Qui l’intelligenza liberale di quello che oggi si chiama soft power. Come metro di paragone, tra hard e soft power, si pensi alle pesanti ingerenze sovietiche in Ungheria e della Cina in Tibet.

Si dirà ma la Seconda Guerra Mondiale,  la Corea, il Vietnam, le guerre del Golfo, l’Afghanistan, l’Ucraina non sono state forse guerre di ingerenza Usa? No, il contenimento e la  guerra  contro  il nemico fondamentalista, sono  una cosa, l’aggressione militare di un innocente un’altra. Altrimenti tra Mussolini e De Gasperi, tra Saddam e Zelensky non esisterebbe più alcuna differenza. Come pure, per essere più espliciti, tra autocrazia e liberalismo.

Ad esempio, gli Stati Uniti liberali, pur temendo il comunismo, si sono ben guardati, dal far cadere governi europei con la forza delle truppe uscite dalle basi americane per deporre presidenti francesi, tedeschi e italiani. Si dirà che la sola presenza era un deterrente. Ma come mai, il solo deterrente, a segni politici rovesciati, non è bastato con ungheresi, polacchi, cechi, eccetera? E sul punto non c’è tesi complottista che tenga. Si chiama comunione di valori liberali.

Ovviamente resta aperto il disastroso capitolo delle relazioni tra gli Stati Uniti e America centrale e latina. Che dire? Nessuno è perfetto. Tenendo però anche presente – non è una giustificazione – il carattere immaturo, caudillista e nazionalista di quei regimi politici, sicuramente non sempre in sintonia con la tradizione liberale europea. Che dovrebbero fare gli Stati Uniti? Cedere a Mosca? Oppure, come nel caso di Israele, fondamentale bastione liberale in Medio Oriente, lasciare che i fondamentalisti – nemici anche dell’Occidente – lo facciano a pezzi? Si chiama realismo politico liberale. E discende dalla comunione liberale di cui sopra.

Ora però, la svolta reazionaria del 5 novembre, vede imporsi, dall’altra parte dell’Oceano, dove inziarono le rivoluzioni liberal-democratiche, poi estesesi alla Francia e all’intera Europa, un capobranco, Trump. Con accanto Musk,  una specie di vice, che potrebbe succedergli:  si pensi all' imperatore adottivo secondo l'uso romano.

I due leader  credono  nella legge del più forte. Senza mezzi termini. Il che evidenzia  la contraddizione  del nazionalismo italiano costretto, come ogni altro nazionalismo,  a piegarsi dinanzi alla legge della giungla.

Il lato tragicomico è che la destra dalle radici fasciste, dalla quale proviene Giorgia Meloni, che ha sempre contrastato e con disprezzo l’americanismo, ora si trova a condividere la causa del peggiore movimento politico nativistico Usa dal 1945 ad oggi. Un vicolo cieco che ricorda quello in cui si infilarono i collaborazionisti francesi e italiani, tutti rigorosamente nazionalisti, ridotti in stato di semischiavitù politica da Hitler.

Il nazionalista si arrende sempre al più forte . Il senso della gerarchia animale – una specie di dariwnismo bellico – vale all’interno come all’esterno. In ogni nazionalista si nasconde l’animo dello schiavo.

Solo l’adesione a una comunità liberale, fondata sulla società aperta, sulla mediazione e la tolleranza, può tenere a bada i demoni del nazionalismo. E così è stato nell’Occidente euro-americano fino all’avvento di Trump e dei suoi ammiratori europei, quasi tutti  dalle simpatie fasciste, populiste e fascio-comuniste.

C’è un altro aspetto delle dichiarazioni di Musk che merita di essere evidenziato, probabilmente ancora più grave del servile richiamo della foresta al quale obbedisce il nazionalista. 

Quale? Il disprezzo tipico del cesarista, o aspirante autocrate, verso i giudici. Trump, Musk e gli altri esponenti delle destre europee non accettano la divisione dei poteri né la funzione di garanzia del giudice, il ruolo di contrappeso di un potere terzo. Per dirla fuori dai denti, Musk ha mollato un calcione allo stato di diritto.

