Il libro della settimana:
Francesco Paolo de Ceglia (a cura di), Storia
della definizione di morte, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 686, Euro 55,00.
https://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?ID=21799&Tipo=Libro&titolo=Storia+della+definizione+di+morte++ |
A prima vista, titolo e
argomento, Storia della
definizione di morte (Franco Angeli)
non sembrano adatti a un’amena lettura estiva, magari in spiaggia… Può essere. Tuttavia, siamo davanti a un libro
che parlando della morte, parla dell’uomo tout court e dei
cambiamenti culturali, storici e medici che hanno innervato l'atteggiamento umano davanti alla
parola fine. Insomma, Francesco Paolo de Ceglia,
docente di storia della Scienza presso l’Università di Bari Aldo Moro, ha
curato un lavoro straordinario, che si muove, allargandole, lungo le strade
tracciate in argomento da Ariés, Vovelle Defanti. Ma lasciamo la parola al curatore: « Rispetto
a tali precedenti, che questo volume non ha la velleità di emulare, si desidera
da una parte, restringere il campo d’indagine alla sola definizione di morte e alla tecniche di accertamento
della stessa, pur non trascurando di dar
conto di tutta la cultura di cui esse furono e sono intrise - come già fatto da
Defanti - dall’altra di ampliare i tempi
e gli spazi considerati. Benché infatti non poco sia stato scritto sulle
civiltà antiche (…) difficilmente tali
materiali sono adatti a confluire nelle
più ampie trattazioni sull’ argomento che - come nel caso di Ariès e
Vovelle - partono in genere dal medioevo» (p. 16).
Siamo perciò davanti a una vera e propria storia universale (o «transculturale», come giustamente preferisce definirla il curatore). Opera imponente. L'apparato bibliografico è maestoso. Non meno significativa l'iconografia, essenziale e ben scelta.
Il libro è diviso in cinque parti.
Nella prima è affrontata la morte nelle civiltà antiche (mesopotamica, egizia,
indiana, cinese, greco e romana, bizantina e slava, pp. 21-140). Nella seconda si analizzano significati e pratiche
della morte nella cultura
medievale e moderna, dal cristianesimo al XIX secolo (pp. 143-328). Nella terza si indaga a fondo il dibattito contemporaneo intorno al concetto
di morte, pp. 331-524). Nella quarta ci si occupa del «tripode vitale» (polmoni,
cuore, cervello), dal punto di vista
accertativo (della morte), con attenzione alle trasformazioni
storiche e concettuali del ruolo funzionale di questi organi rispetto al
trapasso (pp. 527-579). Nella quinta e ultima parte si studia «il morire
nell’immaginario contemporaneo» (pp. 583-654): letteratura giovanile, cinema,
serial medici televisivi. Il
capitolo si chiude con un interessante excursus sul caso
Englaro.
Prendendo spunto proprio dalla questione della
morte «tecnologizzata», si può
dire che se c’è un filo conduttore nel libro, o meglio nel comportamento umano
nei riguardi della morte, esso è rappresentato dalla progressiva
medicalizzazione dell'ultimo respiro. Si dirà, nulla di nuovo… In realtà,
non si tratta tanto della solita critica antimoderna, quanto di prendere atto - ancora una volta - del processo di disincantamento anche dell'idea di morte. E di
conseguenza delle pratiche sociali collegate. Cosicché si potrebbe addirittura parlare di banalizzazione della morte umana, ormai quasi ridotta a questione protocollare. Detto in altri termini, non si muore
individualmente fin quando la morte non è accertata burocraticamente: un atto,
una dichiarazione, un pezzo di carta, quanto di
più banale… E in un senso preciso: con un semplice tratto di penna su una casella si può registrare la vita o la morte di una persona: è bene? è male? non importa, oggi si fa così. Questo, il comune sentire.
Sotto tale aspetto - interno alla
modernità razionalizzante - vanno
segnalate due tendenze storiche. Mentre nell’ Ottocento si temeva la
morte apparente (su questo si veda il
notevole saggio, forse il più bello del libro, di Francesco Paolo de Ceglia, pp. 303-328), e perciò si cercava di evitare che i soggetti fossero dichiarati morti, oggi
accade l’esatto contrario: i medici, soprattutto
dell’intensiva, si propongono di evitare che il paziente morto possa essere considerato vivente
e perciò conseguentemente trattato.
Il che riguarda la logica sociale del
distacco del mondo: dispositivo che adesso necessita - burocraticamente - di certezze, per varie e supposte ragioni: riutilizzazione degli organi, costi medici crescenti, predominio (e rispetto) delle regole di accesso alla sicurezza
sociale. Insomma, questioni organizzative... Mentre nell’Ottocento, lo Stato era ancora minimo, l’individuo
più libero e meno “assistito”, le burocrazie meno invadenti: il singolo, prevaleva ancora sull'organizzazione e, per dirla tutta, la secolarizzazione era ancora di là da venire.
Ecco, forse, una storia che meriterebbe di essere scritta, o comunque
approfondita dal punto di vista dell’interazione tra istituzioni e individuo: quella del rapporto tra burocrazia moderna,
o meglio ancora “stato sociale” e definizione ( e pratiche) di morte. Avanziamo un’idea di titolo,
usando l' inglese maccheronico: Dal Welfare State al Deathfare State…
Carlo Gambescia
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