martedì 3 giugno 2014

Pubblichiamo  con piacere  il  post  di Domenico Coluccio.  Che, dal punto di vista logico-argomentativo -  ossia  del  coerente sviluppo delle premesse  enunciate -  non fa una piega.  Inoltre, il  lettore,  per così dire lato destro (molto in fondo...),  non   potrà non   apprezzare  echi  evoliani  e di  altri autori non conformisti,  molto amati sempre  in quelle contrade.   
Di particolare interesse, la difesa a spada tratta delle élite politiche: un'autentica perorazione, forse a tinte troppo fosche, che tuttavia, chiunque ami Pareto e Mosca, teorici di un liberalismo aristocratico, non potrà non  apprezzare.  
Insomma, Coluccio  mette a  disposizione  un ricco materiale  di  lavoro  intorno a una certa idea di  destra: tradizionalista ma  non tradizionale (o costituzionale),  conservatrice senza essere rivoluzionaria alla tedesca "tra le due guerre",   antidemocratica, aristocratica e nemica del liberismo economico. In qualche misura  la citazione iniziale di Sergio Romano  è una specie di leva per sollevare (e rovesciare) il  mondo moderno. Anche contro lo stesso Sergio Romano, liberale classico.   Per andare dove?  
Magari, in merito, chiederemo a Coluccio un altro articolo.   Buona lettura (C.G.)      
       


La destra e la  selezione dei migliori
di Domenico Coluccio (*)




Affronterò il tema del compito prioritario della destra politica partendo da una lunga citazione tratta dalla prefazione di Sergio Romano al Manifesto dei conservatori di Giuseppe Prezzolini:

«Al centro di ogni mutevole strategia conservatrice vi è la ferma convinzione – talvolta ipocritamente taciuta o non chiaramente formulata – che gli uomini non nascono uguali e diventano, con il passare del tempo, ancora più disuguali di quanto non lo fossero al momento della nascita. In altri tempi il conservatore riteneva che il modo migliore per affermare concretamente il principio della disuguaglianza fosse quello di affidare le funzioni del potere, per quanto possibile, a un ristretto ceto sociale. Oggi, in condizioni alquanto diverse, il conservatore cerca di raggiungere lo stesso obiettivo con altri mezzi: la scelta dei migliori e la selezione naturale. Ma la preoccupazione è sempre la stessa: tradurre nella realtà il principio che gli uomini non sono uguali, che le loro opinioni non hanno lo stesso peso e che la responsabilità non può essere distribuita a pioggia sul corpo sociale. Il conservatore non ama la democrazia ugualitaria perché essa tende sempre a cancellare il confine tra l’intelligenza e l’ignoranza, tra l’esperienza e l’improntitudine, tra la competenza professionale e il dilettantismo, tra la serietà e la demagogia. Il conservatore è ostile allo Stato sociale quando esso tende a neutralizzare quei severi meccanismi di selezione da cui dipende in ultima analisi la scelta dei migliori e il riconoscimento del merito.»