Il mantra autocratico del cesarista è semplicissimo: il potere politico di Cesare non deve incontrare ostacoli. Soprattutto quando è votato da tutto il popolo o da una larga maggioranza di esso. Per il cesarista la minoranza non merita alcun rispetto e il giudice deve attenersi al volere della maggioranza. O, altrimenti, come dichiara Musk, “andarsene”.

L’ora è grave, anche perché quando sta accadendo,  sembra essere solo l’inizio di un  capovolgimento politico dei valori liberali.

Carlo Gambescia

martedì 12 novembre 2024

Cosa c'è sotto il pacifismo di Musk e Trump?

 


Che le guerre avvengano per colpa dei guerrafondai, o fabbricanti di armi, è una tesi che risale a Lenin quando teorizzò, in un celebre libro, il nesso tra imperialismo, anche militare-economico, e l’autodistruzione finale del capitalismo. 

Anche Musk, di recente, ha attaccato i guerrafondai, cioè l’industria occidentale delle armi, che sarebbe dalla parte di Zelensky. Stranamente, sull’imperialismo militare russo, Musk tace. Sono posizioni condivise anche da Trump.

Un passo indietro. Lenin giudicò addirittura con favore l’esplosione della Prima guerra mondiale, perché si augurava che dal conflitto, sorgesse, come poi fu, una guerra civile europea che avrebbe facilitato la conquista bolscevica del potere. Insomma, un pacifismo, quello leniniano, interessato e da risvolti rivoluzionari.

La strategia di Lenin fu la seguente: per un verso evocava la pace, per combattere i riformisti socialisti, più o meno schierati con i rispettivi paesi, e così attirare le masse pacifiste; per l’altro fece del suo meglio, appena giunto in Russia su un treno blindato tedesco, per armare e organizzare militarmente i suoi.

Dalla guerra civile uscì la macchina militare sovietica. Altro che il pacifismo di Lenin…

Quando Musk condanna Zelensky, a suo avviso al servizio dei guerrafondai, cioè dell’industria militare euro-americana, per un verso evoca la pace, per l’altro la indebolisce, perché la Russia continua ad armarsi, secondo i criteri della macchina militare sovietica, oggi russa, sorta ai tempi di Lenin. Per inciso, Trotsky, poi tolto di mezzo da Stalin, fu il suo primo comandante.

Musk pacifista come Lenin? Nel senso che ha un suo scopo recondito? Quale potrebbe essere? Lenin auspicava la rivoluzione mondiale. E Musk? Probabilmente crede nello sganciamento degli Stati Uniti e della Nato dal conflitto in Ucraina, per avvicinare Washington a Mosca. Non solo per fare buoni affari “tecnologici” o economici, ma perché Musk, e di riflesso Trump, detestano l’Europa dei diritti umani, dello stato di diritto, della separazione dei poteri. Dello “gne-gne” liberale (sembra quasi di sentirli…).

Inoltre sono personaggi dalla forte caratura autoritaria: danno ordini, giusti o sbagliati che siano, e pretendono sempre obbedienza; non si fermano davanti a nulla. Di conseguenza, si intendono meglio con un autocrate che con un leader liberal-democratico.

Dietro il pacifismo di Musk e Trump si nasconde un progetto che, come altre volte nella storia, piano piano sta prendendo forma, anche all’insaputa dei loro protagonisti: la transizione dalla liberal-democrazia alla autocrazia. Per fare solo un esempio, Cesare era un militare ambizioso, come Napoleone del resto. Però non studiarono fin da piccoli da monarchi o imperatori. Hitler invece, si fa per dire, aveva le idee più chiare. Mussolini meno.

E lo stesso vale per Trump e Musk. Molto dipende dalle circostanze e da un gioco di azioni e reazioni di non pochi attori politici stretti tra il caso e la necessità. Ma anche dal contesto e dalle idee dominanti.

In Occidente dopo ottant’anni sembra essere tornata in auge la figura del leader carismatico che si appella direttamente alle masse e disprezza le procedure liberali: una manna per personaggi autoritari come Trump e Musk.

In questo contesto segnato da ordini secchi e slogan politici, un’ Europa recalcitrante è di ostacolo. Per contro, l’aggressività delle destre europee si muove in perfetta sintonia con il neopacifismo americano.

