Riflessioni
Il "reato di negazionismo"
Si riparla di introdurre in Italia il reato di negazionismo, da perseguire anche d’ufficio. Soluzione già adottata in altri Paesi. Si tratta di una scelta che lascia perplessi, poiché negare la possibilità di esprimere un’opinione, per quanto assurda e moralmente ripugnante come quella di negare l’Olocausto, non rientra nei valori di uno Stato liberale. Ma il vero punto della questione è un altro: quello di comprendere come dietro la “soluzione giudiziaria” vi sia una questione sociologica, probabilmente irrisolvibile, legata al rapporto tra dolore e politica.
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L'intuizione di Simone Weil
Partiamo da Simone Weil. “Tutti i dolori -
scrive ne L’ ombra e la grazia
(Bompiani) - che non distaccano sono dolori perduti”. Il dolore deve aiutare a
crescere. E perciò è necessario prendere le distanze, “distaccarsi”… Il dolore
va “messo a frutto” , impedendo che si trasformi in risentimento: verso gli
uomini, verso la vita, verso Dio. In questo senso un dolore che non “distacca”
è un dolore perduto.Ora, l’ “arte” del distacco, come presa di distanza, non si
apprende facilmente, soprattutto sul piano politico. Perché? Per una ragione
molto semplice: la politica è il contrario del distacco. Parliamo della
politica intesa come lotta, conflitto, guerra (pòlemos): una pratica che scorge nel dolore ( proprio e
altrui) uno strumento “polemico” (polemikós,
da pòlemos), da “scagliare”
contro il nemico o avversario che sia. Ad esempio, nel Manifesto di Marx ed Engels si impone
al “proletario” di combattere per la rivoluzione comunista, perché non avrà che
da perdervi le “catene”, simbolo di una dolorosa condizione di schiavitù.Ma si
possono trovare pagine simili, anche in un’opera di segno posto, come l’
aberrante Mein Kampf. Dove
Hitler specula sulle “catene” imposte al popolo tedesco dal “Trattato di
Versailles”, ma anche da “capitalisti”, “comunisti”, “ebrei”, eccetera…
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Il male tra amico e nemico
Secondo Barrington Moore jr, politologo e
autore de Le cause sociali delle sofferenze
umane (Edizioni di Comunità) “le diverse percezioni” della
sofferenza e delle sue cause forniscono le basi “narrative” degli eventuali
rimedi, e quindi consentono di definire l’amico e il nemico. Perciò - piaccia o
meno - la “cognizione” del dolore è all’origine della politica. Facciamo un
esempio, ricordando un episodio, che risale all’ottobre dell'anno scorso.
Ecco la replica di Francesco Rossi, padre di
Walter (ucciso 34 anni fa da estremisti neofascisti), a coloro che contestavano
la presenza di politici di destra alla commemorazione annuale: “Facciamola
finita con le provocazioni, le contestazioni. Quando hanno ucciso mio figlio
avrei bruciato Roma. Ora, a 82 anni, mi associo al dolore della famiglie di
tutti i ragazzi, anche quelli di destra. Il dolore è un collante più forte
della politica. Fatela finita e cerchiamo i nostri ideali. Io sono un uomo di
sinistra ma oggi bisogna avere un dialogo, anche mio figlio sarebbe stato
d’accordo” (“il Messaggero” 1-10-10).
“Il dolore è un collante più forte della politica”. Come non condividere l’auspicio di un padre? Ma nei fatti è proprio così? Sì e no.
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“Il dolore è un collante più forte della politica”. Come non condividere l’auspicio di un padre? Ma nei fatti è proprio così? Sì e no.
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La costruzione del male
E qui veniamo a un libro interessante: La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11
settembre (il Mulino). Ne è autore il sociologo Jeffrey C.
Alexander. Nel libro si ribadisce come ogni società abbia proprio nella cultura
il suo cuore pulsante, dove si mescolano emozioni, speranze, paure. Tutti
sentimenti che, inevitabilmente, si traducono in “narrazioni”, che spesso
assumono valore vincolante per il comportamento umano. Dal momento che l’uomo
non è solo capace di “fare” il bene e il male, ma anche di “pensarlo” o
“costruirlo” culturalmente. Il che significa che è vero che il male e il dolore
prodotti da eventi realmente accaduti possono essere trasformati, in “collante”
culturale, come auspica Francesco Rossi, ma che purtroppo ciò avviene sempre
“contro qualcuno”: in politica il dolore unisce e divide al tempo stesso.
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Lettura sociologica dell'Olocausto
Alexander fornisce - tra le altre - anche
una lettura sociologica dell’Olocausto: un evento di cui giustamente non è mai
messa in discussione la verità storica. In La
costruzione del male si studia invece la rappresentazione culturale
che i superstiti e le generazioni successive ne hanno dato come strumento
simbolico capace di fornire il necessario “collante” alle sue vittime, grazie
all’uso di codici linguistici, letterari, cinematografici, giornalistici.