L’ambasciatore Romano, usando parole insolitamente esplicite, pone la questione della selezione dei migliori in termini che non sono né liberali (non contempla la competizione regolata dal principio delle pari opportunità), né democratici (non prevede la legittimazione dal basso dei governanti).
L’ostilità del conservatore, però, dovrebbe essere rivolta allo Stato tout court, in forza dell’equivalenza tra lo Stato moderno e la divinità dei tre monoteismi abramitici, che crea gli uomini ineguali ma pretende che si considerino eguali tra loro, li crea nemici (si pensi a Caino ed Abele, ad Esaù e Giacobbe) ma pretende che si considerino fratelli, ed intende la giustizia come elevazione degli ultimi e repressione dei potenti, realizzando così un’eguaglianza artificiale che altera la gerarchia naturale dei talenti.
Lo Stato moderno, prodotto della tecnica che razionalizza l’esistenza al fine di renderla sicura, prevedibile e calcolabile, ha tradotto in realtà l’ossessione per l’eguaglianza dei tre monoteismi abramitici calando, per mezzo della forza coercitiva della legge e del suo braccio operativo, gli apparati burocratici, una gabbia livellante ed opprimente su un sostrato biologico, intellettivo, caratteriale e destinico ineguale, allo scopo di includere gli uomini, considerati artificialmente eguali tra loro, in uno spazio politico razionale e paritario, libero da violenza e da dominio arbitrario, nel quale ciascuno persegue i propri interessi economici al fine di conseguire la felicità consistente nel procurarsi, agendo nel mercato, la combinazione di beni e servizi che meglio ne soddisfa i bisogni.
Il liberalismo rompe i rapporti di subordinazione, emancipa, ed il potere politico, che sempre ed ovunque è stato considerato necessario, diviene improvvisamente malvagio, tanto da tripartirlo in esecutivo, legislativo e giudiziario, attuando il governo delle leggi (la ratio, prevedibile e calcolabile), in luogo del governo degli uomini (la voluntas, considerata arbitraria ed irrazionale), in quanto il modello antropologico sottostante, in assenza della gabbia livellante dello Stato, vi sarebbe sottomesso.
Il liberalismo ha anche invertito il modo in cui si prendono le decisioni vincolanti per la società: mentre in precedenza era scontato che fosse la minoranza dei migliori, dei sapienti, dei competenti, a decidere per tutti, con l’epoca liberale è stato introdotto il principio di maggioranza, per cui, in un’assemblea rappresentativa, sono coloro che conoscono soltanto la propria convenienza, ma non hanno una visione di insieme, a stabilire la norma valida per tutti, predomina dunque la mera forza del numero, una quantità, in tal modo si è separata la melior pars, la minoranza qualificata, dalla maior pars, la maggioranza degli incompetenti, i quali ora decidono il destino dei popoli.
Non essendovi più trasmissione ereditaria del potere, il criterio maggioritario è stato esteso anche al modo in cui vengono scelti i vertici politici della società, con l’elezione di rappresentanti e governanti a maggioranza dei suffragi, dopo aver attribuito ai cittadini un voto capitario che ne equipara le opinioni al fine di contarle, rendendo così impossibile che l’élite degli eletti coincida con l’élite di fatto costituita dall’esigua minoranza di uomini che sono realmente i migliori per qualità e competenza.
Il vanto della moderna società degli eguali è la mobilità sociale, ciascuno ha il posto che gli compete in funzione delle valutazioni effettuate dal sistema di istruzione di massa, che però assegna agli studenti un valore burocratico in base all’apprendimento pedestre e mnemonico dell’insieme delle nozioni inutili da conoscere, avvantaggiando quelli meno dotati con l’uniformità della didattica, favorendoli con gli espedienti burocratici del voto massimo, che equipara l’ottuso volenteroso al genio, e (in Italia) del valore legale del titolo di studio, che consente di ascendere burocraticamente la scala sociale tramite lo Stato, datore di lavoro di ultima istanza obbligato ad accettare i titoli che esso stesso emette.
Da ultimo, come criterio di selezione dei migliori, c’è il mercato, che, nel fissare il valore quantitativo di un uomo, esprime le preferenze oggettive della collettività alle quali chiunque deve assoggettarsi come ad un decreto divino, il cui giudizio è strutturalmente avverso alla qualità, un calciatore varrà sempre più di un genio che, indigente in vita, se sarà fortunato avrà gloria postuma, oltre ad essere miope, essendo incapace di segnalare problemi e necessità a lunga scadenza, compito che spetterebbe alla politica, che, però, vincolata dalle scadenze elettorali, non può assumere prospettive lungimiranti.
Lo sforzo di eliminare l’irrazionalità della decisione politica ha condotto dunque alla supremazia del mercato, che, come luogo di scambio di merci e servizi, è sempre esistito, ma mai, prima dell’epoca moderna, era assurto al rango di regolatore dell’esistenza degli uomini e delle nazioni, in virtù della preferenza liberale per il governo delle leggi, estese, nel liberismo, a quelle economiche, che hanno soppiantato la politica, dopo aver eliminato, con il materialismo, il fondamento spirituale della vita.
I tre sistemi legittimi di selezione degli uomini, come si è visto, falliscono lo scopo di individuare i migliori, e questo significa che un’élite in senso etimologico può formarsi soltanto al di fuori dello Stato moderno e del mercato, selezionando gli elementi sulla base di criteri extraeconomici, tenendone in considerazioni il livello di intelligenza e le qualità caratteriali, ponendo attenzione alla formazione di sé, e deve avere l’obiettivo prioritario di macellare il Leviatano, nemico costituzionale della qualità.
Questa dev’essere la missione della destra politica, che, riconoscendo la naturale ineguaglianza degli uomini, ritiene che si debbano attribuire le funzioni del potere alla minoranza qualificata, senza dover passare attraverso la legittimazione dal basso, in quanto soltanto i migliori sanno riconoscere i propri simili e selezionarli in funzione del compito che spetta ad essi, dando così a ciascuno il suo.

Domenico Coluccio

(*) Nato nella Repubblica Italiana, uno Stato costituzionalmente avverso al merito che mi ha rubato la vita, nel 2003 ho attuato il passaggio al bosco rifugiandomi nella foresta del Ribelle, che per me ha assunto la forma di una biblioteca. Da allora vivo per ribaltare il paradigma corrente.


2 commenti: