giovedì 6 febbraio 2014

Il libro della settimana: Georges Devereux, Etnopsicoanalisi complementarista, edizione italiana a cura di Alfredo Ancora, Franco Angeli  2014, pp. 256, euro 31,00 - http://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?ID=21567







Il pensiero di Georges Devereux (1908-1985) è un continente sommerso. Una Atlantide intellettuale tutta da scoprire, soprattutto in Italia:  qui i resti di un  gigantesco tempio etnologico,  là le vestigia di altissime mura sociologiche, più in alto le torri della psichiatria e di lato le due poderose  colonne della psicanalisi e dell’etnologia. C’è veramente di che perdersi…  Parliamo di un intellettuale senza frontiere, plurilingue,  di casa negli Stati Uniti e in Francia, ma nato in Ungheria,  a Lugoj, città poi passata alla Romania. Di religione ebraica, poi battezzato.  Dalla cultura  sterminata ricca di sedimenti pluridisciplinari: fisica, chimica, storia, letteratura, filosofia, sociologia, antropologia.  Ben stratificati, come piani successivi di una Babele programmata,  edificata, come dicevamo, sulle potenti colonne della psicanalisi e dell’etnologia. Da lui praticate sul campo girando mezzo mondo.  Esemplare al riguardo il suo  un famoso studio  Reality and Dream. The Psychoterapy of a Plains Indian (1951), in cui psicoterapia, psicanalisi e sapere etnologico si mescolano e  completano  a vicenda fornendo un  ritratto a tutto tondo di un etnia indiana nordamericana. Di recente dal libro, il regista Arnaud Despleschin,  ha tratto un film “Jimmy P.”  Interessante, perché va oltre l’adattamento cinematografico del film  quanto ha dichiarato in un’intervista a “Marianne”, Thobie Nathan, discepolo di Devereux:

Le film Jimmy P. est une œuvre originale. Desplechin a créé son Devereux - et il est beau. Des amis m'ont dit qu'il ne souhaitait pas être parasité par quelqu'un qui aurait vraiment connu l'homme. Je trouve cette attitude compréhensible. Et puis qui connaissait vraiment Devereux ? Il cachait tant de secrets... Peut-être que chacun de ceux qui l'ont connu a gardé une image différente de lui. Mais il reste que je n'ai jamais rencontré un homme comme lui, d'une intelligence aussi vive... Dans l'univers des sciences humaines, je n'en vois pas aujourd'hui. Il pigeait tout, il devinait, il devançait. Il m'a appris le métier de penser. 


Giusto. Chi conosceva veramente Devereux?  Comunque sia,  un buon modo per provare a  scoprirlo, oltre intanto  a visitare il sito a lui dedicato (http://www.ethnopsychiatrie.net/ ),  resta  la lettura di  Etnopsicoanalisi complementarista (Franco Angeli), un volume antologico,  pensato  da Devereux e  ben curato, diremmo con scienza e coscienza,  nella  nuova  edizione italiana da Alfredo Ancora.  Il lettore   non addetto ai lavori, non si faccia fuorviare dal titolo accademico e specialistico.  Certo,  il testo si rivolge a  psicanalisti, psichiatri, etnologi, antropologi,  sociologi,  tuttavia  può  insegnare  a tutti, anche ai lettori semplicemente curiosi,   cose importanti  su se stessi e sui rapporti con gli altri, soprattutto se culturalmente diversi. E poi la scrittura  di Devereux è  impegnativa ma non criptica come quella di Lacan o imbevuta di profetismo archetipico come quella di Jung. Tra l’altro parliamo di  studiosi mai amati da Devereux, a differenza di  Róem, Mauss, Bastide e Lévi Strauss (con qualche riserva), per restare nell’ambito delle scienze sociali. Ovviamente scontato, il rapporto, come felicemente nota Ancora, con il «filone di pensatori» sviluppatosi «sulla scia del Freud antropologico» (p. 12).     


Lo sguardo che "taglia" di Georges  (o George, secondo l' "uso" americano) Devereux


Innanzitutto che cos’è il complementarismo? « Non è una “teoria”, ma una generalizzazione  metodologica. Il complementarismo non esclude alcun metodo, nessuna teoria valida – le coordina» (p. 50).  Perciò, entrando nel merito,  chiunque faccia indagini psico-sociali - o sia semplicemente curioso di capire l’altro da sé -  non può rinunciare ad approcci diversi ma complementari (ad esempio psicanalisi e sociologia),  collocando  ciò che analizza, e quindi le categorie cognitive impiegate,  all’interno del contesto culturale del soggetto studiato ( ricorrendo ed esempio all’etnologia),  evitando così qualsiasi tipo di  imperialismo culturali.
Ovviamente, quel che più colpisce  della ricca antologia  (dieci densi saggi, che vanno dagli anni Quaranta agli anni Settanta), sono le implicazioni per la ricerca sociologica. In particolare,  due punti: moventi psichici e sociali e concetto di identità  
Singolari, sul primo punto,  sono le pagine dedicate alla rivoluzione ungherese del 1956. Scrive Devereux: «L’inventario delle motivazioni dei partigiani ungheresi, considerati come individui, ha rivelato  che un buon numero  di loro non aveva subito personalmente né un cinico sfruttamento né un’oppressione brutale» (p. 126). Tuttavia  «tutti questi uomini hanno potuto battersi  con un ardore simile, uccidere un numero uguale di membri  della polizia politica segreta (AVO) e di Russi, e quindi produrre  dei risultati militarmente e socialmente identici. Psicologicamente i risultati possono tuttavia non essere gli stessi» (p. 128, corsivo nel testo).  E allora?   