Tuttavia, come capita alle rappresentazioni collettive, a un certo punto anche quella dell’Olocausto ha assunto forza propria, andando oltre la naturale volontà di elaborare il lutto. E così i codici che avrebbero dovuto favorire il superamento del “dramma traumatico”, legato all’ evento storico Olocausto, e lenire funzionalmente le ferite, hanno ottenuto effetto contrario. Perché? Alexander pone l’accento sul “dilemma dell’unicità”. Lasciamolo parlare: “ Fu proprio questo status - di evento unico - che alla fine lo fece diventare generale e departicolarizzato. Questo perché come metafora del male radicale, l’ Olocausto forniva un criterio di valutazione per giudicare il male delle altre manifestazioni. Fornendo un tale criterio di giudizio comparato, l’Olocausto è diventato una norma, e ha dato il via ad una successione di valutazioni metonimiche, analogiche e legali, che l’hanno deprivato della sua unicità stabilendo il grado di somiglianza o differenza da altre possibili manifestazioni del male” (p. 103).
Tuttavia, come capita alle rappresentazioni collettive, a un certo punto anche quella dell’Olocausto ha assunto forza propria, andando oltre la naturale volontà di elaborare il lutto. E così i codici che avrebbero dovuto favorire il superamento del “dramma traumatico”, legato all’ evento storico Olocausto, e lenire funzionalmente le ferite, hanno ottenuto effetto contrario. Perché? Alexander pone l’accento sul “dilemma dell’unicità”. Lasciamolo parlare: “ Fu proprio questo status - di evento unico - che alla fine lo fece diventare generale e departicolarizzato. Questo perché come metafora del male radicale, l’ Olocausto forniva un criterio di valutazione per giudicare il male delle altre manifestazioni. Fornendo un tale criterio di giudizio comparato, l’Olocausto è diventato una norma, e ha dato il via ad una successione di valutazioni metonimiche, analogiche e legali, che l’hanno deprivato della sua unicità stabilendo il grado di somiglianza o differenza da altre possibili manifestazioni del male” (p. 103).
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Male, dolore e rafforzamento
identitario
Il che significa, dal punto di vista della
teoria sociologica, che per un verso, la “costruzione” sociale del male subito,
essendo fonte di identità, può “stabilizzare” una collettività e favorire l’
elaborazione di un lutto per quanto doloroso; per altro verso, la forzata e
ambivalente “unicizzazione” del male subito, esasperando il rafforzamento
identitario, può provocare comparazioni e conflitti con altre collettività.
Sotto questo aspetto, per passare dalla teoria alla pratica, introdurre il
reato di negazionismo perseguibile d’ufficio, può finire per non giovare alla
stessa comunità ebraica, e in prospettiva, alla giusta causa di Israele.
Perché, essendo basato su un’idea di unicità che implica di fatto, come rileva
Alexander, la “departicolarizzazione”, moltiplicherà comparazioni, conflitti e
possibilità, da parte dei ripugnanti negatori ideologici dell’Olocausto, di
atteggiarsi a perseguitati. Un vicolo cieco.
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L'insostenibile pesantezza
dell'essere (sociale)...
Resta infine una questione di fondo. Simone
Weil ha colto il lato individuale del dolore, dove il distacco può procedere di
pari passo con l’ elaborazione interiore del dolore stesso. Barrington Moore jr
e Jeffrey Alexander il lato collettivo, dove invece il dolore rischia sempre di
nutrire culturalmente la politica come designazione del nemico pubblico,
trasformandosi così in risentimento collettivo.
Sarà mai possibile gettare un ponte tra dolore “individuale” e dolore “sociale” ? Purtroppo siamo davanti all’eterno dramma della “socievole insocievolezza” dell’uomo. Perché è vero che il dolore può essere “un collante più forte della politica”, ma solo a patto di rinunciare alla politica come “conflitto”. Certo, il conflitto, può essere addomesticato, come nelle democrazie liberali, ma in ultima istanza resta sempre tale.
Il che apre una contraddizione di fondo: come potrà mai l’uomo, animale politico per eccellenza (quindi “polemico” e portato al conflitto ). contraddire la sua natura profonda? E rinunciare all’ “uso” del dolore come “arma politica”?
Sarà mai possibile gettare un ponte tra dolore “individuale” e dolore “sociale” ? Purtroppo siamo davanti all’eterno dramma della “socievole insocievolezza” dell’uomo. Perché è vero che il dolore può essere “un collante più forte della politica”, ma solo a patto di rinunciare alla politica come “conflitto”. Certo, il conflitto, può essere addomesticato, come nelle democrazie liberali, ma in ultima istanza resta sempre tale.
Il che apre una contraddizione di fondo: come potrà mai l’uomo, animale politico per eccellenza (quindi “polemico” e portato al conflitto ). contraddire la sua natura profonda? E rinunciare all’ “uso” del dolore come “arma politica”?
Carlo Gambescia
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