sabato 9 marzo 2019

La scomparsa di Pino Caruso, mercenario di Lucera...
Un illuminista negativo



Con Pino Caruso se n'è andato un altro frammento  di quella sicilianità colta, artefice di una ermeneutica delle cose, metà illuminista, metà pessimista. La stessa  che ritroviamo in  Pirandello, Tomasi di Lampedusa,  Sciascia, Bufalino, e persino in certe pagine (poche) di Camilleri. 
Illuministi negativi. Consapevoli  delle pericolose pieghe della natura umana, ma non  ignari della possibilità di descriverle, e dunque della salvezza, più privata che pubblica,  per predestinazione letteraria. Che può anche trasformarsi in civile, ma per ricaduta. Involontariamente, senza esami di stato.   
Questo atteggiamento, da anime elette e combattute,  fu prerogativa anche di un gigante della scienza della politica, come  Mosca, dell’Amari, grande  storico del Melting Pot siculo-musulmano, del Pitrè speleolgo disincantato  dei costumi profondi siciliani (ma non solo).  E ripetiamo - certo, in forma scalare -  anche di Pino Caruso.    Evidentemente, c'è qualcosa nell'aria, nel mare e nel sole della Sicilia  che illumina e ammonisce.  E che, in fondo,  salva. Chi voglia salvarsi, ovviamente. 
Ridere, questa la prerogativa della poetica di Caruso (per usare un termine letterario, oggi in disuso), ma con un occhio al male nell’uomo,  così spesso incapace di ridere di se stesso.  Il mondo è imperfetto. Ridiamone, coscienti che  una risata non ci salverà: illluminiamolo, ma senza grandi speranze, se non quella di ritrovarci in pochi a testimoniare la bellezza  della ragione.    
Di Caruso invito a leggere L’uomo comune, raccolta di racconti ripubblicata da Marsilio nel 2005. Ma anche  i suoi aforismi, usciti in più volumi.  Libri  che  fotografano un’anima mai pacificata con se stessa e con il  mondo.   Ma, perfettamente cosciente, che la pace non è di nessun mondo. 
Sulle  origine “bagaglinesche” di Caruso e sulla sua collaborazione con Castellacci (quello delle donne non ci vogliono più bene)  e  Pingitore,  si sono fatte mille illazioni (“è fascista”, non è fascista, eccetera, eccetera),  secondo il  piano misterioso della improvvidenziale  stupidità dell’estremismo ideologico italiano, a destra come a sinistra .
In realtà, come  tutto  l’illuminismo crepuscolare siciliano,  Caruso era un impolitico.  Ma,  ecco il punto:  proprio a un impolitico come lui,  si deve l’esecuzione, sommessa  ma non meno intensa,  di una delle più belle canzoni  sulla fine del colonialismo europeo. Fenomeno storico,  che  oggi in pochi rimpiangono, perché, come si dice, contrario alla "marcia inesorabile della storia".  In realtà,  si rinunciò alle colonie,  contrariamente a quel che si crede, per debiti.  Costavano troppo. E ne pagarono le conseguenze,  fino alla caduta di Saigon, soldati e mercenari, mandati  in Asia e Africa  a combattere, una  guerra, contro i cosiddetti movimenti di liberazione, alla quale la politica, paurosa di perdere soldi e voti,  aveva voltato le spalle.     
Il testo del “Mercenario di Lucera,  quarantacinque giri del 1967,  è  di Pingitore, la musica di Dimitri Gribanovski,  il genio musicale occulto del Bagaglino, di cui ancora si sa  poco.  Caruso la esegue  sul filo  del mesto ricordo di chi, dall’Ade, ricorda a tutti, che era assolutamente  consapevole di combattere una guerra perduta, perché impolitica. Non perché politica.
Di conseguenza, nella canzone,  di  fascista c’è poco, anzi  punto.  Le "mignotte" sono “dolci”. Non carne da macello sessuale.   Inesistente anche la traccia pacifista, altrettanto politica. Si inneggia alla morte, come supremo dono della vita,  contro quei borghesi egoisti, per i quali le colonie costano troppo.  A Salò invece si moriva sotto la bandiera nazista, vittime di un altro duplice egoismo politico, hitleriano e mussoliniano.  
Ecco il testo:  

Son morto nel Katanga
venivo da Lucera
avevo quarant'anni e la fedina nera 

Di me la gente dice
ch'ero coi mercenari
soltanto per bottino
soltanto per denari

Ma ora che sono steso
guardate nel mio sacco
c'è solo una bottiglia
e un'oncia di tabacco

Invano cercherete
soldi nel tascapane
li ho spesi proprio tutti
assieme alle puttane

Evviva la morte mia
evviva la gioventù
lai lalalalala
lai, lalalala

Amavo un'entraîneuse
di razza congolese
però l'ho perduta a dadi
con Jimmy, l'irlandese

Salvai monache e frati
dal rogo del ribelle
ma l'ONU se ne frega,
se brucia la mia pelle

Se la mia pelle brucia
è perché son mercenario
ma il papa se ne frega
e sgrana il suo rosario

Evviva la morte mia
evviva la gioventù
lai lalalalala
lai, lalalala

Addio amiche mie
dai fiori nei capelli
addio dolci compagne
trovate nei bordelli

addio verdi colline
ormai scende la notte
i fuochi sono spenti
addio dolci mignotte

con le vostre guepières
ho fatto una bandiera
portatela agli amici
che invecchiano a Lucera

Evviva la morte mia
evviva la gioventù
lai lalalalala
lai, lalalala

Se rimanevo a casa
là nella mia Lucera
ora sarei arrivato
coi figli e la pancera

avrei la moglie grassa
le rate e la seicento
salotto, televisione,
mutua e doppio mento

Invece sono andato
in giro per il mondo
e adesso sto crepando
quaggiù nel basso Congo

Evviva la morte mia
evviva la gioventù
lai lalalalala
lai, lalalala     


Certo, nei primi versi, a "fedina nera" si può sostituire "camicia nera". Ma sul lato B, Gabriella Ferri inneggia al Che. Diciamo espedienti commerciali  per "acchiappare" di qua e di là.  La carne è debole. Tutto qui.  
In realtà, nel  "Mercenario di Lucera"  vita e morte si intrecciano nella loro lucida spietatezza impolitica,  come capita nei  giovani  e nei "diversamente" giovani.   O forse capitava.  Comunque sia,  nulla di più lontano dalla  pavidità welfarista  degli  eredi dei fascisti, oggi al governo, o comunque in Parlamento, che chiudono i porti e buttano la chiave.  Anche gli immigrati costano troppo.  Come  le colonie. Buffoni, senza un briciolo di umanità. Che mai hanno lasciato Lucera.  
Un umanesimo dolente che invece ritroviamo in un Caruso, che accettò  di cantare una canzone, in cui evidentemente si riconosceva. Lui illuminista negativo. E per questo ne piangiamo la scomparsa.

Carlo Gambescia