venerdì 24 dicembre 2010




Auguri di Buone Feste

e arrivederci al 3 gennaio 2011

Natività
Scende la notte,
riluce una stella .
Chi la scorgerà?

giovedì 23 dicembre 2010

Il libro della settimana: Nicola Vacca, Serena felicità nell’istante, prefazione di Paolo Ruffilli, Edizioni Il Foglio Letterario 2010, pp. 100, euro 6,00. 


http://www.ilfoglioletterario.it/

.
Come non condividere ciò che scrive Paolo Ruffilli nella nitida prefazione? Che Nicola Vacca “con una bravura istintiva (…) riesce a muoversi in mezzo ai mille trabocchetti dell’eterna vicenda amorosa, riconsegnandone al lettore un attraversamento inedito, perfino sorprendente e, in ogni caso, inaspettato. E gli riesce in ogni pagina, nel giro breve di qualche verso, di qualche strofa al massimo, e nella forma inquietante della poesia che tutto evoca e tutto disperde, facendo intanto trasparire per intermittenza il percorso accidentato che gioie e desideri disegnano per le occasioni dell’amore che, sia pure nella continuità e nella ripetizione, restano comunque irripetibili”.
Giustissimo. Vorremmo solo aggiungere che è vero che nell’ultima fatica poetica di Nicola Vacca, Serena felicità nell’istante (Edizioni Il Foglio Letterario 2010, pp. 100, euro 6,00), si parla “dell’eterna vicenda amorosa”, ma - attenzione - la si affronta “sulla soglia” della crisi che avvelena il nostro tempo. Si legga qui: “Incombe dalle mani nude/l’urgenza di sentire quel qualcosa/di vero di cui abbiamo bisogno./È nudità anche la parola che sa attraversare/ la carta stanca di parlare./Abbiamo necessità di scatenare assalti di dignità./ Perché l’oggi ferito/non sia divelto dagli oracoli del male./ Anche il più vicino vuoto d’amore/ avrà nell’ultimo bacio che ti ho dato/ il suo momento di felicità.” ("Sulla soglia").
L’amore come forma di resistenza al male? Certo. Ma non nei termini di scontata e dolciastra fuga a due dalla realtà. Tutt’altro. Il poeta non parla soltanto a Serena, sua dolce compagna, ma a tutte le anime forti: “Cresce un altro giorno e tutto scorre./Non possiamo fermare/ il cuore e la mente/quando le nostre bocche/declinano il verbo amare./Abbiamo l’età giusta/per abitare la nostra casa in comune/nella bellezza delle cose/semplici e vere.” ("La nostra casa in comune").
Tra le pericolanti rovine della mente e del cuore che oggi ci circondano - tutti - Nicola Vacca scorge e declina il Katechon delle “cose semplici e vere”. Quelle che fanno "da freno" al male che avanza, come qui: “Non è vero che col tempo/tutto scompare/se sappiamo tenere/nel nostro sangue/quello che sembra andare via./È per questo che ti amo.” ("È per questo che ti amo"). Oppure qui: “La distruzione s’impossessa del pianeta/ e si prepara alla cacciata definitiva dei viventi./Davanti allo scempio che svuota i cuori/siamo ancora parte della creazione mutilata./Non è mai troppa la tenerezza che ci scambiamo/ per resistere all’oltraggio dell’imperfetto.” ("Amore e disastri").
Insomma, una poesia che indica vie di resistenza, proprio perché ruota intorno a quell' anatomia in versi della crisi, che da sempre innerva l’opera poetica di Nicola Vacca. Servono però anime forti disposte ad ascoltare. Ma anche capaci di andare oltre la logica difensiva del Katechon. Che frena ma non salva. Dal momento che solo un Dio ci potrà salvare. Ma non tutti lo credono. E bisogna prenderne atto.
Certo, resta l’amore, che però è anche parola. E che perciò rimane sempre sospeso, per dirla con Michelstaedter, tra persuasione e rettorica... Come trovare la necessaria simbiosi tra due cuori, spesso diversi? Forse attraverso una Concordia discors capace di rinvigorire, al di là del bene e del male, anche l'amicizia, quando sia disinteressata... Purtroppo, le parole non sempre bastano: occorre cuore puro per capire. Non tutti riescono. Perché resta fortissimo l' atavico e crudele richiamo del taglione. Che uccide e non salva: appaga lo spirito di vendetta non di giustizia.
Il poeta civile difende la sua polis, e anche molto bene. Perché Nicola Vacca è poeta civile, soprattutto quando accetta la sfida dei "mille trabocchetti dell’eterna vicenda amorosa”, dominandoli dalle antiche mura della "sua" città poetica. A noi tutti, dopo aver letto e chiuso Serena felicità nell'istante, il compito di uscire, questa volta intenzionalmente, dalle mura amiche per andare in cerca del Pharmakon. Certo, si tratta di un percorso fitto di insidie, aspro, spesso in salita, se si vuole "impoetico". Ma da fare in due. Sta a noi, uomini e donne in amore, incamminarci per mano e di buon passo, risalendo dal particolare all'universale. Ma a una condizione: solo “se faremo della parola /l’albero della vita/sapremo seguire la via/ segnata dalla prospettiva./ Uno spirito e una carne sola./Questa è l’unica religione al mondo/ che ci fa comprendere/ che ci salveremo solo se lo vorremo.” ("Abbiamo qualcosa da dire").

mercoledì 22 dicembre 2010

Politica, economia e Politica, economia e ideali evangelici
Dire troppo o troppo poco


