Liberalismo, il
nemico?
.
Su un punto destra radicale e sinistra dura e pura sembrano andare d’accordo.
Quale? Che tutti i liberali siano arcifavorevoli alla sfrenata libertà mercato.
Ma è vero? Dipende.
Mano visibile o invisibile?
Partiamo
da una domanda apparentemente bizzarra: la rivoluzione industriale fu voluta
dagli uomini oppure no?
Un dotto chierico, ad esempio Monsignor Fisichella, risponderebbe che, in
ultima istanza, la rivoluzione industriale fu voluta dalla provvidenza. Un
intelligente conservatore laico, come Sergio Romano, vi scorgerebbe il prezioso
frutto del faticoso sviluppo delle istituzioni umane. Uno storico, sensibile al
fascino del marxismo, come Luciano Canfora chiamerebbe in causa la volontà di
predominio economico della classe borghese sulle altre. E un liberale come
Hayek? Stupirebbe tutti, affermando che la rivoluzione industriale non fu
voluta da nessuno. Perché? A suo avviso in quei febbrili anni della seconda
metà del Settecento, gli inglesi inventavano, producevano e commerciavano,
perseguendo i propri interessi, senza rendersi conto di ciò che stavano
creando. Per capirlo ci volle almeno mezzo secolo, quando milioni di individui
compresero, in pieno Ottocento di avere creato “inintenzionalmente” la società
capitalistica e liberale. E per alcuni, i famigerati proletari di Marx, fu una
brutta scoperta…
In realtà, l’ accoppiamento liberalismo-mano invisibile, così amato da Hayek,
che implica la credenza nell’automatica composizione-trasformazione degli
interessi privati in pubblici, fa sorgere il Bene (il giusto ordine sociale)
dal Male (gli interessi, spesso egoistici dell’uomo). Una scelta discutibile,
per due ragioni.
In primo luogo, perché a meno che non si abbia in tasca il segreto della
storia, l’ordine capitalista e liberale non può essere considerato
l’incarnazione finale del Bene sulla Terra. Probabilmente per alcuni è meno
ingiusto di altri “ordini” storici, ma ciò non ha nessun valore morale
assoluto.
In secondo luogo, una volta accettato il principio che dal Male può nascere il
Bene, tutto diventa possibile: qualsiasi azione umana, anche spregevole, può
essere giustificata a posteriori, ponendo come limite la sola “utilità
sociale”, cioè la sua compatibilità con un ordine sociale ritenuto giusto, solo
perché esistente.
In realtà, per tornare all’ “inintenzionalità” della Rivoluzione Industriale,
va detto che senza l’espansione della potenza coloniale inglese, iniziata nel
Cinquecento e imposta al popolo dai ceti dirigenti “modernizzatori” (borghesi e
in parte aristocratici), difficilmente ci sarebbe stato così tanto progresso
economico in Inghilterra. Pertanto la classe dirigente inglese sapeva benissimo
quel che faceva. Altro che mano invisibile..
.
Le eccezioni che non confermano la regola
Però - ecco il punto - non tutti i liberali accettano l’idea di
armonizzazione automatica degli interessi particolari. Vanno così distinti - il
lettore si allacci le cinture - quattro liberalismi.
Innanzitutto , va ricordato il “liberalismo liberista”. Si tratta di una
corrente di pensiero che risale, saltellando tra i due, a Hume e Smith per poi
giungere fino a Mises, Hayek e al primo Nozick, con il pendant, piuttosto imbarazzante, per la
povertà di pensiero rispetto ai padri fondatori austriaci trasmigrati
nell’Illinois, della scuola economica di Chicago (Friedman, Becker e minori che
riducono l'uomo a un fantoccio economico). E’ un liberalismo
giuridico-economico, fondato sull’idea di “stato minimo” ( o “guardiano
notturno”) e sull’armonizzazione spontanea degli interessi. E, semplificando,
che ama poco le tasse.
Dopo di che va citato il “liberalismo ultraliberista” (libertario o
anarco-capitalista), che ha molti punti di contatto con la Scuola Austriaca.