Non è solo una questione di ritorno al passato. Di recupero dell’ isolazionismo americano, come si legge, ma di una decisa fuga in avanti verso il romanticismo politico. Trump e Musk odiano profondamente la liberal-democrazia al punto di cogliere qualsiasi occasione – ecco l’occasionalismo romantico – per liquidarla, anche di allearsi con il diavolo russo. E chissà cinese…

Di conseguenza, il pacifismo può essere utile, come per Lenin, per intercettare il favore delle masse e restare al potere il più a lungo possibile.

Risentimento e pacifismo, una miscela esplosiva. Si tratta però di una partita delicatissima. Molto dipenderà dal ruolo che giocheranno Russia, Cina e alleati politicamente fondamentalisti. Se crederanno o meno alla “voglia” di autocrazia di Trump, Musk e delle destre europee. Se li sentiranno come “dei loro”.

Il rischio, in caso di accordo tra tutte queste forze reazionarie appena ricordate, è quello di un mondo, in pace, ma governato da autocrazie divise in blocchi con l’ arma al piede. In caso contrario, sarà guerra, ma sempre tra autocrazie, con l’Europa nel mezzo a rischio di schiacciamento e sparizione.

Purtroppo la vittoria di Trump, per ora, non lascia spazio per un’alleanza liberal-democratica tra Europa e Stati Uniti. A un' auspicabile ripresa, come fu nel 1939-1945, delle forze liberal-democratiche.

Forze che, mai dimenticarlo, soltanto grazie al gigantesco riarmo americano ( che premiò anche l’Unione Sovietica), ebbero la meglio sul fascismo e sul nazismo. Mettendo nei cannoni non fiori ma proiettili perforanti.

Il mondo liberal-democratico vinse grazie a un enorme sforzo di volontà che portò alla superiorità militare. La stessa superiorità militare che oggi invece si nega all’Ucraina, per evitare, come dicono Musk e Trump, che vincano i guerrafondai. Quanto sono buoni…

In realtà i conti non tornano. A meno che non si considerino le autocrazie migliori delle democrazie liberali.

Carlo Gambescia

lunedì 11 novembre 2024

Nazionalismo (italiano) straccione

 


Cina. Alla visita di Giorgia Meloni in luglio ha fatto seguito quella del Presidente Mattarella. Sostanzialmente, l’Italia si muove nell’ambito degli accordi bilaterali, quindi in un contesto estraneo a qualsiasi forma di multilateralismo. Come del resto si evince dalle seguenti dichiarazioni:

Vogliamo rafforzare il Partenariato strategico globale e promuovere le relazioni bilaterali per entrare in una nuova fase di sviluppo”, ha confermato il leader cinese. Senza “tentazioni di anacronistici ritorni a un mondo di blocchi contrapposti”, ha chiosato il presidente italiano. E le “differenze” di pensiero che pur sono tante non devono essere “ostative al confronto” (*).

Il problema è che di queste “differenze di pensiero” su diritti umani in Cina, guerra in Ucraina, Corea del Nord, Iran, crescente antisemitismo e guerra terroristica allo stato di Israele non sembra si sia parlato.

Pechino vuole partner ubbidienti. Nel quadro di una politica estera che auspica lo sviluppo strategico di due fattori decisivi: 1) il crescente isolamento degli Stati Uniti; 2)l’inarrestabile frazionamento nazionalistico dell’Europa.

Cina e Russia vincono su tutti i fronti: questa è la realtà. E Stati Uniti e Unione europea si preparano a procedere in ordine sparso. In questo contesto Meloni e Mattarella, per dire le cose brutalmente, vanno in Cina a mendicare contratti.

Qui si evidenzia ancora una volta, storicamente parlando la natura stracciona del nazionalismo italiano. Per un verso si predica la grandezza dell’Italia, si pensi a Crispi e Mussolini, per l’altro si è consapevoli della nostra debolezza, sicché si cerca un protettore. Piace l’uomo forte: Crispi guardava a Bismarck, Mussolini si gettò nelle braccia di Hitler. A dire il vero, anche Trump potrebbe essere visto come tale. Ma vuole ballare da solo. Facendo così un favore a russi e cinesi.

L’Italia tende la mano, coperta di stracci, cercando però di darsi un tono, nascondendo rammendi e fondo consumato dei gomiti delle giacche. Uno spettacolo rivoltante.

Si dirà che l’Europa non funziona, la Russia fa paura, gli Stati Uniti barcollano (con Biden) o nicchiano (con Trump), quindi si dovrà fare da soli. O comunque barcamenarsi.