La Chiesa Cattolica, sempre più spesso, assegna i voti di buona o cattiva condotta economica ai nostri politici. Non contenta auspica la nascita di una nuova generazione politica di italiani e di cattolici. Il problema non è da poco. Dal momento che concerne quello della formazione di una classe dirigente cattolica. Ma anche quello del rapporto tra cattolicesimo, economia e una politica che sembra avere retrocesso la Chiesa a puro e semplice gruppo di pressione. 
Come non si stancano di sottolineare i Vescovi, i cattolici in politica dovrebbero “incarnare” gli ideali evangelici e “tradurli nella storia”, non cercando “la via meno costosa della convenienza di parte comunque argomentata”. Servono - sono sempre parole del Cardinal Bagnasco - “italiani e credenti che avvertono la responsabilità davanti a Dio come decisiva per l’agire politico".
Per dirla senza peli sulla lingua il riferimento gli “ideali evangelici” da incarnare e tradurre nella storia, dice troppo e troppo poco al tempo stesso. E ci spieghiamo subito con un esempio.
Mettiamo che al Governo vi fossero cattolici, duri e puri - si pensi ad esempio alle famose iniziative di La Pira per la fabbrica fiorentina del Pignone - che cosa dovrebbero fare i "nostri" governanti? Scendere in campo con i sindacati? Dal momento che non chiudere una fabbrica in passivo significa incarnare storicamente i valori dell’Evangelo? Ma potrebbero essere invocati gli stessi valori , anche nel caso di cassa integrazione a tappeto e finanziamenti a pioggia per la Fiat, come erano usi fare i governi democristiani, meno duri e puri, degli anni Settanta? Anche in questo caso verrebbero incarnati i valori evangelici? Difficile dire.
Qual è allora la risposta? Che parlare di valori evangelici in assenza di indicazioni concrete, operative, significa appunto dire troppo o troppo poco...
Ma del resto la Chiesa, non può fare diversamente. Anche se viene considerata un gruppo di pressione, con duemila secoli di storia sacra e profana alle spalle non può sentirsi tale. E quindi non può specificare e puntualizzare quel che ad esempio si debba fare concretamente caso per caso.
E’ chiaro, come su questi basi, molto dottrinarie, sia poi difficile formare una nuova classe dirigente cattolica. Dove trovarli e formarli i dirigenti cattolici? Nelle università di ispirazione cattolica si insegna l’economia tradizionale, con qualche minimo correttivo sociale. Quindi un giovane economista uscito dalla Cattolica, chiuderebbe senza alcuna esitazione una fabbrica in passivo, magari - ecco il correttivo sociale - dopo un periodo più o meno breve di cassa integrazione, dando così sostanzialmente ragione a Confindustria. E costringendo gli operai licenziati a trovarsi altri lavori, magari all'estero…
Concludendo, la Chiesa sembra portare dentro di sé una contraddizione irrisolvibile. O dice poco in termini di una concreta teoria economica alternativa, O parla troppo richiamandosi all’Evangelo. Come dire, Tertium non datur .
Carlo Gambescia

martedì 21 dicembre 2010

Milano e il "nodo alla gola" dell’usura



A Roma da sempre li chiamano “cravattari”. Perché stringono il “nodo della cravatta” dei tassi usurari intorno alla gola del commerciante “incravattato”. Spesso l’usura è preceduta da richieste di “pizzo: il prestito viene estorto con la scusa di fornire protezione. Dopo di che, di dilazione in dilazione, ci si impossessa, a prezzi stracciati, dell’intero patrimonio della vittima.
Però il malcapitato esercente , come ha riferito il procuratore Ilda Boccassini a proposito della maxi-inchiesta milanese su usura e ‘ndrangheta, pare preferire il silenzio.
Purtroppo, secondo il magistrato, si tratta di «un dato sintomatico» di cui prendere atto: « Ritengo che il fenomeno criminale che riguarda l’usura e l’estorsione sul territorio di Milano sia esteso. Anche a Milano però non abbiamo dietro la porta commercianti, imprenditori, ambulanti pronti a denunciare all’autorità giudiziaria un’usura, un danneggiamento ai fini estorsivi».
Di conseguenza, come ha osservato anche Bruti Liberati, «per contrastare il silenzio della società civile, ci sono idee e progetti per coinvolgere le associazioni di categoria. In particolare coinvolgeremo Assolombarda»
Vedremo.
Intanto, va ricordato che già nella seconda metà degli anni Novanta una ricerca dell’Osservatorio sull’Usura e la Criminalità Economica, promosso dalla Camera di Commercio, aveva osservato una cosa importante. Che « il fenomeno dell'usura, nella realtà milanese, non è connesso esclusivamente con la criminalità organizzata. Occorre infatti ricordare - si legge - che solo una parte delle attività di usura è gestita dalle organizzazioni mafiose. I dati hanno rivelato l’esistenza di differenti tipologie di usura e di usurai. L’offerta di usura si caratterizza per la presenza di diversi soggetti: i gruppi di tipo mafioso convivono con altri operatori illegali che vanno dall'usuraio singolo, scarsamente professionalizzato, alle organizzazioni di tipo familiare che svolgono la loro attività artigianalmente a livello di quartiere, all’usuraio professionista che spesso opera sotto una parvenza di rispettabilità e di legalità» . E a tutt’oggi la situazione non sembra essere cambiata.
Il che significa, per buttarla sul sociologico, che l’usura si incunea negli interstizi del legame sociale. Ci spieghiamo meglio: il silenzio della vittima potrebbe essere dettato non solo dalla paura delle ritorsioni fisiche, ma dell’isolamento “culturale” (“quello che non paga”) all’interno della cornice sociale in cui vive. Può sembrare paradossale ma è proprio la componente “legame” ad essere storicamente alle origini di fenomeni come Mafia, Camorra e ‘Ndrangheta.
Diciamo perciò che l’ individuo ricattato rimane in apnea tra fedeltà allo Stato e al gruppo sociale di appartenenza. E che spesso però è quest’ultima a prevalere. Come uscirne? Processi e condanne a tappeto vanno benissimo. Ma non bastano. Occorre una maggiore presenza sul territorio di operatori sociali, non tanto catapultati dall’alto grazie agli accordi tra “generali” come sembra proporre Bruti Liberati, ma già ben inseriti nella comunità di quartiere, magari tra gli stessi commercianti. Capaci di valorizzare con la forza dell’esempio i comportamenti corretti (e di denuncia) e perciò di incidere sulla formazione del legame sociale. Impresa non facile. Anche se è quello che fanno attualmente, e bene, molti parroci di frontiera. Che “commercianti” non sono…

Carlo Gambescia 

lunedì 20 dicembre 2010

Dispersi...
Ma dove sono finiti i “nazi-mao” di Valle Giulia?



.
Diciamo la verità, sulla Riforma Gelmini, la cosiddetta destra movimentista giovanile ha fatto flop. E non parliamo delle possibili dichiarazioni d’intenti rivoluzionarie o pseudo, che pure ci sono state, ma della volatilità della piazza "nazionalrivoluzionaria", tutta composta, stando almeno a certi infuocati manifesti, di granitici nemici del sistema capitalistico, riforma universitaria inclusa...
Negli scontri della settimana scorsa è incappato nelle maglie, a dire il vero non troppo strette della polizia, qualche figlio d’arte della grande famiglia di “ Autonomia Operaia”: buon sangue non mente mai.
Invece hanno brillato, ma per l' assenteismo, i figli e i nipoti dei “nazi-mao” di Valle Giulia… Ma i padri e i nonni sono mai esistiti veramente? Boh…
Diciamo che invece esistono tuttora i nipotini di Almirante e Caradonna, quelli che partendo da Giurisprudenza volevano liberare l’Università di Roma dai "rossi". Si pensi solo alle ultime stupidaggini di Gasparri sull’arresto preventivo. Stupidaggini pericolose. E perfettamente in linea con l'almirantismo più bieco. E perché no? Anche becero.
Purtroppo, si tratta del “complesso della guardia bianca”. Sindrome che sotto sotto mosse e agitò anche lo squadrismo fascista, che, nonostante la benevola retorica fascio-comunista, favorì il crumiraggio e bastonò oppositori e operai in sciopero.

Complesso che ogni tanto si riaffaccia. Come vogliamo definirlo il "poliziotto di complemento" che ha rischiato di uccidere a colpi di casco un quindicenne anti-Gelmini? Guardia bianca o nazi-mao?

