Il libro della
settimana: Philippe Nemo e Jean Petitot ( a cura di), Storia del liberalismo in Europa, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2013, pp. 1246, Euro 56,00.
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Finalmente, dopo
quasi novant’anni, è uscita una storia del liberalismo che può reggere il
confronto con quella classica di Guido De Ruggiero. Parliamo della Storia
del liberalismo in Europa, a cura di Philippe Nemo e Jean Petitot,
pubblicata in Francia nel 2006 e ora in Italia per i tipi di Rubbettino
Editore.
In che cosa
somigliano e differiscono le due opere? La principale differenza è
rappresentata dall’approccio. La Storia del Liberalismo europeodel De
Ruggiero, pubblicata nel 1925, ruota intorno al rapporto tra liberalismo e
politica, mentre la Storia del liberalismo in Europa di Nemo e Petitot ha come fulcro la
relazione tra liberalismo e società.
Ci spieghiamo
meglio: De Ruggiero si concentra sullo sviluppo storico delle istituzioni
politiche liberali, o se si preferisce sull’organizzazione politica quale
fattore visibile di azione; Nemo e Petitot, sul liberalismo
quale portato di una invisibile auto-organizzazione sociale
e delle idee. Detto altrimenti: De Ruggiero privilegia la
mano visibile dello stato liberale mentre Nemo e Petitot la mano invisibile
della società di mercato. Se in qualche misura la storia del liberalismo del
primo subisce l’influenza filosofico-politica, anche contrastante, di Gentile e
Croce, l’opera dei secondi si muove nell’alveo della tradizione liberale
austriaca e in particolare della teoria hayekiana dell’ordine auto-organizzato
del mercato, anche delle idee. Si vedano ad
esempio i cinque corposi capitoli (pp. 935-1068) dedicati al
pensiero di Hayek. Dove tra l’altro spicca la critica sociologica, in
controtendenza rispetto al taglio scelto dai curatori, di Jean-Pierre Dupuy (
pp. 1009-1049). Il quale nell’impostazione hayekiana, tutta rivolta a
valorizzare i processi mimetici, emulativi e selettivi (delle
idee istituzionali ), scorge un’istanza puramente utilitaristica. Ma si
leggano anche le notevoli repliche di Nemo e Petitot, tese a dimostrare
l’esatto contrario: la natura creativa, a tutto tondo, della mano invisibile (
pp. 1050-1059).
Le somiglianze
invece sono, come dire, di risultato. Perché consistono nella capacità finale
delle due opere di offrire un vivido affresco storico del pensiero liberale
europeo. Un vero e proprio valore aggiunto che nel lavoro di Nemo e Petitot si
manifesta nell’ approfondimento dei liberalismi meno conosciuti: spagnolo,
portoghese, svedese e dei Paesi Bassi (pp.1153-1221). Mentre come è noto
il lavoro del De Ruggiero resta incentrato soltanto sul liberalismo inglese,
francese, tedesco e italiano. Va inoltre ricordato che il libro di Nemo e
Petitot non affronta il liberalismo britannico e, ovviamente, come da titolo,
quello statunitense, se non nelle interazioni con il liberalismo continentale.
Indubbiamente, il
libro, proprio perché opera di più autori e frutto di attività seminariali, può
apparire poco organico. In realtà, il numero di pagine largamente superiore (il
rapporto con l’opera del De Ruggiero è quasi di tre a uno) consente una ghiotta
e corposa trattazione monografica dei principali liberalismi: al
liberalismo francese sono dedicate più di trecento pagine (pp. 177-494);
all’italiano più di duecento (pp. 497-732); al tedesco più di centocinquanta
(pp. 735-902); all’austriaco, con due ricchi inserti sul liberalismo ceco e sul
rapporto tra austriaci e libertari americani, circa duecentocinquanta pagine
(905-1150).
Alcuni rilievi.
