Il libro della settimana: Georges Devereux, Etnopsicoanalisi complementarista, edizione italiana a cura di
Alfredo Ancora, Franco Angeli 2014, pp.
256, euro 31,00 - http://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?ID=21567
Il pensiero di Georges Devereux
(1908-1985) è un continente sommerso. Una Atlantide intellettuale tutta da
scoprire, soprattutto in Italia: qui i
resti di un gigantesco tempio
etnologico, là le vestigia di altissime
mura sociologiche, più in alto le torri della psichiatria e di lato le due
poderose colonne della psicanalisi e
dell’etnologia. C’è veramente di che perdersi…
Parliamo di un intellettuale senza frontiere, plurilingue, di casa negli Stati Uniti e in Francia, ma
nato in Ungheria, a Lugoj, città poi
passata alla Romania. Di religione ebraica, poi battezzato. Dalla cultura
sterminata ricca di sedimenti pluridisciplinari: fisica, chimica,
storia, letteratura, filosofia, sociologia, antropologia. Ben stratificati, come piani successivi di
una Babele programmata, edificata, come
dicevamo, sulle potenti colonne della psicanalisi e dell’etnologia. Da lui
praticate sul campo girando mezzo mondo. Esemplare al riguardo il suo un famoso studio Reality
and Dream. The Psychoterapy of a Plains Indian (1951), in cui psicoterapia,
psicanalisi e sapere etnologico si mescolano e
completano a vicenda fornendo
un ritratto a tutto tondo di un etnia
indiana nordamericana. Di recente dal libro, il regista Arnaud Despleschin, ha tratto un film “Jimmy P.” Interessante, perché va oltre l’adattamento
cinematografico del film quanto ha
dichiarato in un’intervista a “Marianne”, Thobie Nathan, discepolo di Devereux:
Le film Jimmy P. est une
œuvre originale. Desplechin a créé son Devereux - et il est beau. Des amis
m'ont dit qu'il ne souhaitait pas être parasité par quelqu'un qui aurait
vraiment connu l'homme. Je trouve cette attitude compréhensible. Et puis qui
connaissait vraiment Devereux ? Il cachait tant de secrets... Peut-être que
chacun de ceux qui l'ont connu a gardé une image différente de lui. Mais il
reste que je n'ai jamais rencontré un homme comme lui, d'une intelligence aussi
vive... Dans l'univers des
sciences humaines, je n'en vois pas aujourd'hui. Il
pigeait tout, il devinait, il devançait. Il m'a appris le métier de penser.
Giusto. Chi conosceva veramente
Devereux? Comunque sia, un buon modo per provare a scoprirlo, oltre intanto a visitare il sito a lui dedicato
(http://www.ethnopsychiatrie.net/ ), resta la lettura di Etnopsicoanalisi
complementarista (Franco Angeli), un volume antologico, pensato
da Devereux e ben curato, diremmo
con scienza e coscienza, nella nuova
edizione italiana da Alfredo Ancora. Il lettore
non addetto ai lavori, non si faccia fuorviare dal titolo accademico e
specialistico. Certo, il testo si rivolge a psicanalisti, psichiatri, etnologi,
antropologi, sociologi, tuttavia
può insegnare a tutti, anche ai lettori semplicemente
curiosi, cose importanti su se stessi e sui rapporti con gli altri,
soprattutto se culturalmente diversi. E poi la scrittura di Devereux è
impegnativa ma non criptica come quella di Lacan o imbevuta di
profetismo archetipico come quella di Jung. Tra l’altro parliamo di studiosi mai amati da Devereux, a differenza
di Róem, Mauss, Bastide e Lévi Strauss
(con qualche riserva), per restare nell’ambito delle scienze sociali.
Ovviamente scontato, il rapporto, come felicemente nota Ancora, con il «filone
di pensatori» sviluppatosi «sulla scia del Freud antropologico» (p. 12).
Lo sguardo che "taglia" di Georges (o George, secondo l' "uso" americano) Devereux |
Innanzitutto che cos’è il
complementarismo? « Non è una “teoria”, ma una generalizzazione metodologica. Il complementarismo non esclude
alcun metodo, nessuna teoria valida – le coordina» (p. 50). Perciò, entrando nel merito, chiunque faccia indagini psico-sociali - o
sia semplicemente curioso di capire l’altro da sé - non può rinunciare ad approcci diversi ma
complementari (ad esempio psicanalisi e sociologia), collocando
ciò che analizza, e quindi le categorie cognitive impiegate, all’interno del contesto culturale del
soggetto studiato ( ricorrendo ed esempio all’etnologia), evitando così qualsiasi tipo di imperialismo culturali.
Ovviamente, quel che più
colpisce della ricca antologia (dieci densi saggi, che vanno dagli anni
Quaranta agli anni Settanta), sono le implicazioni per la ricerca sociologica.
In particolare, due punti: moventi
psichici e sociali e concetto di identità
Singolari, sul primo punto, sono le pagine dedicate alla rivoluzione ungherese
del 1956. Scrive Devereux: «L’inventario delle motivazioni dei partigiani
ungheresi, considerati come individui, ha rivelato che un buon numero di loro non aveva subito personalmente né un
cinico sfruttamento né un’oppressione brutale» (p. 126). Tuttavia «tutti questi uomini hanno potuto
battersi con un ardore simile, uccidere
un numero uguale di membri della polizia
politica segreta (AVO) e di Russi, e quindi produrre dei
risultati militarmente e socialmente identici. Psicologicamente i risultati
possono tuttavia non essere gli stessi» (p. 128, corsivo nel testo). E allora?