Carlo Gambescia

venerdì 17 dicembre 2010

Lettera aperta all'amico Alessandro Campi
.


Caro Alessandro,
.
Ho letto alcuni passi della tua intervista al settimanale Gli Altri diretto da Piero Sansonetti. Non resisto… Ancor prima di leggerla tutta e in originale devo scriverti, per manifestare pubblicamente il mio assoluto accordo. Te lo devo. Prima però - per i lettori - riporto qui di seguito gli stralci anticipati dall’Asca:
.
« La gestione di questa crisi non sempre è stata azzeccata. Secondo me, alla convention di Bastia Umbra il ritiro della delegazione del Fli dal governo era atto più che sufficiente. Non andavano chieste le dimissioni di Berlusconi, sono state un di più che non serviva. E poi ci sono stati altri errori. Per esempio, l’oscillare tra troppe ipotesi diverse che hanno disorientato l’opinione pubblica e lo stesso Fli. Perchè un conto è voler costruire un centrodestra diverso da Berlusconi , un conto è dichiararsi disponibili ad alleanze pure con Vendola oppure ad un governo tecnico o ancora farsi parte promotori del Terzo polo. C’èstato un eccesso di tatticismo” Lo afferma il Direttore scientifico di Fare uturo e ideologo della svolta finiana nel centrodestra, il professor Campi, in un’ntervista rilasciata al settimanale Gli Altri, diretto da Piero Sansonetti, nel numero in edicola domani.Anche sulla scelta terzo polista di Fli, Campi non è convinto: ''Il terzo polo non è mai nato, - spiega – è un progetto piuttosto evanescente, una sommatoria di forze politiche che possono diventare elemento di disturbo in caso di competizione elettorale. Ma per il resto non c’è una leadership, non c’è un programma, un disegno complessivo. Fini, Casini, Rutelli non hanno le stesse idee: Fini è per il bipolare maggioritario, Casini è un proporzionalista.Bisognerebbe scegliere tra l’una e l’altra ipotesi: non è secondario”. E sul futuro del premier Campi ha le idee “ Berlusconi ha bisogno di un salvacondotto giudiziario, per uscire di scena deve essere sicuro di averlo''. E più avanti chiarisce ancora: “è il sistema politico italiano che dovrebbe avere la forza di farsi carico di questa situazione. Berlusconi non può uscire di scena con una modalità infamante” »http://www.asca.it/news-FLI__CAMPI__TERZO_POLO_NON_ESISTE__FINI_HA_COMPIUTO_TROPPI_ERRORI-975300-ORA-.html
.

Farai marcia indietro? Spero di no. Perché in questa intervista, caro Alessandro, riveli le tue qualità di eccellente studioso del realismo politico. Qualità che non ho mai messo in discussione. Insieme a quel coraggio, che non mancavi di mostrare nelle nostre riunioni fiorentine.
Cogli due punti fondamentali.
Il primo, riguarda le ridotte capacità politiche di Fini, "fattore" da te evidenziato là dove parli appunto di “un eccesso di tatticismo”.
Il secondo, concerne la questione Berlusconi. E’ vero serve un atto di realismo politico. Basta con il controproducente giustizialismo. Sono totalmente d’accordo con te: “Berlusconi ha bisogno di un salvacondotto giudiziario, per uscire di scena deve essere sicuro di averlo (…), è il sistema politico italiano che dovrebbe avere la forza di farsi carico di questa situazione”. Tradotto:continuare a fare la guerra sul piano giudiziario al Cavaliere significa solo favorirne la vittoria. Parfait.
Ora, caro Alessandro, vorrei però che alle parole seguissero i fatti: dimettiti da Direttore Scientifico di Fare Futuro. Torna agli studi, donaci quei buoni libri di storia delle dottrine politiche, di cui discutevamo insieme. Che solo tu puoi scrivere.
Un abbraccio.
Carlo 

giovedì 16 dicembre 2010

Il libro della settimana, Guido Caldiron, L’impero invisibile. Destra e razzismo dalla schiavitù a Obama, Manifestolibri 2010, pp. 176, euro 20,00.
 
http://www.manifestolibri.it/vedi_brano.php?id=561

.

Nonostante la copertina con l’ Obama-Joker, caricatura molto apprezzata dagli astiosi “Tea Party Protesters”, nel nuovo libro di Guido Caldiron il “primo presidente nero della storia americana” viene discusso di striscio. In realtà ne L’impero invisibile. Destra e razzismo dalla schiavitù a Obama (Manifestolibri 2010, pp. 176, euro 20,00), ultima fatica del giornalista di Liberazione, si parla soprattutto della destra americana, quella più oltranzista, e di come gli Stati Uniti stiano scivolando verso una deriva molto pericolosa, razzista e reazionaria.
A dirla tutta, Caldiron, già noto per i suoi documentati studi sulla destra italiana ed europea, aderisce alla tesi del vizio di fabbrica: di un’America da sempre razzista. Anzi, come si legge, di una nazione appositamente progettate ed edificata sulla supremazia bianca. Dal momento che « il razzismo è profondamente iscritto nello sviluppo stesso della società statunitense ». Ma lasciamo la parola all’autore:

.
« Il tema può essere affrontato sinteticamente attraverso alcune chiavi di lettura fondamentali, vale a dire il modo in cui il razzismo ha accompagnato lo stesso definirsi dello spazio territoriale del paese, e in parte, di conseguenza, delle sue istituzioni, nella lunga espansione verso la frontiera occidentale, la conquista del West; e le caratteristiche che ha assunto all’interno della battaglia per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e nella ricerca di cittadinanza da parte delle successive ondate migratorie, elementi che hanno caratterizzato la trasformazione dell’identità bianca in modo da poterle continuare a garantire la supremazia sui neri » (pp. 9-10).
.
Il tema principale del libro è perciò quello della lotta delle razze: una specie di Rassenkampf a stelle e strisce dietro cui, secondo Caldiron, si nasconde la feroce battaglia di classe. Un conflitto che però, a partire dalla Guerra di Secessione, avrebbe visto vincitrice la destra Wasp, bianca, anglo-sassone, protestante, grazie alla sua forza economica e alla capacità di raccogliere consensi tra le classe medie emergenti. Tranne però che in alcune fasi, come durante le presidenze Roosevelt, Kennedy e in particolare Johnson: tutte amministrazioni democratiche e riformiste, in grado di veicolare fra tutti i gruppi etnici ( ieri neri, oggi ispanici e asiatici) il linguaggio dell’uguaglianza.
Riassumendo: da un lato i bianchi economicamente autosufficienti dall’altro tutti quelli che annaspano: questa la fotografia in bianco e nero (è proprio il caso di dirlo) della società americana, scattata da Caldiron. Ciò che però stupisce è come facciano gli Stati Uniti a rimanere tuttora una nazione. Che sia merito, come osservò Tocqueville, della religiosità diffusa? Ossia della capacità di unire Bibbia e buona vita e non solo Bibbia e fucile? A questa domanda Caldiron risponde a metà. Dal momento che il giornalista di Liberazione pare scorgere nella religiosità popolare un’arma esclusiva della destra e in particolare del cosiddetto fondamentalismo cristiano, così vicino alle amministrazioni Reagan e Bush jr. Insomma, la religione come strumento di guerra e non di pace. Eppure, dietro Martin Luther King c’era tutto un mondo storico e culturale all’insegna del solidarismo… Non vorremmo però andare fuori tema.
L’impero invisibile resta un libro interessante e ben scritto. Probabilmente il suo merito maggiore è di “ parlare” attraverso altri libri in argomento. E per far questo non basta “orecchiare” su Internet ma bisogna studiare. Come del resto rivela la ricca bibliografia. Dove però abbiamo notato due assenze : Christopher Lasch ( The Revolt of the Élites and the Betrayal of Democracy ) e Arthur Meier Schlesinger Jr (The Disuniting of America: Reflections on a Multicultural Society).
Ma, come si dice, nessuno è perfetto.