E che oggi è rappresentato da pensatori come Murray N. Rothbard e Walter Block,
per citarne soltanto due. Se, tutto sommato, il libertarismo di Rothbard, resta
ancorato a un’istanza etica, quello di Block è teratologico, dal momento che
definisce legittime, e rientranti nella spontanea armonia degli interessi, le
attività dell'usuraio e dello spacciatore perché non lederebbero i diritti di
persone adulte e consenzienti… Gli ultraliberisti respingono persino l’idea di
stato minimo, al quale sostituiscono, sconfinando nell’utopia, il libero
esercizio pre-politico dei diritti individuali. In fondo, è un liberalismo
naturalistico-darwiniano, basato anch’esso, e in modo ancora più esasperato,
sulla composizione spontanea degli interessi. E che, per farla breve, se
potesse, abolirebbe le tasse.
Inoltre - e tre - va segnalato il “liberalismo interventista” (o fiscalista)
che nasce con Bentham, si sviluppa con John Stuart Mill e matura, forse troppo,
con Keynes. Per questa corrente di pensiero, lo stato, oltre a farsi garante di
leggi e diritti, deve favorire eguali condizioni “di partenza” per tutti i
cittadini. Deve “intervenire”, e fin dove possibile livellare gli interessi
attraverso il braccio fiscale. Appartengono al liberalismo interventista i
contrattualisti, che pur differenziandosi dalla linea anticontrattualista
(Hume-Bentham-Mill-economia del benessere), sono ben rappresentati da un
gigante come Locke e (passando per Kant), da Rawls. E’ un liberalismo che ha
molti punti di contatto con la socialdemocrazia. E qui si pensi a figure di
liberalsocialisti come Bobbio e Dahrendorf. Insomma, siamo davanti a un
liberalismo che vuole comporre artificialmente (attraverso l’ ”artificio” delle
tasse elevate) gli interessi e condizioni, spesso molto diversi, dei cittadini.
E che quindi ama, talvolta anche troppo, pigiare sull’acceleratore fiscale.
.
Arrivano i nostri... O i loro?
Esiste infine un quarto
liberalismo realista dal volto umano, perché respinge liberismo e
ultraliberismo, senza però amare troppo l’ interventismo fiscale
liberalsocialista.
Faremo solo alcuni nomi famosi: Tocqueville, Pareto, il Max Weber ardente
liberale e nazionalista tedesco, Croce, Ortega, Röpke ( e l'economia sociale di
mercato tedesca, invisa ad Hayek), Aron, Berlin e in parte Freund.
Per questi pensatori, in linea di principio, gli interessi non si compongono
spontaneamente né artificialmente. Semplificando al massimo: per i liberali
realisti il diritto di proprietà, senza una “decisione” politica” che lo
introduca, e soprattutto una forza pubblica che lo sostenga, non ha alcuna
possibilità di realizzarsi. La “composizione degli interessi”, non è armonica
né sociale, ma ha sempre natura politica: il contratto privato senza una spada
“pubblica” che lo garantisca, può facilmente essere violato. Inoltre, per il
liberalismo realista la costituzione scritta, che un popolo si è dato
liberamente, rischia di restare un puro e semplice pezzo di carta, se alle
spalle non ha un esecutivo coeso e deciso, capace di attuarla e all’occorrenza
difenderla “politicamente”, anche usando la forza, dai suoi nemici interni ed
esterni.
Il liberale politico, per dirla con Tocqueville, sa che la libertà umana è
limitata, nel senso che “intorno a ogni uomo è tracciato un cerchio fatale che
egli non può oltrepassare” neppure appellandosi al mercato. Ma sa pure che
“dentro alla vasta circonferenza di quel cerchio, egli è potente e libero”.
Insomma, un liberalismo “tosto” che non abdica al mercato o al fiscalismo. Con
il quale sarebbe necessario confrontarsi. Intanto sul piano intellettuale.
Soprattutto per farla finita con certi stereotipi antiliberali da operetta.
Perché è vero che una società non deve essere amministrata come un’ azienda. Ma
neppure come una caserma o un soviet.
Carlo Gambescia
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