«Il punto essenziale è che movimenti e processi sociali sia spontanei
che organizzati sono possibili, non perché tutti gli individui che ci
partecipano sono motivati in maniera identica (sociologicamente), ma
perché una varietà di motivi in realtà
soggettivi possono trovare espressione ego-sintonica nello stesso tipo di
attività collettiva» (p. 129, corsivo nel testo).
Ciò significa che
«questo è anche vero sia per i movimenti rivoluzionari spontanei che per
il conformismo estremo. Infatti, pochi gruppi sono lacerati da lotte interne
come le cellule rivoluzionarie e le organizzazioni iper-conformiste. Inoltre,
nella stessa maniera in cui un rivoluzionario può battersi perché odia la
figura del Padre, perché ha subito dei torti personali o perché
voglia impressionare la sua manate, così un uomo può essere
iper-conformista per opportunismo puro, per paura della sua spontaneità, o
perché effettivamente ha ancora bisogno dell’approvazione di sua madre» (p.
126).
Insomma, dove la sociologia scorge nella partecipazione dei vari gruppi
sociali a un evento motivazione
collettive (patriottismo, egoismo economico, idealismo, conformismo eccetera)
la psicologia vedrà moventi soggettivi
(dolore, paura, orgoglio ferito, ricerca o negazione della figura paterna,
conferma o rifiuto del rapporto con l’immagine materna eccetera). Di conseguenza,
« a livello di ricerca e della spiegazione concreta, si deve
procedere a una doppia analisi - ma mai simultanea
– dei fatti, e questo in
modo che mette bene in evidenza la complementarietà
– nel senso rigoroso del termine – delle due spiegazioni, di cui una è
psicologistica e l’altra sociologistica».
Cosicché « solo un ricorso a questo genere di spiegazione, doppio ma non simultaneo, assicura da
una parte, una autonomia non finta sia della psicologia che della sociologia»
(p. 134, corsivi nel testo).
Notevole, e veniamo al secondo
punto, il capitolo (il Sesto) dedicato
all’identità etnica. Purtroppo, dobbiamo
procedere per cenni. Scrive Devereux:
«Giungo ora a un punto decisivo sai dal
punto di vista logico che dal punto di vista pratico: Anche se l’identità
etnica (e quasi ogni altra identità di classe) sia logicamente e storicamente
il prodotto dell’asserzione “A è un X perché non è un Y”, e della messa in
opera differenziante di questo carattere
distintivo, è veramente funzionale solo se implica una valutazione non
peggiorativa del fatto che “B è un Y
perché è un non-X» (p. 163).
Detto altrimenti:
«Prendo ad esempio – prosegue Devereux - uno slogan molto alla moda: “Nero è bello”,
questa affermazione può essere vera e funzionale solo se implica che “Il
bianco è bello” anch’ esso benché in una
maniera diversa. L’inverso, naturalmente, è ugualmente vero» (Ibid., corsivo
nel testo).
Ciò però significa
«che ogni etnia incapace di ammettere
questo fatto elementare si condanna da sé, dissociativamente, ad andare alla
deriva, come “sistema chiuso”, verso la
perdita di una totale mancanza di senso. Così facendo essa stessa si fa andare
alla deriva - e l’umanità intera - per terminare ad una totale immobilità, e
annichilisce gradualmente l’individuo che, caratterizzandosi solo come una tale
identità etnica, puramente dissociativa,
si riduce anch’ esso ad una semplice unidimensionalità» (Ibid., corsivo nel
testo).
Il che implica lo sforzo da parte di ogni gruppo umano
di non costruire la propria identità
contro altre identità. E qui, va
osservato, che si tratta di una opzione
che dal punto di vista delle regolarità
del politico è difficile, per alcuni impossibile, perseguire. Di ciò, a dire il vero sembra consapevole anche
Devereux quando studia la «acculturazione antagonista », cui si dedica
un’interessante capitolo (l’ottavo, scritto con E.L. Woeb). Le società umane, osserva lo studioso,
«sono a volte influenzate negativamente
dai loro vicini. Resistono all’adozione dei fini dei vicini. Sia con
l’isolamento che con l’adozione di mezzi, tecniche degli stessi vicini, e ciò per meglio
resistere all’adozione dei fini. Sia con
l’elaborazione dei costumi deliberatamente diversi da (o in opposizione con)
quelli dei vicini. Così anche quando la
reazione ai mezzi e alla tecniche
straniere può sembrare positiva, quella agli scopi e ai fini è spesso negativa» (p. 215).
Il saggio
venne scritto nel 1943 e perciò
risale al periodo americano di Devereux. Sul suo sfondo, di contrasto, si
scorgono le lingue di fuoco della guerra contro il
Giappone: modernizzatosi ( ecco, ricorso ai mezzi) per sconfiggere gli Usa (senza però adottarne
i fini, il modello sociale).
Cosa aggiungere? Che lo schema
dell’acculturazione antagonista resta
sociologicamente valido anche per i nostri tempi, dove alcuni paesi si modernizzano riguardo ai mezzi ma non
rispetto ai fini. Si pensi, ad esempio, al fenomeno del fondamentalismo, segnato dal un terrorismo altamente
tecnologico. Quindi, altra lezione di Devereux:
la tecnica, da sola, non basta.
Carlo Gambescia
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