Carlo Gambescia

mercoledì 15 dicembre 2010

Il voto di ieri 
 Le responsabilità della sinistra


.
Nessuno ci toglierà dalla testa che quei pochi voti che hanno permesso a Berlusconi di restare in sella vadano imputati a una sinistra incapace sia governare, sia di fare opposizione in modo serio. Disposta solo a cavalcare l’antiberlusconismo e il massimalismo sociale, confidando in Fini e fomentando la piazza. Ossia su due “fattori” politicamente incontrollabili. E infatti Berlusconi è restato al comando, e Roma, di colpo, è tornata al 1977. Complimenti.
Purtroppo il massimalismo resta l'antica malattia della sinistra italiana. Da sempre incapace di trasformarsi in una seria e operosa sinistra socialdemocratica.
Che bisogno c’è di soffiare sul fuoco di una riforma universitaria - tra l’altro da noi criticata - che può essere cambiata, una volta vinte le elezioni? Che bisogno c’è di cavalcare l’odio della guerra classe, quando una volta vinte le elezioni si possono fare buone leggi contro la precarizzazione? Che bisogno c’è di definire Berlusconi Male Assoluto, quando una volta vinte le elezioni si possono fare ottime leggi sul conflitto di interessi?
Questo non significa che non si debba criticare il Governo. Ma lo si può fare senza per questo soffiare sul fuoco delle protesta sociale, soprattutto in un Paese dove il terrorismo non è mai stato del tutto sconfitto. Essere riformisti veri - ed è segno di arretratezza discutere ancora di queste cose - significa comprendere e veicolare tra i cittadini l'idea che viviamo in una democrazia, dove è possibile con il libero voto cambiare le cose. Mica siamo in Cina. E ogni volta che la sinistra afferma il contrario non si delegittima solo l’avversario, ma la democrazia stessa
Per vincere servono però programmi concreti. Voglia di lavorare. Non le battute di Bersani, gli intrighi di D’Alema. le poetiche sciocchezze di Vendola, i trasformismi di Veltroni, il classismo di Ferrero.
La forza di Berlusconi è anche nel deficit di vero riformismo (in senso socialdemocratico, ovviamente) che distingue una sinistra parlamentare e sindacale capace di salire sui tetti, farsi riprendere da telecamere compiacenti, ma non di realizzare riforme sociali, come ad esempio avrebbe potuto fare dopo l'ultima vittoria elettorale nel 2006. Tutto qui. Purtroppo. 

Carlo Gambescia

martedì 14 dicembre 2010

Americanate...

Maroni come Rudolph Giuliani?


.
«Se il Ministro Maroni non ci fosse, bisognerebbe inventarlo». Più che un giudizio politico è una dichiarazione d’amore. E di chi? Di Luca Zaia, Governatore del Veneto. Il quale ci dà dentro così: «Spendo volentieri queste parole perché c’è il rischio di assuefarsi, in maniera positiva, a questo continuo bollettino fatto di arresti di persone e di confische e sequestri di beni. Va invece sempre riconosciuto al Ministro di aver dato ritmo e valore all’attività delle forze di polizia, nell'interesse di noi cittadini, che, quando vediamo il Ministro o una divisa, possiamo pensare alla nostra sicurezza». Infine, nonostante la lingua, fastidiosamente triplicata di volume, Zaia ha definito «esemplare» l’ultima operazione di polizia effettuata in Veneto. Dopo di che, non riuscendo più a parlare, il Governatore ha dovuto ingerire massicce quantità di cortisone…
Ora, a parte la proverbiale ossessione leghista per la sicurezza, che anche in Zaia ricorda quella del dottor Stranamore verso i comunisti russi, è vero che Maroni non sta mai fermo. Ma sopratutto davanti alle telecamere di rigida osservanza minzoliniana. Diciamo che il Ministro dell’Interno è una specie di piazzista della sicurezza: ti imbottisce la testa di cifre, ti vende l’elettrodomestico e poi sparisce… E se l’aspirapolvere non funziona? Nel senso che la vecchietta continua ad essere rapinata, il colletto bianco a rubare, le ragazzine a sparire, eccetera? Uno si attacca. A che cosa? Una volta c’era il tram., oggi invece i “bollettini” statistici di Maroni.
Addirittura c’è chi ha paragonato, e benevolmente, il Ministro dell’Interno a Rudolph Giuliani. Al tempo… Dietro la tolleranza zero praticata dall’ ex Sindaco di New York c’era una concreta politica culturale della sicurezza. E ci spieghiamo subito.
Giuliani, prima di diventare primo cittadino, aveva metabolizzato a fondo la teoria anticrimine dei “vetri rotti” di Wilson e Kelling, due criminologi. In cui si sosteneva che tollerare che i vetri di un immobile venissero rotti e non restaurati significava favorire la “catena del degrado”: l’edificio sarebbe presto diventato un covo di criminali. Per Giuliani il punto non era solo impedire la rottura dei vetri, ma anche il successivo degrado. Detto altrimenti: polizia vicino ai cittadini, cittadini accanto alla polizia: si chiama tuttora circuito virtuoso dell’ordine sociale. Non solo sceriffi dal grilletto facile, ma anche cittadini responsabili.
Invece Maroni si limita a reprimere, quando ci riesce… E al tempo stesso, se capita, privilegia “l’ inguacchio” politico.
Ad esempio, il Ministro dell’Interno ha giudicato “ottima” la nuova formulazione dell’articolo 8 del decreto sicurezza, modifica fortemente voluta dal Fli e dall’Opposizione. Bene, nella prima versione si assegnava al Sindaco il potere di adottare con “ordinanze” provvedimenti urgenti allo scopo di prevenire e allontanare gravi pericoli per l’incolumità pubblica e per la sicurezza urbana. Ora, invece, come recita il nuovo testo, « al fine di assicurare l’attuazione dei provvedimenti adottati dai Sindaci, il Prefetto, ove lo ritenga necessario, dispone le misure ritenute necessarie per il concorso delle Forze di Polizia».
Tradotto: Sindaco e Prefetto si litigheranno le risorse (uomini e mezzi) da utilizzare. Altro che urgenza e rapidità.
Rudolph Giuliani non sarebbe d’accordo.

