Il libro della settimana, Paolo
Pombeni, La ragione e la passione. Le forme della politica nell’Europa
contemporanea, il Mulino 2010, pp. 715, euro 42,00.
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Da quanti anni si parla della crisi, per
dirla dottamente, della forma-partito? Sicuramente se ne discute da quando i
moderni partiti sono nati, all’incirca dalla fine dell’Ottocento. Insomma, il
partito politico è in crisi da sempre. Probabilmente perché costretto,
considerati i tumultuosi sviluppi degli ultimi centocinquant’anni, a
trasformarsi in continuazione. Di qui, come mostra la letteratura scientifica
in argomento, i vari passaggi organizzativi e sociologici: dal partito dei
notabili al partito di massa, fortemente ideologizzato. E poi da quest’ultimo
al partito pigliatutto, privo di riferimenti classisti, politicamente disimpegnato
e oggi molto sensibile al richiamo della pubblipolitica.
Su questa materia incandescente prova a fare il punto Paolo Pombeni, docente di
Storia comparata dei sistemi politici europei nell’Università di Bologna. Il
quale, in un testo di sicuro interesse dove raccoglie una serie di saggi in
argomento (La ragione e la passione. Le
forme della politica nell’Europa contemporanea, il Mulino 2010, pp.
715, euro 42,00), si interroga sul destino del partito. E interrogandosi
ricostruisce.
Il filo conduttore della ricerca è che la società moderna faccia tutt’uno con
partiti. Di qui l’ impossibilità di rinunciare alla dialettica partitica che, a
sua volta, si appoggia alla democrazia. Anzi, secondo Pombeni, ne sarebbe
addirittura il sale. «Pare a me - scrive lo storico - che la vicenda della
politica europea si sia snodata nella difficile ricerca di un equilibrio tra la
sfera della ragione e la sfera della passione nel quadro di una dimensione
pubblica che diveniva sempre più dominante». Perciò, continua, « non dovrebbe
meravigliare il fatto che per buona parte di questa storia il fenomeno al
centro della dinamica sia stata la “forma partito” moderna. È in essa che si
sono compensati sia gli aspetti della razionalità (i partiti sono legati alla
partecipazione al “government by discussion” e alla difesa della costituzione
come “equilibrio”) sia gli aspetti della passione (in quanto costruttori di
“cerchie del noi”, i partiti sono agenzie di identificazione e istituzioni che
chiedono la disponibilità al “sacrificio”)» .
Questa suggestiva impostazione implica però un fatto. Quello della necessaria e
salvifica simbiosi (l’equilibrio) tra partiti e Costituzione. E in un senso
preciso: secondo Pombeni la Carta Costituzionale è il baluardo del pluralismo
partitico e viceversa. Il che tuttavia, proprio perché si confida nell’assoluta
fedeltà costituzionale del partito, non facilita, e talvolta perfino impedisce,
la corretta analisi della patologia partitocratica. Un fenomeno, quest’ultimo,
che riduce ragione e passione, mortificandole, a puri strumenti al servizio di
interessi settoriali, se non proprio corporativi.
Il vero punto della questione è che il partito resta principalmente una delle
moderne incarnazioni del politico. Di qui viene la sua naturale forza invasiva,
frutto di una volontà di potenza che lo spinge a scontrarsi, oltre che con i
diretti concorrenti politici, anche con le varie forme associative pubbliche e
private rivali: stato, imprese, sindacati. Insomma, siamo davanti a un’
invasività, che rappresenta la ricchezza stessa del mondo reale. Ma che
implica, a sua volta, conflitti, trasformazioni, regressi corporativi, e
talvolta rotture rivoluzionarie.
Pertanto è abbastanza riduttivo pretendere di rispondere all’ inarrestabile
processo di mutamento che segna il divenire sociale, con aggiustamenti o gabbie
costituzionali. O peggio, auspicando il ritorno, negli anni dell’individualismo
diffuso, all’età dell’oro del partito come costruttore di “cerchie del noi”.
Ma allora che fare? Già sarebbe qualcosa, crediamo, prendere atto che, come
ogni altra istituzione, la forma-partito passa, mentre il politico, come
volontà di potenza, resta.
Carlo Gambescia
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