Il che ha un fondamento, se non fosse che il realismo di Meloni e (sembra) di Mattarella è un realismo di corto respiro. Non si capisce, o meglio non si vuole capire, che il rafforzamento di Cina e Russia punta prospetticamente alla sottomissione dell’Occidente, prima favorendo le divisioni, poi inglobando, un boccone per volta, ciò che resta dell’Europa libera. Dopo di che, inutile nasconderlo, potrà seguire quella manovra a tenaglia sugli Stati Uniti, già a suo tempo teorizzata da Hitler, però con la Cina al posto del Giappone.

Detto altrimenti, siamo davanti a potenze imperiali che nulla hanno imparato, nulla hanno dimenticato. Sicché, intanto, ogni punto messo a segno dal bilaterismo russo e cinese (anche sotto il paravento dei summit Brics, che sono una specie di foglia di fico) è un punto in meno per un mondo libero e multilaterale.

Giorgia Meloni che ne sa della società aperta? Nulla. Proviene da un partito, anticapitalista e antiliberale, che non ha mai digerito la sconfitta del 1945. Anzi cerca rivincite. Di qui la sua simpatia ideologica per le dittature, ridipinta con i colori del realismo politico (però di corto respiro, come detto).

Quanto al Presidente Mattarella, sospendiamo il giudizio, anche se va sottolineato, che come cattolico di sinistra non ha mai amato l’Occidente liberale, perché a suo avviso troppo consumista, capitalista e secolarizzato.

Mattarella, dovrebbe invece riflettere su un punto. In un’Europa in cui si celebra il nuovo asse tra Italia-Ungheria, in sostituzione, si cinguetta, di quello franco-tedesco (si badi, Francia e Germania sono sotto il pesante tiro d’artiglieria delle destre interne, estreme destre come in Italia e in Ungheria), il suo pensiero dovrebbe andare a Kurt von Schuschnigg: cristiano-sociale, ultimo cancelliere austriaco, defenestrato nel 1938 dai nazionalsocialisti al momento dell’annessione dell’Austria alla Germania (Anchlusss).

Schuschnigg credeva di poter tenere a bada gli scherani di Hitler. Così non fu.

Il parallelo storico non piace? Esageriamo? Monomanie metapolitiche?

Si rifletta. I cinesi vendono armi ai russi. Truppe della Corea del Nord (dove, per dirla alla buona, non si muove foglia che la Cina non voglia) sono schierate contro l’Ucraina. Dalla Nuova America di Trump, si fa sapere che le conquiste militari russe non si toccano. E Mattarella che fa? Come Schuschnigg si illude di poter controllare la situazione. E di conseguenza rischia di finire come Schuschnigg.

Si dirà, siamo soli, che possiamo fare? Si pensi allora al grandissimo discorso di Churchill su “sangue, fatica, lacrime e sudore” con Hitler pronto a invadere la Gran Bretagna.

Non esiste un altro Churchill? Altri tempi? L’Europa pensa solo agli aperitivi?  Che vi anneghi allora.

Ai pochi coraggiosi, e i prossimi saranno gli ucraini, non resta che l’onore di cadere con le armi in pugno. E non travestiti da cinesi e russi. Come Mussolini, che si mascherò, per scappare ai partigiani, da soldato tedesco.

Ultimo pietoso ritratto, neppure d’autore, del nazionalismo straccione italiano.

Carlo Gambescia

domenica 10 novembre 2024

Trump, il paladino degli anti-woke

 


Dal punto di vista metapolitico i fenomeni culturali rispondono a un principio di razionalizzazione-giustificazione. Esistono due fasi: fase A in cui a livello di tendenza (cioè quando “si tende” a comportarsi in un certo modo), alcune idee si diffondono, egemonizzando alcuni gruppi sociali; fase B in cui la tendenza, da egemonia a macchia di leopardo, si trasforma in dominio, non sempre assoluto, cioè in istituzioni e comportamenti stabili, ( quando “ci si deve” comportare in un certo modo).