Carlo Gambescia

lunedì 13 dicembre 2010

Fiducia a Berlusconi
Come al poker...


.
Brutte carte. Comunque vada, Berlusconi e avversari hanno in mano “poca roba”. Di solito al tavolo da poker almeno uno dei giocatori vince, magari con un Trissetto. Qui il rischio è quello di mandare a fondo il Governo con una Doppia Coppia di scartine (Fini e Casini, Rutelli e Lombardo …), o di tenerlo in vita bleffando... Ma fino a quando? Infatti, come giustamente ha scritto Angelo Panebianco il vero problema non è quel che accadrà il 14 dicembre, ma il 16, « quando si riunirà il Consiglio Europeo per tentare di frenare lo smottamento in corso nell'Europa monetaria, per arginare il contagio. Se arriveremo all’appuntamento con un governo dimissionario o con un governo azzoppato, in sella solo per un paio di voti fortunosamente acchiappati, ci troveremo con la gola scoperta, pronta per essere azzannata, non potendo prendere impegni credibili che spengano la sete di sangue dei mercati. ».
A metterla sul colto, l’etimologia della parola “crisi” rinvia a “scelta”, “decisione”, “risoluzione”. I greci antichi, inventori della democrazia, dicevano Krino: “Decido”, da Krisis, appunto. Mentre gli italiani moderni, soprattutto i politici che pare vogliano distruggerla, hanno invece inventato la crisi politica senza via d’uscita: priva di decisione, insomma. Perché il 14 sarà difficile che il voto, a prescindere dall’esito, metta la parola fine a una crisi politica che dura da due anni… Dove si è visto mai che il partito uscito vincitore con largo margine dalle elezioni sia costretto prima a dividersi e poi a dimettersi? In Italia, of course. A dire il vero, la stessa cosa accadde all'ultimo Governo Prodi, che però di consensi parlamentari, già in partenza, ne aveva meno di Berlusconi, in particolare al Senato.
Comunque sia, democrazia vuole che il vincitore governi. E invece qui, complice Gianfranco Fini, chi vince rischia di perdere. Basterà, in futuro, l'ennesima riforma elettorale? Mah... O forse sì. Ma solo in caso di approvazione di una legge elettorale - e dispiace dirlo - capace di cambiare il Dna (trasformistico) della politica italiana. Un miracolo.
Certo, la crisi politica, oltre che di personalismi più o meno ammalianti e a vario titolo ( di cui Berlusconi è sicuramente il maggiore sponsor), è frutto di un bipolarismo mai digerito da quei centristi di derivazione democristiana che ancora infestano tutti i partiti. Un “centrismo” anomalo (gli ex Dc di necessità fanno virtù) e allergico alle elezioni. "Centrismo" di cui sembra soffrire anche il Presidente Napolitano. Di qui la possibilità, in caso di sfiducia, di una bella, si fa per dire, crisi istituzionale tra Pdl e Capo dello Stato.
A dire vero, Napolitano su un punto ha ragione: la crisi economica impone stabilità politica. E qui, perfino Prodi ha detto alcune cose giuste. L’ex Premier, in un articolo apparso su "il Messaggero" ha sottolineato che il debito italiano «resta molto alto ma procede quasi in linea con le previsioni» e che « il sistema bancario rimane relativamente forte e meno inquinato dagli strumenti speculativi che hanno colpito le banche degli altri Paesi». Perciò, continua «l’improvvisa tensione dei nostri mercatifinanziari», ha origine dalla «mancanza di una forte e tempestiva politica europea» e soprattutto dalla politica interna: «La lunga latitanza di decisioni, ladissoluzione della maggioranza, le tensioni interne al governo,l’avvicinarsi del voto di sfiducia senza prospettive prevedibili peril dopo e le ripetute ipotesi di elezioni anticipate hanno aperto un fronte di instabilità che costituisce il campo più propizio per la speculazione internazionale».
Prodi, si sa, è uno che predica bene e razzola male. Quando governava il suo mantra preferito era “Tasse-Tasse-Tasse-Tasse: una terapia che scaccia la febbre ma fa morire il malato. Del resto il Centrosinistra era e resta molto diviso. E oggi lo diverrebbe ancora più di più se includesse, in un governo post-Berlusconi, Fini, Casini e transfughi vari. Divisioni, su cui, quei mercati “assetati di sangue”, citati da Panebianco, andrebbero a nozze. Resta in piedi, sempre in caso di caduta del Cavaliere senza paracadute, anche l’ipotesi di un Governo Tecnico, forse targato Draghi. Sul quale forse i mercati, chiuderebbero un occhio. Ma solo per un attimo. Perché banchieri e finanzieri, votando in Borsa, cambiano sempre idea. In realtà, per parafrasare Battiato, non è che i mercati non abbiano un Centro di Gravità Permanente, che non faccia loro “mai cambiare idea sulle cose sulla gente”. Ce l’hanno, ce l’hanno… Solo che conta più della gente, perché si chiama denaro…Concludendo, se il Cavaliere non verrà sfiduciato per pochi voti, magari di un pugno di colombe finiane di ritorno, la guerriglia di Futuro e Libertà, come ha minacciato ieri Fini inginocchiandosi davanti all'immagine della Santissima (Lucia) Annunziata, continuerà come prima e più di di prima. E, questa volta dall'Opposizione.
Certo, votare sarebbe più morale: in democrazia l'ultima parola spetta sempre al popolo... Ma sei mesi di campagna elettorale potrebbero far più male che bene all’economia. Perciò la decisione di Napolitano, in caso di sfiducia, sarà decisiva. Ma ancora più importante sarà quella dei mercati.Come però potrebbero far male all'economia, ammesso che Berlusconi riesca a restare provvisoriamente in sella, altri sei mesi di guerriglia parlamentare.
Brutte, brutte carte, come dicevano all'inizio. Povera Italia.


Carlo Gambescia

venerdì 10 dicembre 2010

A molti lettori non sarà sfuggito l'articolo di Marcello Foa sulla possibilità che alla caduta di Berlusconi possa far seguito un "governo tecnico" (http://blog.ilgiornale.it/foa/2010/12/01/la-crisi-finanziaria-ci-regalera-il-governo-tecnico/ ). Scrive Foa: "Il governo tecnico provvisorio, di tre mesi in tre mesi diventerà definitivo. Fino alla fine della Legislatura. Il tempo necessario per logorare il Cav ed estrometterlo definitivamente". Ovviamente, Foa parla come Cicerone pro domo sua...
Di riflesso, qualche lettore - sospettoso o disposto a vendere l'anima al diavolo pur di liberarsi del Cavaliere - potrebbe scorgere nel "governo tecnico" il male minore. Perciò, a scopo dissuasivo, pubblichiamo in argomento l'arguto post dell'amico Teodoro Klitsche de la Grange .
Buona lettura. (C.G.)

