Negli anni Sessanta del secolo scorso gli scienziati sociali guardavano con favore al cosiddetto approccio sistemico allo studio della politica. Semplificando, si scorgeva nel sistema politico un insieme coerente e strutturato, valutandone funzionamento e resa politica dal punto di vista della capacità di resistenza e adattamento alle trasformazioni.
Un approccio, che in qualche misura, può essere definito conservatore, perché individua un punto di stabilità dal quale ogni regime politico, a prescindere dalla sua natura democratica o meno, può allontanarsi solo a suo rischio e pericolo.
Resta però il fatto che l’approccio sistemico consente di valutare un sistema politico dall’alto. Cioè dal punto di vista dell’ osservatore esterno che ne valuta la coerenza interna. E non da quello degli attori, anche istituzionali, che interagiscono senza mai alzare lo sguardo verso l’alto.
Perciò, a proposito dei partiti, nei sistemi liberal-democratici (o di democrazia consolidata come in Occidente), il punto di vista sistemico impone che la destra faccia la destra, la sinistra la sinistra, tenendo però sempre in conto due componenti sistemiche fondamentali: economiche (la struttura capitalistica); politico-culturali e istituzionali (valori liberali e strutture rappresentative). Insomma, per parafrasare Weber, si può essere conservatori oppure progressisti, ma non conservatori e progressisti al tempo stesso.
A questo pensavamo leggendo l’editoriale di Marco Tarchi sul “Domani”, quotidiano di sinistra e fortemente contrario al governo Meloni (*).
Tarchi, professore ordinario di scienze politiche e tuttora animatore di quella che un tempo sui giornali si chiamava Nuova Destra, afferma due cose: 1) che il vero nemico interno dell’attuale governo è “la destra liberal-liberista”, antisociale (semplifichiamo), rappresentata da Zaia, incapace però di parlare all’elettorato sociale (semplifichiamo) di destra e ovviamente neppure a quello di sinistra in libera uscita; 2) che la sinistra dovrebbe tornare a fare la sinistra, però a mezzo servizio, puntando sui diritti sociali e non su quelli individuali, se non individualistici. Tentando così, finalmente, di strappare alla destra conservatrice, ma “sociale” della Meloni, gli elettori di sinistra approdati a destra e magari pure non pochi elettori “sociali” di destra.
In pratica, Tarchi sembra apprezzare la capacità della Meloni di sfondare a sinistra dicendo cose di sinistra, o quasi. Sicché invita la sinistra a tornare a dire e fare cose di sinistra, per contendere il terreno guadagnato dalla destra, rinunciando però all’importante pendant dei diritti civili, scelta quindi in sintonia con i gusti dei “conservatori di sinistra” e con l’elettorato “sociale” ma reazionario di destra. Quindi anche la sinistra dovrebbe dire cose di destra. Od omettere cose di sinistra.
Di conseguenza, il governo Meloni potrebbe ritrovarsi sotto attacco su due fronti: quello liberal-liberista e quello della sinistra sociale. Al quale andrebbe ad aggiungersi, un terzo fronte, quello della sinistra ultrapopulista del movimento pentastellato, cosa, quest’ultima, che però Tarchi non richiama all’attenzione del lettore.
Un passo indietro. Tarchi definisce la destra rappresentata da Zaia, qualunquista, liquidando così qualsiasi potenzialità di tipo liberale, anche sul piano dei diritti civili. Per contro evoca il populismo di sinistra ( ma che cos’è una sinistra che rinuncia ai diritti civili, se non populista?), come antidoto al populismo di destra (altrettanto nemico dei diritti civili). Del resto come può strappare la sinistra voti alla destra, se non mostrandosi più populista? Anche per contrastare la concorrenza, ripetiamo, ultrapopulista del Movimento Cinque stelle?
Insomma, secondo Tarchi, per dirla con Weber, si può essere conservatori e progressisti al tempo stesso. Quindi populisti e, comunque sia, mai liberali. Anzi “liberal-liberisti”.
Ora, ammesso e non concesso che vi sia stato un travaso di voti consistente dalla sinistra alla destra ( cosa che però lo studio dei flussi elettorali non ha dimostrato, o comunque non in maniera così spiccata), dal punto di vista dell’analisi sistemica, l’overdose di populismo che Tarchi indica come una soluzione, implica l’autodistruzione del sistema (semplificando) liberal-democratico italiano. Che, piaccia o meno, ha una sua coerenza sistemica nel quadro delle istituzioni liberali e capitalistiche.
Un affondamento non sgradito a Tarchi, padre nobile, come detto, della Nuova Destra italiana (da sempre antiliberale e anticapitalista). Del resto nessuno è perfetto, a cominciare da chi scrive. Come si fa, per dirla con Weber, a non obbedire al proprio demone?
In sintesi: il nemico sistemico delle democrazie liberali è il populismo, di conseguenza quanto più lo si “normalizza” come fenomeno tanto più si “anormalizza” il funzionamento del sistema. Si pensi solo a una questione come la crisi fiscale dello stato ignorata bellamente dai populisti di destra come di sinistra. Non basta sperare che una volta al governo la medicina del potere moderi gli entusiasmi populisti e inaridisca le fonti della spesa pubblica. Del resto i due governi giallo-verde e giallo-rosso dimostrano l’esatto contrario.Quanto alla ricerca sul campo, di cui Tarchi è benemerito, è ancora presto per tirare le fila del discorso politologico in un senso o nell’altro. La base osservativa non è ancora sufficientemente ampia, sia sotto il profilo temporale che dei contenuti.
Certo, Tarchi potrebbe rispondere, riallacciandosi a una polemica, nota in dottrina, tra la scuola sistemica e la scuola comportamentista, che i comportamenti politici, quindi i “fatti” non le regolette sistemiche, indicano che si va verso il superamento delle democrazie liberali. E che l’approccio sistemico, sotto il profilo cognitivo, rischia di giocare il ruolo della guardia bianca.
Giusto. Però, a patto che l’approccio comportamentista, nel quale Tarchi sembra riconoscersi, ammetta di giocare il ruolo della guardia rossa.
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Non sono consentiti nuovi commenti.