«Il punto essenziale è che movimenti e processi sociali sia spontanei che organizzati sono possibili, non perché tutti gli individui che ci partecipano  sono motivati  in maniera identica (sociologicamente), ma perché una varietà di motivi in  realtà soggettivi possono trovare espressione ego-sintonica nello stesso tipo di attività collettiva» (p. 129, corsivo nel testo). 

Ciò significa che

«questo è anche vero sia per  i movimenti rivoluzionari spontanei che per il conformismo estremo. Infatti, pochi gruppi sono lacerati da lotte interne come le cellule rivoluzionarie e le organizzazioni iper-conformiste. Inoltre, nella stessa maniera in cui un rivoluzionario può battersi perché odia la figura del Padre, perché ha subito dei torti personali  o perché  voglia impressionare la sua manate, così un uomo può essere iper-conformista per opportunismo puro, per paura della sua spontaneità, o perché effettivamente ha ancora bisogno dell’approvazione di sua madre» (p. 126).

Insomma, dove la sociologia  scorge nella partecipazione dei vari gruppi sociali a un evento  motivazione collettive (patriottismo, egoismo economico, idealismo, conformismo eccetera) la psicologia  vedrà moventi soggettivi (dolore, paura, orgoglio ferito, ricerca o negazione della figura paterna, conferma o rifiuto del rapporto con l’immagine materna  eccetera). Di conseguenza,

« a livello di ricerca  e della spiegazione concreta, si deve procedere a una doppia analisi -  ma mai simultanea – dei fatti,  e  questo in  modo che mette bene in evidenza la complementarietà – nel senso rigoroso del termine – delle due spiegazioni, di cui una è psicologistica e l’altra sociologistica». Cosicché « solo un ricorso a questo genere di spiegazione, doppio ma non simultaneo, assicura da una parte, una autonomia non finta sia della psicologia che della sociologia» (p. 134, corsivi nel testo).

Notevole, e veniamo al secondo punto, il capitolo (il Sesto)  dedicato all’identità etnica.  Purtroppo, dobbiamo procedere per cenni. Scrive Devereux:

«Giungo ora a un punto decisivo sai dal punto di vista logico che dal punto di vista pratico: Anche se l’identità etnica (e quasi ogni altra identità di classe) sia logicamente e storicamente il prodotto dell’asserzione “A è un X perché non è un Y”, e della messa in opera  differenziante di questo carattere distintivo, è veramente funzionale solo se implica una valutazione non peggiorativa del fatto  che “B è un Y perché è un non-X» (p. 163).

Detto altrimenti:  
                                  
«Prendo ad esempio –  prosegue Devereux -   uno slogan molto alla moda: “Nero è bello”, questa affermazione può essere vera e funzionale solo se  implica che “Il bianco  è bello” anch’ esso benché in una maniera diversa. L’inverso, naturalmente, è ugualmente vero» (Ibid., corsivo nel testo).

Ciò però significa

«che ogni etnia incapace di ammettere questo fatto elementare si condanna da sé, dissociativamente, ad andare alla deriva,  come “sistema chiuso”, verso la perdita di una totale mancanza di senso. Così facendo essa stessa si fa andare alla deriva - e l’umanità intera  -  per terminare ad una totale immobilità, e annichilisce gradualmente l’individuo che, caratterizzandosi solo come una tale identità etnica, puramente dissociativa, si riduce anch’ esso ad una semplice unidimensionalità» (Ibid., corsivo nel testo).

Il che  implica lo sforzo da parte di ogni gruppo umano di non costruire la propria identità  contro altre identità.  E qui, va osservato,  che si tratta di una opzione che  dal punto di vista delle regolarità del politico è difficile, per alcuni  impossibile, perseguire. Di ciò,  a dire il vero sembra consapevole anche Devereux quando studia la «acculturazione antagonista », cui si dedica un’interessante capitolo (l’ottavo, scritto con E.L. Woeb).   Le società umane, osserva lo studioso,

«sono a volte influenzate negativamente dai loro vicini. Resistono all’adozione dei fini dei vicini. Sia con l’isolamento che con l’adozione di mezzi,  tecniche degli stessi vicini, e ciò per meglio resistere all’adozione dei fini.  Sia con l’elaborazione dei costumi deliberatamente diversi da (o in opposizione con) quelli dei vicini. Così anche  quando la reazione ai mezzi  e alla tecniche straniere può sembrare positiva, quella agli scopi e ai fini  è spesso negativa» (p. 215).

Il  saggio   venne scritto nel  1943  e perciò  risale al periodo americano di Devereux. Sul suo sfondo, di contrasto, si scorgono  le  lingue di fuoco della guerra contro il Giappone:  modernizzatosi  ( ecco, ricorso ai mezzi)  per sconfiggere gli Usa (senza però adottarne i fini, il modello sociale).  
Cosa aggiungere? Che lo schema dell’acculturazione antagonista  resta sociologicamente  valido  anche per i nostri tempi,  dove alcuni paesi  si modernizzano riguardo ai mezzi ma non rispetto ai fini. Si pensi, ad esempio,  al fenomeno del  fondamentalismo, segnato dal un terrorismo altamente tecnologico.   Quindi, altra lezione di  Devereux:  la tecnica, da sola,  non basta.      


Carlo Gambescia


Nessun commento:

Posta un commento