A chi non conosca il tipo di cultura economica da cui proviene Giorgia Meloni, perché legato a una visione spontaneamente statalista (si pensi a coloro che ignorano dalla nascita l’esistenza di tutto un mondo prima e dopo lo stato), riteniamo sia difficile farsi un giudizio sul personaggio politico e sulle antiquate linee guida economiche del governo.
Certo, bisogna avere pazienza e tempo: leggere, documentarsi, ascoltare e riascoltare interventi e dichiarazioni. Cosa di cui tutti non dispongono. Roba da addetti ai lavori.
Però un piccolo esperimento, per coloro che ci seguono – bastano venti minuti – resta possibile. Si ascolti il discorsetto di Giorgia Meloni all’ Assemblea generale di Confindustria Veneto Est. È di ieri (*).
Discorsetto nel senso di un discorso che vuole essere breve e simpatico. Insomma, rivolto a ingraziarsi l’interlocutore.
Bisogna ascoltarlo tutto, per scoprire – che poi è caratteristica lessicale della retorica economica di Giorgia Meloni – che non vengono pronunciati una sola volta i termini “mercato” e “libero mercato”.
La prima impressione è che Giorgia Meloni eviti di usarli. Insomma, che faccia uno sforzo calcolato. In realtà – e qui veniamo al punto – la cultura di base dell’universo missino e postmissino, quindi meloniamo, detesta il mercato. Si sfoglino le pubblicazioni di quel mondo, anche durante il periodo aennino diciamo finiano. Si scopre subito che il termine preferito in argomento è “liberismo selvaggio”, ripreso pari pari, senza alcun problema dal lessico anticapitalista della sinistra estrema. Un passo indietro: quando sul piano giornalistico si parla di fascio-comunismo, ci si riferisce proprio a questo, al comune rifiuto (delle due estreme) del libero mercato. Il lettore prenda appunto
Ovviamente Giorgia Meloni non poteva “sbracare” e parlare di “rivoluzioni nazionali” e “Terza Via” (né capitalismo, né comunismo) a un gruppo di terragni imprenditori veneti. Di qui però il riemergere, spontaneo, in automatico, come ciambella di salvataggio ideologico (semplificando: se non è zuppa è pan bagnato), di una cultura lavorista e produttivista, di stampo antiliberale, che pone al centro delle attività economiche lo stato come supremo regolatore. Alla quale si accompagna una visione, altrettanto sedimentata, a dir poco ottocentesca, reazionaria, di estrazione cattolica (roba da Opera dei Congressi), che sa e vuole parlare solo di “corpi intermedi”: espressione, che insieme ad altri due termini, nazione e lavoro, ricorre frequentemente nel lessico meloniano. Come del resto prova il “discorsetto” di ieri, che i lettori, ripetiamo, non dovrebbero perdere.
Per essere più precisi, la retorica della Meloni, cosa che probabilmente ignora perché da sempre abituata a nuotare nelle stessa “acqua”, è quella dell’Istituto di Studi Corporativi, istituzione che, almeno all’inizio, Almirante volle fortemente, per riproporre il corporativismo fascista ma purificato, diciamo fresco di Keynes e pseudo democratizzato, alla luce, di un’idea, in fondo neppure sbagliata, che ieri Giorgia Meloni ha evocato in modo ossessivo: che se non si produce ricchezza non è possibile godere di alcun sistema di welfare.
A metterla così si potrebbe anche essere d’accordo. Però, in realtà, per un fascista o postfascista, al centro dell’agire economico, non c’è il mercato ma lo stato, rivestimento istituzionale della nazione, che vede e provvede. Un concetto che poi viene coniugato, in nome della produttività con quelli di lavoro, nazione e corpi intermedi.
Iconografia ottocentesca, quest’ultima, di stampo cattolico, che rimanda alla retorica dolciastra delle famiglie unite che vanno alla messa domenicale, al paternalismo padronale, alle confraternite, alle associazioni sindacali fin troppo collaborative, ai carabinieri di Pinocchio, eccetera, eccetera.
Il fascismo ereditò questa paccottiglia, anche reinterpretando Mazzini (per la serie il diavolo e l’acquasanta), ma la “corporativizzò” a colpi di manganello, reinventando l’idea dello stato-imprenditore, che in realtà turava solo le falle per conservare il consenso al regime degli industriali, ai quali le provvidenze, ieri come oggi, non sono mai dispiaciute.
Il postfascismo, dal Movimento sociale ad Alleanza nazionale e Fratelli d’Italia, ha conservato la stessa visione lavorista e produttivista, con lo stato che vede e provvede. E con il mercato a dir poco in posizione subordinata.
Più modernamente oggi si parla di regole – la Meloni per prima – ma la sostanza è la stessa. Detto altrimenti, il topos meloniano, del “non intralciare chi produce”, resta come sospeso in aria, a causa delle incapacitanti remore postfasciste verso la cultura di mercato. Siamo dinanzi non al “lasciar far, lasciar passare”, ma al “lasciar fare allo stato”. Ad esempio l’evocazione del piano industriale, non è altro che l’elogio di una gigantesca gabbia di ferro per controllare tutto. Condivisa – qui la nota stonatissima – dal capitalismo assistito italiano che continua a ragionare come l’Associazione Industriali del Mozambico.
Si notino, infine, sempre nel “discorsetto” di ieri, i ripetuti inviti di Giorgia Meloni alle “categorie produttive”: anche questo è un temine sostitutivo, di taglio addirittura mussoliniano, per evitare l’uso di parole maledette o comunque fin troppo liberali come imprese e sindacati.
Inviti, dicevamo, a collaborare, tutti insieme, nell’interesse, ça va sans dire, della Nazione: questo Moloch al quale sacrificare, come tante volte in passato, la vita delle singole persone.
Concludendo, siamo davanti a una cultura economica reazionaria nemica del libero mercato, che, per ora morde il freno, ma che in futuro potrebbe riservare brutte sorprese.
Esageriamo? Sempre nel “discorsetto” Giorgia Meloni non ha mai pronunciato la parola libertà… E non è la prima volta.
Carlo Gambescia
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