martedì 18 gennaio 2011

Una "crisi"politica che viene da lontano
Sinistra in panne


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Da quanti anni si parla di crisi della Sinistra? Se ne è perso il conto. Proveremo perciò a fare il punto.
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Ma cos’è questa crisi?
Premessa politologica. Il concetto di crisi indica l’incapacità di un partito, o di un’area politica, di coordinarsi per conquistare il potere. La coordinazione riguarda sia l’elasticità della sua struttura organizzativa (interna), sia la capacità (esterna) di intercettare il voto degli elettori.
In Italia sulla Sinistra ha inciso per anni il peso della tradizione comunista. Il che ha implicato, al suo interno, la necessità di coordinare, dal punto di vista programmatico ed elettorale, i valori di una ideologia rivoluzionaria e anti-sistemica con le regole della partecipazione democratica, e dunque con l’ accettazione, ovviamente provvisoria, del sistema.Perciò fino al 1989 tutte le principali tensioni interne alla Sinistra sono dipese dalla necessità di coordinare ideologia rivoluzionaria e politica democratica. O per dirla poeticamente: le rose con il pane.
Non staremo qui a ripercorrere la storia delle sue scissioni interne, fondate sui diversi modi di intendere la controversa relazione tra sogni e bisogni. Ci limitiamo a ricordare che, con la caduta del Muro, è venuta meno - o comunque si è progressivamente indebolita - la componente ideologica rivoluzionaria, anche nelle frazioni politiche più legate alla tradizione leninista. E qui si pensi alla scelta pacifista, da borghesi illuminati, di un Bertinotti
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Scegliere di non scegliere
Di conseguenza, nella “Seconda Repubblica”, la politica della Sinistra, una volta gettatasi alle spalle le rose (in verità piene di spine) rivoluzionarie, si è tradotta in un pragmatismo dal fiato corto. Una scelta controproducente, perché ha implicato il reclutamento politico-parlamentare di politici appartenenti ad altre tradizioni ( cattolici e verdi, ad esempio) e l’ ulteriore annacquamento programmatico dei contenuti social-rivoluzionari del vecchio Pci. Di qui due conseguenze, uguali e contrarie: la componente riformista del vecchio Pci, quella amendoliana, è passata armi e bagagli neoliberismo. Mentre l’ala berlingueriana ha scoperto il welfarismo. Rifiutando, in entrambi i casi e pur con formule diverse, di affrontare apertamente una questione fondamentale: quella del superamento del capitalismo.
Il che però apre la questione della mancata “socialdemocratizzazione” della sinistra durante la “Prima Repubblica”. Ma procediamo con ordine.

Nel 1977, anno simbolicamente segnato dalla “cacciata” del “riformista” Lama dall’università di Roma, la Sinistra si divise definitivamente in tre anime: da una parte i riformisti, con propensioni socialdemocratiche, ma largamente minoritari o da tempo confluiti nel Psi craxiano; dall’altra i rivoluzionari, minoritari, esterni al Pci, come la cosiddetta “autonomia”, contigua alla deriva terroristica; al centro la palude, la zona grigia, maggioritaria, né totalmente rivoluzionaria o riformista ma continuista: perché pretendeva, sulla scia di Togliatti e Berlinguer, di costruire il socialismo, attraverso una esoterica via italiana ed europea, capace di conciliare riforme e rivoluzione: eurocomunismo, do you remember?
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Di errore in errore
Cosa è successo alle tre anime negli ultimi trent’anni?I riformisti si sono fatti risucchiare dal riformismo neo-liberista: l’anima riformista del vecchio Pci oggi è rappresentata, pur con sfumature diverse, da Fassino, Bersani, D’Alema, Veltroni. E in questo senso la sfida degli anni Ottanta risulta vinta post mortem da Craxi, benché molti ex socialisti, ora militino a Destra con Berlusconi… Invece i continuisti, quelli che aspiravano a coniugare riforme e rivoluzione, oggi si riconoscono sia in Sinistra Ecologia e Libertà di Vendola, sia nella Federazione della Sinistra di Ferrero, Diliberto, Salvi. In particolare il Sel si propone quale partito di lotta e di governo, proprio come il vecchio Pci berlingueriano. Un vecchio escamotage per non dover scegliere tra riformismo neoliberista, riforme vere, rivoluzione: un puro cincischiare… Attività in cui Vendola spesso sembra eccellere.
C’è però dell’altro: il continuista, che oggi difende quel welfare che trent’anni fa respingeva come inganno del capitale (si pensi alla posizione di Ferrero ad esempio) , ha pochi punti di contatto con i riformisti del Pd. Forse sui diritti civili, ma non su quelli sociali. E neppure in politica estera, perché il continuista resta, anche se spesso blandamente, antiamericano.
I rivoluzionari, infine, si riconoscono nei nuovi movimenti di protesta. Si tratta di gruppi politici sospesi tra Lenin e San Francesco… Una figura, quella del Santo, evocata proprio da Toni Negri, padre di tutte le “autonomie”. I rivoluzionari sono perciò divisi tra la lotta sociale, anche violenta, a sfondo antiatlantista, antiliberista e un pacifismo no global, totalmente impolitico. Il rivoluzionarismo sembra perciò essere in bilico tra pace totale e conflitto universale: ciancia di pacifismo e intanto prepara la guerra sociale
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La palude
Dal punto di vista della chiarificazione ideologica sperare in una evoluzione dell’intera sinistra in senso socialdemocratico è molto difficile. Dal momento che le socialdemocrazie europee si sono da tempo trasformate in partiti liberal-riformisti. Si pensi all’involuzione (o evoluzione dipende dai punti di vista…) della socialdemocrazia tedesca e del laburismo inglese. Mancano quindi referenti ideologici, alleati, appoggi concreti. Purtroppo, la fase socialdemocratica è stata a suo tempo saltata. E quando un treno passa… Il che però spiega l’impasse del Pd, che si è dovuto affidare, per battere per due volte Berlusconi, a Prodi, un uomo di centro. Per contro, il continuismo resta ancora troppo legato a vecchi ritualismi pseudo-rivoluzionari o pseudo-riformisti (decida il lettore…). Un esempio di esasperato continuismo si può scorgere nella posizione barricadiera della Fiom. Il cui segretario, Landini, appoggiato apertamente da Sel e FdS, invece di spiegare ai lavoratori la differenza tra riforme e rivoluzione li eccita, pur sapendo di dover prima o poi o trattare.
Quanto al rivoluzionarismo, se dovesse optare per il pacifismo impolitico alla San Francesco, dove potrebbe portare? Da nessuna parte. Per contro, la scommessa leninista, in circostanze storiche diverse da quelle della Russia zarista, potrebbe essere rischiosa, anche per la democrazia. Inoltre, come conciliare la fuoriuscita dalla Nato con il pacifismo? Gli Stati Uniti potrebbero trattare l’Italia da “stato canaglia”. Di lì la necessità di battersi, o comunque di dover trovare, nel probabile isolamento europeo, altri alleati, tra paesi invisi agli Stati Uniti.
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Morale della favola
Siamo perciò davanti a una Sinistra divisa in “mercatisti” di complemento ( i riformisti neoliberisti del Pd), in cultori di un contraddittorio riformismo rivoluzionario (i continuisti di Sel e FdS ) e nei seguaci di un improbabile San Francesco-Lenin (i rivoluzionari dei movimenti).
Il lettore tragga da sé le conclusioni. 

Carlo Gambescia

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