giovedì 26 giugno 2014

Il libro della settimana: Francesco Paolo de Ceglia (a cura di), Storia della definizione di morte, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 686, Euro 55,00. 


https://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?ID=21799&Tipo=Libro&titolo=Storia+della+definizione+di+morte++



A prima vista,  titolo e  argomento, Storia della definizione di morte (Franco Angeli)  non sembrano  adatti   a un’amena lettura estiva, magari  in spiaggia…  Può essere.  Tuttavia,  siamo davanti a un libro che parlando della morte, parla dell’uomo tout court e  dei cambiamenti culturali, storici e medici che hanno  innervato l'atteggiamento umano davanti alla parola fine. Insomma,  Francesco Paolo de Ceglia, docente di storia della Scienza presso l’Università di Bari Aldo Moro, ha curato un lavoro straordinario,  che si muove,  allargandole,  lungo le strade tracciate in argomento da Ariés, Vovelle Defanti.  Ma lasciamo la parola al curatore: « Rispetto a tali precedenti, che questo volume non ha la velleità di emulare, si desidera da una parte, restringere il campo d’indagine alla sola definizione  di morte e alla tecniche di accertamento della stessa, pur non trascurando  di dar conto di tutta la cultura di cui esse furono e sono intrise - come già fatto da Defanti -  dall’altra di ampliare i tempi e gli spazi considerati. Benché infatti non poco sia stato scritto sulle civiltà antiche  (…) difficilmente tali materiali sono adatti a confluire  nelle più ampie trattazioni sull’ argomento che - come nel caso di Ariès e Vovelle -  partono in genere dal  medioevo» (p. 16).
Siamo perciò davanti a  una vera e propria storia universale  (o «transculturale», come giustamente preferisce definirla  il curatore).  Opera imponente.  L'apparato bibliografico è maestoso. Non meno significativa l'iconografia,  essenziale e ben scelta.
Il libro  è diviso in cinque parti. Nella prima è affrontata la morte nelle civiltà antiche (mesopotamica, egizia, indiana, cinese, greco e romana, bizantina e slava, pp. 21-140). Nella seconda si analizzano significati e pratiche  della  morte nella cultura medievale e moderna, dal cristianesimo al XIX secolo (pp. 143-328).  Nella terza  si indaga a fondo il  dibattito contemporaneo intorno al concetto di morte, pp. 331-524). Nella quarta ci si occupa del «tripode vitale» (polmoni, cuore, cervello),  dal punto di vista accertativo (della morte),  con   attenzione alle trasformazioni storiche e concettuali del ruolo funzionale di questi organi rispetto al trapasso (pp. 527-579). Nella quinta e ultima parte si studia «il morire nell’immaginario contemporaneo» (pp. 583-654): letteratura giovanile, cinema, serial  medici televisivi. Il capitolo  si chiude  con un interessante excursus sul caso Englaro.
Prendendo  spunto proprio dalla questione  della   morte «tecnologizzata»,  si può dire che se c’è un filo conduttore nel libro, o meglio nel comportamento umano nei riguardi della morte,  esso  è rappresentato dalla progressiva medicalizzazione dell'ultimo respiro.  Si dirà, nulla di nuovo… In realtà, non si tratta tanto della solita critica antimoderna,  quanto  di prendere atto - ancora una volta -   del  processo di disincantamento anche dell'idea di  morte. E di conseguenza delle pratiche sociali collegate. Cosicché si potrebbe addirittura parlare di  banalizzazione della morte umana, ormai  quasi ridotta  a  questione protocollare.  Detto in altri termini,  non si muore individualmente fin quando la morte non è accertata burocraticamente: un atto, una dichiarazione, un pezzo di carta,  quanto  di più banale…  E in un senso preciso:  con  un semplice tratto di penna su una casella  si  può   registrare   la vita o la morte di una persona:  è bene? è male? non importa, oggi si fa così. Questo, il comune sentire. 
Sotto tale aspetto - interno alla modernità  razionalizzante -   vanno segnalate due tendenze storiche. Mentre nell’ Ottocento si temeva  la morte apparente (su questo si veda  il notevole saggio, forse il più bello del libro, di  Francesco Paolo de Ceglia, pp. 303-328), e perciò  si cercava di evitare che i soggetti fossero dichiarati morti,  oggi accade l’esatto contrario:  i medici, soprattutto dell’intensiva, si propongono di evitare che il paziente morto  possa essere considerato  vivente  e perciò conseguentemente trattato.
Il che riguarda la logica sociale del distacco del mondo: dispositivo che adesso necessita - burocraticamente -  di certezze,  per varie e supposte ragioni: riutilizzazione degli organi, costi medici crescenti, predominio (e rispetto) delle regole di accesso alla sicurezza sociale. Insomma,  questioni organizzative...   Mentre  nell’Ottocento, lo Stato era ancora minimo, l’individuo  più  libero e meno “assistito”,  le burocrazie meno invadenti:  il singolo, prevaleva ancora  sull'organizzazione e, per dirla tutta,  la secolarizzazione  era  ancora di là da venire. 
Ecco, forse,  una storia che  meriterebbe di essere scritta, o comunque approfondita dal punto di vista dell’interazione  tra istituzioni e  individuo:  quella del rapporto tra burocrazia moderna, o  meglio ancora “stato sociale”  e  definizione ( e pratiche)  di  morte.  Avanziamo un’idea di titolo, usando  l' inglese maccheronico:   Dal Welfare State al Deathfare State

Carlo Gambescia   
            
   

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