Anche la
società
teme di ammalarsi e morire ?
La società, come
entità collettiva, percepisce il pericolo? “Sente” il rischio
di non poter sopravvivere a qualche improvvisa "malattia
sociale". ? Insomma, le società, anche se storicamente
diverse, avvertono quel senso di fine imminente che sembra talvolta
sconvolgere e opprimere la vita di uomini ai quali viene scoperta (e
comunicata) una grave malattia?
Di regola, ciò che
vale per il singolo individuo può non valere per un entità collettiva. Il
medico, pur ammettendo un margine di errore, basa la sua opera su
principi scientifici e reazioni abbastanza prevedibili. Perciò il
malato, fiducioso negli stessi principi, si rimette quasi sempre
docilmente alle cure mediche.
Per contro, il
politico, che agisce in modo empirico, oltre a non disporre di “farmaci”
sociali di sicuro effetto (almeno per alcune “malattie"), non può mai
prevedere quali saranno le reazioni alla “cura”, non di un individuo, ma
dell'intero “corpo sociale. Parliamo di un numero imprecisato di
persone, le quali spesso, singolarmente, diffidano delle
capacità del medico-politico. Di qui, come dicevamo, le
reazioni più diverse e imprevedibili sul piano collettivo.
Perciò la società,
come insieme, non percepisce mai il pericolo di
morte imminente. Ovviamente, gli storici, “dopo” che una
società è scomparsa, scrivono di segnali non visti
per tempo, eccetera. Ma soltanto “dopo”.
Certo, come la
storia conferma, possono esserci figure di “profeti” (in epoca moderna, anche
sotto forma di scienziati e studiosi) capaci “individualmente” di “sentire” il
pericolo. E magari di comunicarlo agli altri. Ma in genere sono inascoltati,
fraintesi, strumentalizzati. Anche perché - ecco la differenza fondamentale con
la fisiologia individuale - la società è sempre pensata
dagli uomini che la compongono come eterna e indistruttibile.
Gli individui, come esseri collettivi che si autoperpetuano
generazionalmente, non credono nella morte dell' "involucro
sociale" che li racchiude e protegge. La società, dal punto di vista
esistenziale, conosce e declina solo tre tempi verbali: passato,
presente, futuro, e poi ancora passato, presente, futuro. E così via. Per
rispolverare il linguaggio heideggeriano, l’esserci sociale
( e non dell'individuo) è un essere per la vita e non per la morte.
Oppure, per dirla con Giorgio Gaber (si parva licet componere magnis),
la società "fa sempre finta di essere sana".
Carlo Gambescia
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