giovedì 20 gennaio 2011

Il libro della settimana, Paolo Pombeni, La ragione e la passione. Le forme della politica nell’Europa contemporanea, il Mulino 2010, pp. 715, euro 42,00.

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Da quanti anni si parla della crisi, per dirla dottamente, della forma-partito? Sicuramente se ne discute da quando i moderni partiti sono nati, all’incirca dalla fine dell’Ottocento. Insomma, il partito politico è in crisi da sempre. Probabilmente perché costretto, considerati i tumultuosi sviluppi degli ultimi centocinquant’anni, a trasformarsi in continuazione. Di qui, come mostra la letteratura scientifica in argomento, i vari passaggi organizzativi e sociologici: dal partito dei notabili al partito di massa, fortemente ideologizzato. E poi da quest’ultimo al partito pigliatutto, privo di riferimenti classisti, politicamente disimpegnato e oggi molto sensibile al richiamo della pubblipolitica.
Su questa materia incandescente prova a fare il punto Paolo Pombeni, docente di Storia comparata dei sistemi politici europei nell’Università di Bologna. Il quale, in un testo di sicuro interesse dove raccoglie una serie di saggi in argomento (La ragione e la passione. Le forme della politica nell’Europa contemporanea, il Mulino 2010, pp. 715, euro 42,00), si interroga sul destino del partito. E interrogandosi ricostruisce.
Il filo conduttore della ricerca è che la società moderna faccia tutt’uno con partiti. Di qui l’ impossibilità di rinunciare alla dialettica partitica che, a sua volta, si appoggia alla democrazia. Anzi, secondo Pombeni, ne sarebbe addirittura il sale. «Pare a me - scrive lo storico - che la vicenda della politica europea si sia snodata nella difficile ricerca di un equilibrio tra la sfera della ragione e la sfera della passione nel quadro di una dimensione pubblica che diveniva sempre più dominante». Perciò, continua, « non dovrebbe meravigliare il fatto che per buona parte di questa storia il fenomeno al centro della dinamica sia stata la “forma partito” moderna. È in essa che si sono compensati sia gli aspetti della razionalità (i partiti sono legati alla partecipazione al “government by discussion” e alla difesa della costituzione come “equilibrio”) sia gli aspetti della passione (in quanto costruttori di “cerchie del noi”, i partiti sono agenzie di identificazione e istituzioni che chiedono la disponibilità al “sacrificio”)» .
Questa suggestiva impostazione implica però un fatto. Quello della necessaria e salvifica simbiosi (l’equilibrio) tra partiti e Costituzione. E in un senso preciso: secondo Pombeni la Carta Costituzionale è il baluardo del pluralismo partitico e viceversa. Il che tuttavia, proprio perché si confida nell’assoluta fedeltà costituzionale del partito, non facilita, e talvolta perfino impedisce, la corretta analisi della patologia partitocratica. Un fenomeno, quest’ultimo, che riduce ragione e passione, mortificandole, a puri strumenti al servizio di interessi settoriali, se non proprio corporativi.
Il vero punto della questione è che il partito resta principalmente una delle moderne incarnazioni del politico. Di qui viene la sua naturale forza invasiva, frutto di una volontà di potenza che lo spinge a scontrarsi, oltre che con i diretti concorrenti politici, anche con le varie forme associative pubbliche e private rivali: stato, imprese, sindacati. Insomma, siamo davanti a un’ invasività, che rappresenta la ricchezza stessa del mondo reale. Ma che implica, a sua volta, conflitti, trasformazioni, regressi corporativi, e talvolta rotture rivoluzionarie.
Pertanto è abbastanza riduttivo pretendere di rispondere all’ inarrestabile processo di mutamento che segna il divenire sociale, con aggiustamenti o gabbie costituzionali. O peggio, auspicando il ritorno, negli anni dell’individualismo diffuso, all’età dell’oro del partito come costruttore di “cerchie del noi”.
Ma allora che fare? Già sarebbe qualcosa, crediamo, prendere atto che, come ogni altra istituzione, la forma-partito passa, mentre il politico, come volontà di potenza, resta.

Carlo Gambescia


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