.***


Governo tecnico? Ma mi faccia il piacere

di Teodoro Klitsche de la Grange






Tra le ipotesi che si fanno in quello che appare ormai uno scorcio di legislatura, per il dopo voto di fiducia, due prevalgono: da parte degli oppositori di Berlusconi che sia necessario un governo “tecnico”; dall’altra parte l’immediato ricorso alle urne.

E la motivazione – e principale occupazione del governo “tecnico”-, a dire di coloro che lo caldeggiano - sarebbe di rifare la legge elettorale, perché quella che c’è è sbagliata (e siamo d’accordo); ma come bisogna cambiarla, penso di non essere d’accordo - perché le intenzioni delle opposizioni sono, verosimilmente, di togliere (o ridurre) il premio di maggioranza.
Ma c’è un fatto, che mi risulti, nessuno ha notato: se la ragione di un governo “tecnico” è riformare la legge elettorale, significa che questa è una questione (una legge) “tecnica” e non politica. Ma è vero che è tecnica?
Ad essere esatti il costituente ha – opportunamente – sottratto, con l’art. 72 della Costituzione alcune categorie di leggi (tra cui quelle elettorali) alla procedura “semplificata” di esame ed approvazione in commissione, riservandola a quella normale da parte del “plenum” delle Camere. Ma perché le leggi elettorali (e in modo simile le altre enumerate dal IV comma dell’art. 72) non possono essere approvate in commissione? A chiarirlo soccorre – tra l’altro – una forma di “tradizione orale”. Mi raccontava quasi quarant’anni fa l’on. Aldo Bozzi che quando egli era giovane (e attivissimo) deputato alla Costituente, il vecchio Orlando gli ripeteva che, in uno Stato rappresentivo-parlamentare la vera Costituzione è la legge elettorale: perché questa regola la selezione e l’accesso al massimo organo, il Parlamento, il che significa regolare accesso e selezione al potere “supremo”. Ovvero ha la stessa funzione della legge salica (o delle altre leggi di successione) nelle monarchie: garantire la continuità del potere e la certezza dell’avvicendamento allo stesso. Dato che a fare un’unità politica costituita – come scriveva, tra i tanti, Hegel – non sono l’unità “di pesi e misure” e neanche delle leggi, ma il potere supremo di comando, regolare la successione a questo significa garantire l’esistenza (e il perdurare) dell’unità politica.
Può essere definita “tecnica” questa esigenza primaria e imprescindibile per l’ordine comunitario?
A voler poi precisare il senso di “tecnico” in un contesto politico, significa che il potere – quello del governo – dev’essere esercitato da “tecnici” sui non-tecnici, giacché ogni potere, come scriveva Hobbes, è di un uomo su un uomo.
Ma proprio perché è di potere su uomini di cui stiamo discutendo, è chiaro che, tale aspetto è decisivo: non si tratta genericamente di una “tecnica” nel suo significato usuale: quello di regole per dirigere un’attività efficace e in particolare, nell’età moderna, le macchine all’uopo realizzate. Piuttosto appare evidente l’intento di associare un qualcosa di accattivante (il “bravo tecnico”) ad una proposta politica, volta al fine di realizzare un obiettivo politico (una repubblica parlamentare-consociativa) e d’impedire la realizzazione dell’opposto (un regime, in qualche misura, presidenziale-plebiscitario). Cioè un qualcosa d’essenzialmente e squisitamente politico (v. sopra).
Quanto poi a coloro che credono che i “tecnici” siano quanto di migliore offre il mercato ricordiamo il penetrante giudizio di Benedetto Croce il quale a proposito di politica e governi (tecnici o meno) scriveva: “Entrerebbero in quel consesso chimici, fisici, poeti, matematici, medici, padri di famiglia e via dicendo, che avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse, e, insieme con ciò, la conoscenza e l’abilità in qualche ramo dell’attività umana, che non sia per altro la politica propriamente detta: questa invece dovrebbe, nel suo senso buono, essere la risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice tecnica.
Quale sorta di politica farebbe codesta raccolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’ideale e nessuna voglia mostra di attuarlo”.
Alla politica non c’è, insegna don Benedetto, rimedio: farlo credere è ingannare, pensarlo è farsi ingannare.
.

Teodoro Klitsche de la Grange


Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

giovedì 9 dicembre 2010

Il libro della settimana: In alto a destra. La replica di Giuliano Compagno, e la "controreplica" di Carlo Gambescia...





Pubblichiamo, grazie alla gentile autorizzazione, la replica del dottor Giuliano Compagno alle recensioni ricevute. L'articolo è apparso sul “Secolo d’Italia”.
Il dottor Compagno risponde in modo garbato ed elegante, anche alle nostre critiche (http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2010/08/il-libro-della-settimana.html ). E di questo lo ringraziamo. 

.