Nella fase B prevale la razionalizzazione, nel senso della giustificazione, anche storiografica, di ciò che in precedenza era solo tendenza, prima tra pochi, poi via via tra un numero sempre maggiore di individui. Un consolidamento che può assumere l’aspetto del dominio di una tradizione: una specie di centro dal quale si irradia una forma di mentalità diffusa, che va puntellare il comportamento e le pratiche quotidiane degli individui, con trame comunque imperfette, che impongono, quando necessario, il potere sanzionatorio della legge.

Ora questa “benedetta” cultura woke (scegliamo questa accezione), che, una volta raffigurata dalle destre come un pericolo, ha consentito addirittura a Trump, il paladino dell’anti-woke, di spaventare gli elettori e  vincere , in quale fase si trova? Fase A o fase B?

Diciamo che a livello di fase B, cioè di cultura istituzionale, è esistita ed esiste solo nell’immaginario politico della destra. Non c’è un dominio. Per capirsi: niente a che a vedere con la forza istituzionale di fenomeni come il cristianesimo, il confucianesimo, l’islamismo, vere e proprie tradizioni “irradianti”.

Per contro, l’Occidente euro-americano, tradizione piuttosto giovane, riflette le idee moderne di una società aperta, dove al momento nessuno obbliga nessuno a donare o testare in favore della chiesa, a sacrificarsi al volere dei padri, a pregare cinque volte al giorno. Chi lo fa, lo fa per libera scelta.

Pertanto, la cultura woke, quando intesa in senso neutro, rinvia a una cultura della ricerca dell’eguaglianza diffusa (sintetizziamo), da concretarsi in nuovi diritti. Una cultura che i suoi sostenitori promuovono nelle varie sedi istituzionali e sociali. Siamo quindi in piena fase A. Quindi il dominio della cultura woke è solo nelle fantasie politiche della destra, da sempre però nemica dell’eguaglianza. E che perciò ne amplifica la pericolosità, dipingendo il diavolo woke più brutto di quel che è realmente.

Anche perché la cultura dell’eguaglianza, derivando dalla cultura dei diritti dell’uomo (e del cittadino) è un inevitabile portato del pensiero moderno. Di conseguenza, se si butta a mare la ricerca dell’eguaglianza (e la cultura woke), come concetto e come pratica, si getta via la modernità.

Ciò significa che le destre, nelle varie sfumature (tradizionalisti, reazionari, conservatori, populisti, fascisti e nazisti), che gridano al lupo al lupo woke, sono le stesse che da almeno tre secoli guardano con disprezzo alla modernità. Rifiutano al moderno, liquidato come il brutto anatroccolo, l’ultimo arrivato, una specie di parvenu, la funzione di centro irradiante svolto ad esempio dal cristianesimo, dal confucianesimo, dall’islamismo. Un ruolo che invece spetterebbe al moderno, sia di fatto, perché ha cambiato il mondo in meglio, sia di diritto, per una par condicio metapolitica, cognitiva diciamo.

Per fare solo un esempio di quanto sia radicata a destra la visione antimoderna, oggi Veneziani su “La Verità”, inneggia a Trump, paladino anti-woke, perché – così scrive – avrebbe riportato l' America sulla Terra, al principio di realtà. Che però – ecco la pericolosità della destra – in un intellettuale dalle radici fasciste come Veneziani, rimanda alle rigide gerarchie di valori del pensiero controrivoluzionario, da Maistre e Bonald a Hitler e Mussolini. Insomma, Trump come nuovo uomo delle provvidenza. Che poi Trump ci creda meno, è un’altra storia. Veneziani colleziona santini  intregralisti da quando aveva i calzoni corti.

Quel che è fondamentale comprendere è che dietro l’ingannevole critica preventiva al woke c’ è il rifiuto della modernità. Pertanto la destra, non solo rifiuta i diritti LGBT eccetera, ma l’idea stessa dei diritti, inevitabilmente collegata, come detto, all’idea di modernità.

Che poi certa sinistra giacobineggiante voglia affrettare i tempi e passare dalla fase A e B per decreto è un errore. Però, cosa che deve essere chiara: la sinistra, giacobina o meno, si muove all’interno delle modernità e non contro come la destra.

Una differenza non da poco. Per capirsi, un giacobino può, magari con fatica, trasformarsi in riformista, un fascista resta un fascista. Come del resto provano, nel loro piccolo (per dirla con un personaggio di Pupi Avati) gli articoli di Veneziani.

Carlo Gambescia