giovedì 2 luglio 2009

Il libro della settimana: Ruth Ben-Ghiat (a cura di), Gli imperi. Dall’età antica all’età contemporanea, il Mulino, Bologna 2009, pp. 346, euro 26,20. 

https://www.mulino.it/isbn/9788815130570


Ogni vera storia è sempre storia contemporanea, insegnava Croce. Il che, tradotto, significa che ad esempio oggi si torna a parlare di “impero” e “imperi” perché gli storici vivono immersi in un mondo dove l’impero, in questo caso quello Usa, nascente o meno, è una realtà tangibile, contemporanea. Di qui la necessità del confronto storiografico possibilmente oggettivo con lo sguardo rivolto soprattutto sul presente.
Perché, se possibile? In realtà, e sia detto con il massimo rispetto per Croce, spesso la “contemporaneità” non giova alla serenità storica e neppure al taglio metodologico prescelto, che talvolta risente delle mode conoscitive del tempo: lo storico invece di rivendicare la propria indipendenza, anche di metodo, rischia sempre di riflettere il pensiero comune, se non i vezzi, della propria epoca. E questo purtroppo è il caso del testo di cui qui ci occupiamo: Gli imperi. Dall’età antica all’età contemporanea, (il Mulino, Bologna 2009, pp. 346, euro 26,20). Volume curato da Ruth Ben-Ghiat, docente di storia e direttrice del dipartimento di Italian Studies della New York University. Opera che esce nella collana “Dialoghi” dell’Istituto Italiano di Scienze Umane, presieduto da Aldo Schiavone, e che raccoglie undici contributi dell’omonimo convegno tenutosi presso la New York University il 27-28 gennaio 2006.
Del volume, infatti, è particolarmente criticabile l' approccio che potremmo definire - semplificando - post-moderno. Nel senso di una critica fondata su una ragione storiografica debole, favorevole alle scorciatoie, e perciò troppo ripiegata sul presente, come unico mondo possibile.
Perché per un verso si considerano definitivi alcuni fenomeni ancora in atto e dagli esiti incerti, come la crisi dello stato-nazione; e per l’altro si rifiuta per principio qualsiasi definizione concreta del concetto di impero, se non quella metaforica, molto post-moderna appunto, dell’ impero come di una invisibile rete onnicomprensiva, seguendo la dominante moda delle analogie informatiche. Ma procediamo con calma.
In primo luogo, gli autori - tutti storici - sembrano privilegiare solo due forme istituzionali: l’impero e lo stato-nazione. Il che è riduttivo perché la storia ha conosciuto, a voler essere sintetici, la città-stato, la città mercantile, lo stato-regionale (signorie e principati), lo stato assoluto: tutte entità spesso entrate in contrasto con gli imperi. Pertanto non è detto che in futuro queste forme storiche non possano riproporsi: non esiste insomma alcuna polarità impero/stato-nazione, ma una linea lungo la quale è possibile ciclicamente rinvenire le forme istituzionali più differenti. Come non esiste una tendenza evolutiva assoluta alla “transnazionalità”, malgrado gli autori sostengano in contrario ( si vedano l’introduzione della Ben-Ghiat e i contributi della Stoler e di Armitage) : idea che attraversa tutta l’opera e che affiora persino in contributi circoscritti per argomento come quelli di Feros, della Pagano de Divitiis e di Cooper.
Probabilmente perché si tratta di un'idea tesa a giustificare, attraverso l’impiego del concetto di reti transnazionali soprattutto economiche e culturali, ciò che per la sensibilità culturale post-moderna degli autori, affascinati dalle analogie informatiche alla moda, è l’ a priori per eccellenza: la natura reticolare del impero americano, nei termini - e il cerchio metodologico si chiude - di una logica del dominio soft, quale egemonia sull'immaginario, come impone la scuola post-moderna stregata dai meccanismi disciplinari della psiche umana.
In secondo luogo, il volume resta così privo di un qualsiasi accenno alle forme di dominio hard esercitate attraverso le burocrazie imperiali, gli eserciti, i “funzionari” del fisco e della moneta: i lavori di Einsenstadt, Finer, Tilly sul ruolo del conflitto culturale, bellico e fiscale nella formazione degli imperi e delle altre istituzioni politiche, non sono neppure citati. Mentre risulta sopravvalutato il ruolo dell’economia di mercato (nonostante due buoni saggi in chiaroscuro di Anthony Pagden e Guido Abbattista sui rapporti tra passioni e interessi nel quadro della cultura settecentesca) . Si danno, insomma, per eterni e vincenti - fin dall'antichità - i meccanismi "transnazionali" dell’economia di mercato: emblematico il saggio di Elio Lo Cascio sull’economia imperiale romana nel Mediterraneo, come meccanico esito di una neoclassica “sostanziale diminuzione dei costi di transazione”; tra l'altro vi si parla anche di “schiavo-manager”…
Sconcertante - dispiace dirlo - anche il contributo del pur accorto Franco Cardini, l’unico, a dire il vero, che provi a definire il concetto di impero (per quanto puntando troppo sull’idea "soggettiva" di autocoscienza imperiale; idea "bella ma impossibile", perché non aiuta lo studio degli "oggettivi" e concreti rapporti di forza ) . Il quale però, per venire all’oggi, dà una definizione dell'egemonia imperiale Usa che sconfina nella fiction alla Fanucci (post-moderna appunto):
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Si può dire - scrive lo storico fiorentino - che centro e protagonista dell’impero siano non già gli Stati Uniti con il loro governo, il loro esercito e i loro interessi, bensì una nuova e complessa entità sovranazionale, internazionale e anazionale; un ‘impero’ senza confini e senza limiti, senza centro e senza periferia, guidato da una élite internazionale di gruppi imprenditoriale e finanziari” (p. 49) .
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Insomma tutto e il contrario di tutto. Sembra quasi che il volume si muova nell’onda lunga ma melmosa di Empire. O per dirla tutta che voglia solo fare il verso (storiografico) all'immeritatamente fortunato testo (filosofico) di Negri e Hardt, apprezzatissimo in America anche dagli storici, come Bibbia di certo post-modernismo progressista. Dove, in nome di una specie di gaia scienza post-marxista, si celebra il potere invisibile del capitale a scapito però della visibilità di concreti e misurabili rapporti di forza, tra classi, ceti e individui con tanto di nome e cognome. Per farla breve: della chiarezza. Soprattutto metodologica.

Con una differenza che al filosofo politico certi eccessi "metanarrativi" si possono perdonare, allo storico no. 

Carlo Gambescia

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