Carlo Gambescia


Sarà pure tipicamente italiano stizzirsi per una critica meno compiacente del solito ma la penso piuttosto come Pauline Kael, per la quale i critici erano “le uniche fonti d’informazione indipendenti”. D’altronde era prevedibile che In alto a destra non avrebbe suscitato il plauso unanime degli intellettuali e dei giornalisti. Auspicio addirittura paradossale, se applicato alla politica spicciola. Da “sinistra” il silenzio sarebbe stato, al massimo, rotto da qualche repentino cambio di argomento; da “destra” il rumore sarebbe stato molto riconoscibile, quello un po’ anacronistico degli ex rivoluzionari o quello attualissimo dei berlusconiani “alla giapponese”. Ciascuno avrebbe tirato acqua al mulino delle proprie convinzioni profonde o contingenti. Ciascuno avrebbe attinto al pozzo della propria storia e delle proprie utopie. Anche questa è una forma di buona fede, anche questo, in fondo (a “destra” come a “sinistra”) è dialogare, specie quando lo stile e la raffinatezza, conditi da polemiche e da motti di spirito (perché no?), contribuiscono a stimolare una successiva riflessione ragionata. Discorso a parte meriterà il bellissimo articolo di Pietrangelo Buttafuoco apparso su “Libero” del 12 agosto scorso, poiché tra le sue righe si agitano il cuore e l’intelligenza, talvolta litigando tra loro… Per il resto appare interessante la circostanza che, dal complesso degli appunti a margine, possa trarsi una prospettiva critica assai completa, in cui coabitano la tradizione e l’attualità, l’eresia e il moderatismo, ovvero tutto quel che alberga, quasi di riflesso, in ogni buon libro collettaneo. Prendiamo a esempio la nota di Fabrizio Esposito su “Il Riformista” a proposito delle presunte contraddizioni tra certe immagini “gaudenti” e la supposta profondità di un volume come il nostro. Che cosa interessa davvero in questo accenno – affatto violento o aggressivo, va detto - se non il problema della coincidenza tra la sfera pubblica e quella privata di chi rappresenta le istituzioni? Ora, se per anni non abbiamo fatto altro che apprezzare la sobrietà sincera di Veronica Lario nel suo ruolo di First Lady, nulla ci impedisce oggi di qualificare col termine di “inappuntabile” l’assoluta riservatezza sin qui tenuta da Elisabetta Tulliani nella sua posizione di compagna del Presidente della Camera dei Deputati. Esposito non milita tra l’altro in quella squadra di volgarissimi sessisti che si compiace di esporre foto osé di donne “pubbliche” non appena esse diventino scomode (le Signore Lario e Mussolini ne pagarono a loro tempo la fatwa), né certamente l’apparizione in un programma di intrattenimento lo istiga minimamente a un giudizio morale. Resta tuttavia la sensazione di un generale disordine, in cui pubblicità e privatezza finiscono per essere dolosamente mescolate, come se tutto equivalesse al contrario di tutto e come se ciascuno di noi, senza eccezioni, fossimo gli “utilizzatori finali” della medesima mondanità, degradata e mercificata. Non è così. La dialettica politica italiana è ormai preda di una duplice deriva, la cui matrice è la stessa (la manipolazione) ma i cui effetti sono opposti: da un lato si assiste all’uso ossessivo di paragoni improponibili, per cui comportamenti e attitudini assai differenti vengono capziosamente assimilati tra loro; dall’altro si cerca di rappresentare una realtà concreta del tutto invertita rispetto allo stato dei fatti. Fenomeno, quest’ultimo, rintracciabile nell’affettuoso commento di Antonio Angeli su “Il Tempo”, secondo cui gli autori di In alto a destra apparterrebbero alla specie degli idealisti sognatori, mentre la politica sarebbe “sacrificio, mediazione, condivisione e capacità di inghiottire rospi e anche belli grossi. Come fa Berlusconi.” Io sono certo che Angeli creda fermamente in quel che scrive, tant’è che ancora definisce il Premier “presidente operaio”. Egli è convinto che il “presidente operaio” voglia un’Italia “giusta, efficiente e moderna” e che probabilmente una congiura fenomenica, ordita da comunisti, da magistrati e da finiani gli abbia impedito di realizzare un programma di governo perseguito con serietà e con ostinazione. È la nota retorica del “fare”. La stessa usata da qualsiasi leghista che si rispetti. È la solita cotoletta alla milanese del “lavoro guadagno spendo pretendo”. Sono anni che la assaggiamo ma non c’è nulla da fare: non ci sfama.

Certo, in taluni casi potremmo porre la questione del pulpito, chiederci da dove provengano certe invettive. Varrebbe la pena? Sarebbe mai stato immaginabile, dal giornale on-line della Fondazione Magna Carta di Gaetano Quagliariello, un articolo di colore diverso da quello dipinto da Luca Negri? Ricco di sapide ironie come la seguente: “La quarta di copertina ci informa del fatto che tutti gli ‘autori sono teste libere e pensanti, che non prendono ordini da nessuno, che non sono pagati da chicchessia’ (dunque la notizia è che la fondazione Fare Futuro e l’ex quotidiano del Msi non pagano i collaboratori?).” A parte il gran divertimento che provoca in chi la legge, l’esilarante battuta non è forse il segno di un witz perfettamente freudiano? Di un sogno a occhi aperti che rimuove la coscienza vigile di chi scrive? Ma è quando l’autore impazza con citazioni di cui non è all’altezza che il gioco si fa durissimo! Diamine! Rilancia con Marco Tarchi e con il suo supposto stupore di trovare “i suoi antichi sodali nei pressi di chi in passato epurò le loro idee” (che ancor oggi farebbero comodo al Negri quanto il pensiero di Storace…) e opina che a dubitare delle categorie destra-sinistra si finisce per assomigliare al Bifo di Radio Alice. E lo cita persino!... “I processi di deterritorializzazione appaiono irreversibili e il multiculturalismo un fatto compiuto.”, senza sapere che in realtà non va citando Bifo ma Gilles Deleuze, di cui probabilmente ha orecchiato un paio di concetti sul web. Ora, esiste un problema di livelli e ne prendiamo atto. Non si può percorrere una vita a ritroso e prendere i libri in mano ma non è colpa nostra se la sintesi di una critica ad altissimi valori biliari si riduce al cosa dicevano, un tempo, questo e quello. Anzi a questo proposito, qualora le informazioni gli servissero per una futura, fondamentale monografia, vorrei personalmente informarlo che nel 1974 vendevo “Anno Zero” fuori delle scuole ma che poi, tra il 1983 e il 1987, sono stato un dirigente di Amnesty International, con ciò tenendo a cuore anche il destino del Professor Paolo Signorelli (a cui volevo un bene dell’anima e di cui ancora piango la Sua morte), detenuto in attesa di giudizio per dieci anni e che persino, non ricordo in quale anno, devo aver votato radicale… Ma che con tutto ciò proprio non m’è riuscita di entusiasmarmi per Silvio Berlusconi, né come statista né come brianzan-lover né come barzellettiere. Lo ammetto, caro Negri, nemmeno io sono stato tutto d’un pezzo, ma cosa vuole, dallo scioglimento di MPON a oggi sono trascorsi appena trentasette (37) anni… Però su Marcello Veneziani posso dire che l’ho ascoltato spesso, che è un uomo colto e ci si può discutere bene. Quanto al “relativismo postmoderno” che ci attribuisce, a parte perdonarle il frusto ossimoro, non posso che ringraziarla del complimento, giacché la postmodernità è pur sempre una categoria seria e il volumetto di Jean-François Lyotard è tuttora acquistabile in libreria. Ebbene, sfogliandolo scoprirà che il problema non attiene affatto agli “innesti culturali” ma al tacersi del grande racconto ottocentesco, o allo sviluppo della scienza e della tecnologia che andrebbero a riflettersi, come sistemi agenti, sulla creatività e sulle arti contemporanee.
Anche Carlo Gambescia, nel suo blog metapolitico (per Il Foglio Letterario edizioni ha pubblicato il saggio Metapolitica. L’altro sguardo sul potere), non ci risparmia del sarcasmo un po’ facile, che però imputiamo alla sua sincera vocazione di studioso: l’umorismo potrebbe non essere il suo campo specifico. Ma il suo attacco viene da un versante opposto: lui ci vede rasoterra, da politica reale, un po’ casiniani se non addirittura dorotei… Croppi come Mariano Rumor! Lanna e Rossi come Gava e Scotti! Ma che abbiamo fatto per meritare tutto questo?!? Si celia eh? Invece non si scherza nel diagnosticarci un movente freudiano, quello di “superare antichi complessi d’inferiorità, cercando di accreditarsi a sinistra come destra ‘buonista’ e ‘libertaria’…” Non si comprende appieno se il complesso sia politico o culturale ma in entrambi i casi dovremmo metterci d’accordo sul grado di decomposizione delle solite categorie. E magari porci il seguente quesito: se un cittadino propone soluzioni a problemi attinenti l’immigrazione, l’ambiente, l’economia globale, la bioetica, la morale pubblica, i diritti e i doveri che siano diversi dai respingimenti, dal nucleare, dalle furbizie casearie, dal linciaggio del Signor Englaro, dall’azione delle cricche, dallo sfruttamento della prostituzione e dal fregarsene del senso civico, costui sarebbe di destra o di sinistra? O più semplicemente un italiano ragionevole che i muri e le palizzate le ha già superate in scioltezza?