Il libro del De
Ruggiero inizia il suo cammino storiografico, muovendo da dietro l’angolo: il
secolo XVIII. Per contro quello di Nemo e Petitot si propone, più
ambiziosamente, di individuare le origini del pensiero liberale, a livello di
fonti, nel mondo antico e medievale, nonché in quello scolastico e in
particolare nelle opere di Juan de Mariana e della seconda scolastica spagnola
e, dulcis in fundo, di Grozio e Bayle (pp. 55-173). Diciamo
che l’ “argomento-radici”, sempre interessante, è svolto molto bene. Tuttavia
il rischio delle preistorie concettuali resta quello di risalire troppo
indietro e perciò di diluire eccessivamente significato e
senso storico di un’idea. Ad esempio, il liberalismo senza le
quattro erre (rivoluzione inglese, americana, francese e industriale),
difficilmente sarebbe divenuto tale e soprattutto avvertito come tale dagli
uomini dell’Ottocento, ai quali perciò non può non andare il copyright
storiografico, concettuale e lessicale dell'idea liberale.
Ora, Nemo e Petitot, pur non trascurando questi aspetti, tendono a
ricondurre le quattro erre nell’alveo creativo di una specie
di liberalismo "per caso" (frutto di azioni
inintenzionali), in linea con
l'approccio hayekiano. Insomma, nel libro il
"caso" sembra talvolta condizionato dalla
"necessità" di pervenire a una specie di
liberalismo perenne, pronto a consacrare
liberale solo quel che anticipa
e/o rientra, a livello concettuale,
nello schema della mano invisibile. Come del resto non convince del
tutto la svalutazione della sfera politica che pare attraversare tutta
l'opera. Addirittura si conia, seppure a margine, un termine specifico
“«sindrome di Pareto» (p. 795 e p. 1058) per svilire certo liberalismo
che si vuole per forza trucemente hobbesiano e
perciò stregato dall’idea di stato forte.
Atteggiamento, a
dire vero impolitico, perché confina il politico nell’ asfissiante recinto
delle attività dello stato. Che ovviamente, come ogni buon liberale sa
bene, vanno tenute a bada. Ma il "politico" non si
esaurisce nello stato. E non può essere affrontato solo in termini di
contenimento o di teoria critica negativa. Il
che spiega la liquidazione nel libro di pensatori
attenti alle costanti del politico (di cui lo stato moderno è solo
una delle forme egemoniche) come Montesquieu. E che dire,
sempre per le stesse ragioni, del severo giudizio su Pareto
(al quale è però dedicato un interessante capitolo)?
E dell’assenza di Tocqueville e del suo prestigioso erede novecentesco,
Raymond Aron ( esclusioni che non possono essere giustificate con l’eccessivo
numero di monografie loro dedicate…)? Ma anche di Mosca,
Ferrero, de Jouvenel? Insomma, se ci si passa l'espressione, "si
buca" quel liberalismo triste,
malinconicamente consapevole, con Max Weber (altra figura che avrebbe
meritato approfondimento), che si comanda alle politica ubbidendo alle sue
leggi o costanti. E qui va ricordato che Guido De Ruggiero dedica
la seconda parte della sua Storia proprio al tragico rapporto del
liberalismo con la straripante politicità di alcune
istituzione moderne: democrazia,
socialismo, rapporti fra stato e chiesa,
nazione, capitalismo.
Sotto questo
aspetto, per tornare al volume di Nemo e Petitot, va però molto apprezzata la
magistrale trattazione del liberalismo tedesco. Proprio per
l'interessantissima ricostruzione delle diverse correnti
dell’ordoliberalismo, dell’umanesimo economico del liberalismo sociale di
mercato, tutte attente al ruolo, non tanto dello stato, quanto del
politico come elemento ordinatore (pp. 801-864).
Comunque sia, siamo dinanzi a
un’opera di grande valore, che probabilmente lo stesso Guido De
Ruggiero avrebbe letto e apprezzato. Come del resto abbiamo cercato di
spiegare proponendo un ideale confronto tra due lavori di altissimo livello.
Un luminoso affresco da non perdere, che integra,
completa e aggiorna la laterziana Storia del liberalismo europeo. Merito
che va totalmente ascritto a Rubbettino, casa editrice calabrese che nel 2012 ha celebrato i suoi
quarant’anni di attività ( http://www.rubbettinoeditore.it/chi-siamo/1972-2012-quarantanni-di-idee-libere.html ). E che sembra oggi svolgere quel ruolo creativo che un
tempo fu di Laterza. Per giunta, senza un novello Benedetto Croce
alle spalle… Complimenti e di nuovo auguri.
Carlo Gambescia
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