Giuliano Compagno




***


Che dire di una replica così garbata? Che chi scrive si sente come il “Grande Inquisitore”… Il cuore ferito brucia, ma le idee non vacillano. 
Due cose.

Sul doroteismo, continuiamo ad essere assai meno fiduciosi del dottor Compagno. I tatticismi del Fli, anche in questi giorni, sono sfibranti e sanno di déjà vu democristiano.
Quanto ai “problemi riguardanti l’immigrazione, l’ambiente, l’economia globale, la bioetica, la morale pubblica, i diritti e i doveri” anche qui continuiamo a credere che esistano risposte di destra e di sinistra. Certo, sulla morale pubblica non ci si può dividere. Anzi, non ci si deve... Ma si tratta di valori etici: pre-politici. Dopo di che si deve tornare a fare politica. E come? Dividendosi. Anche perché su tutto il resto - e così auspicano gli elettori (stando almeno alla Ricerca Itanes 2007) - non possono non esserci politiche di destra e di sinistra: dall’immigrazione alla bioetica, dall’economia all’ambiente. Pensare la politica diversamente sarebbe impolitico: la politica è decisione, e decidere significa giudicare, e giudicare vuol dire gerarchizzare, e quindi dividere. In definitiva, l'unità è sempre temporanea e contro qualcuno. Vogliamo non chiamarle Destra e Sinistra? E sia. Ma ricordiamo che psicologicamente e sociologicamente esisteranno sempre uomini affezionati allo status quo, allo status quo ante e, diciamo così, alla posteritas...
Perciò è vero, delle due l’una: o si finge, per agguantare il potere in chiave dorotea, o si avverte un complesso d’inferiorità verso una sinistra che dopo aver ripudiato il marxismo ha sposato in tutta fretta la causa dell' umanità. Altro giro, altro mito.

Naturalmente, qualche singolo intellettuale (la classica eccezione...), come il dottor Compagno, è in perfetta buona fede. Ma, di sicuro, non lo è Gianfranco Fini.

.


Carlo Gambescia

martedì 7 dicembre 2010

 I giovani e la  politica 
Non basterà essere eletti


.
Chiacchiere tante, fatti pochi, I giovani in politica restano fermi al palo. Colpa delle false speranze create dal giovanilismo post-sessantottino? Oppure di una classe politica ultrasessantenne che non vuole mollare l’osso agli under trenta? Difficile dire. Meglio agire, ma come?
Secondo i “giovani” deputati Sandro Gozi, Pd ( classe 1968) Gianluca Pini (classe 1973), Pdl, Nicola Formichella, Lega Nord ( classe 1975) basterà approvare una proposta di legge che verrà presentata nelleprossime settimane, tesa ad abbassare l’età perl’elettorato attivo e passivo, sia alla Camera che al Senato. Detto altrimenti: Todos Onorevoli a 18 anni e Senatori a25.
Attualmente, a 18 anni si può votare per eleggere un deputato, ma bisogna averne non meno di 25 per essere eletti alla Camera. Mentre sono richiesti 25 anni per eleggere un senatore, ma non si può essere eletti al Senato prima di 40.
«In Parlamento - osserva Gozi, promotore dell’iniziativa - occorre pensare al futuro e dare spazio e priorità a chi il futuro lo rappresenta, alle nuove generazioni. Laparte più creativa della società non può determinare le leggi delloStato in cui vive. Nella società dell'informazione la conoscenza èconcentrata nei giovani. Che però non possono decidere quale società dell’informazione possono avere, quale libertà dare alla rete, quali debbano essere diritti e garanzie della privacy. Ma soprattutto quale futuro darsi». Del resto, conclude, « le norme oggi in vigore rappresentano una meradiscriminazione basata sull’età che non ha ragione di esistere e checoinvolge più di 5 milioni di persone».
I nostri magnifici tre peccano d’idealismo. E per una ragione molto semplice: i giovani sono lontani anni luce dalla politica. Stando allo Iard (Rapporto 2007), massima autorità italiana in argomento, due giovani su tre (tra i 15 e 34 anni) non si interessano di politica. E hanno come valori di riferimento amicizia, lavoro e amore. Anche nei riguardi della religione non c’è grande interesse.
Oggi, insomma, ci troviamo davanti a ragazzi che, a differenza dei padri e dei nonni, non credono più nell’ideale sessantottino del “privato uguale pubblico”… E quindi nella capacità della politica di “cambiare” il mondo. Un altro aspetto interessante, che viene fuori, è quello della bassa sindacalizzazione dei giovani e in particolare della percezione negativa, o comunque non positiva, del sindacato quale strumento di difesa del lavoratore. Altro ideale sessantottino andato in frantumi…
Gozi, Pini e Formichella, ripetiamo, si fanno troppe illusioni. Perché, probabilmente, l’abbassamento dell’ età per eleggere ed essere eletti alla Camera e al Senato, dopo un entusiasmo iniziale, non muterebbe di un virgola l’atteggiamento di sostanziale disinteresse dei giovani verso la politica. E qui va ricordato che negli altri paesi europei, dove l’età per essere eletti in Parlamento è più bassa che in Italia, come Finlandia, Germania, Olanda, Svezia, Regno Unito, Spagna e Portogallo, l’interesse dei giovani nei riguardi della politica è addirittura minore che in Italia.
Ci troviamo perciò davanti a un problema strutturale. Anche perché, ammesso pure che i giovani italiani di colpo “rinsaviscano” politicamente, quale potrebbe essere la sorte di un giovane peones parlamentare? Non diversa da quella del maturo peones… Ovvero, contare meno di zero…
Per dirla fuori dai denti: un ipotetico senatore venticinquenne di belle speranze, davanti al capogruppo settantenne, un vero lumacone a sua volta ammanicato con altre potenti cariatidi di partito, e dunque capacissimo di stroncare una giovane carriera in cinque minuti, di quanto potere decisionale potrebbe disporre? Il lettore può rispondersi da solo.
Dalle interessanti indagini condotte da Carlo Carboni ( Élite classi dirigenti in Italia, Laterza 2007) sulla banca dati del Who’s who , che riduce a 5500 i personaggi di spicco italiani in tutti i campi, risulta «che i quattro quinti dei potenti over 60 erano presenti già a partire, come minimo, dal 1998, mentre si riscontra una percentuale pressoché dimezzata fra coloro che avevano nel 2004 massimo 40 anni». Amare le sue conclusioni: «Si entra quindi tardi nell’élite (da quarantenni o molto più spesso da cinquantenni), ma vi si resta fino a tarda età».
Perciò, largo ai giovani. Ma come? Col mitra. 
P.S. Ovviamente scherziamo.


Carlo Gambescia