Il libro della settimana: Paolo Prodi. Settimo non rubare. Furto e mercato
nella storia dell’Occidente, il Mulino 2009, pp. 396, euro 29.00.
https://www.mulino.it/isbn/9788815130747?forcedLocale=it&fbrefresh=CAN_BE_ANYTHING |
Piccola premessa. Il ghiotto volume di Paolo Prodi (Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, il Mulino, Bologna 2009, pp. 396, euro 29.00 ) si ferma all’inizio del XIX secolo. E quindi non giunge fino ai giorni nostri, benché nelle conclusioni l’autore si lasci andare a interessanti valutazioni sul presente e sul futuro, sulle quali torneremo.
Questo per far capire subito ai non specialisti, che quello che abbiamo tra le mani non è un pamphlet giornalistico, ma un solido libro storico. Scritto da uno studioso insigne, oggi professore emerito di Storia moderna dell’Università di Bologna, nonché fratello di Romano, già Presidente del Consiglio e docente di economia.
Un testo che completa un brillante percorso di ricerca sul concetto di forum. Prima visto come luogo in cui si incarna il patto politico (Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, il Mulino 1994); poi quale luogo in cui si amministra la giustizia (Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, il Mulino 2000); e ora come mercato. Ma anche quale “occasione” che può fare l’uomo ladro, per dirla con un antico adagio.
Perché lo abbiamo definito “ghiotto” ? Prodi, da storico di razza, privilegia sempre la complessità, seguendo i sicuri sentieri di una storiografia fatta non solo di risposte ma soprattutto di domande. Pertanto il lettore vi troverà soprattutto fatti, sottilmente analizzati, e mai petizioni di principio.
Ma qual è la sua tesi? Facciamo parlare l'autore.
.
“Qui non intendo… esaminare l’istituto
del ‘furto’, il comportamento furtivo, nella dimensione astorica onnipresente
in ogni società, dalle più arcaiche sino a oggi, ma nel suo divenire storico
concreto in rapporto con la genesi e lo sviluppo del mercato occidentale, come
tendenza a impadronirsi dei beni del prossimo attraverso il mercato, infrangendo
o deformando le sue regole” (p. 17).
.
.
Attenzione: infrazione o deformazione delle regole di
mercato. Ecco la differenza fra Prodi e certa storiografia “mercatista”, che
invece ritiene il mercato sano in se stesso. Secondo lo storico bolognese il
mercato in Occidente si è sviluppato, tra i secoli XI e XVIII, non per
intervento di una specie di spirito santo capitalistico ma attraverso
l’interazione dialettica, dura ma creativa, fra stato, chiesa e istituzioni
economiche. Nelle vesti spesso sontuose di papi, chierici, re e principi,
mercanti e finanzieri. Un'interazione che ha condotto alle regole, imposte
dallo stato.
Prodi tratteggia forze storiche concrete e si riferisce a concezioni etiche e politiche reali; studiandole, per dirla in sociologhese, "in situazione". Cosicché il lettore può scoprire da solo, come il rispetto delle regole di mercato implichi sempre l’esistenza di uno stato che si comporta da stato (e che dunque legifera e controlla ) e di un mercato che si comporta da mercato ( e che quindi scambia beni e non produce, almeno direttamente, quelle stesse le regole cui poi dovrebbe obbedire).
Semplificando: dove c’è il predominio di una sfera sull’altra, prevale il furto ( o dello stato o del privato) a danno della comunità. Dove c'è equilibrio conflittuale, la comunità prospera. Ecco la lezione della storia moderna: quella di un capitalismo socialmente ben temperato, grazie al dualismo permanente, necessario e creativo tra stato e mercato. Dove il "tasso" di onestà dipende, come dire dalla qualità della "lotta per le regole", condotta, in primis dalle istituzioni politiche. Si tratta di una chiave sociologica molto interessante, quella della sociologia del conflitto, che va da Gumplowicz a Dahrendorf, intelligentemente reinterpretata da Prodi in termini storici.
Prodi tratteggia forze storiche concrete e si riferisce a concezioni etiche e politiche reali; studiandole, per dirla in sociologhese, "in situazione". Cosicché il lettore può scoprire da solo, come il rispetto delle regole di mercato implichi sempre l’esistenza di uno stato che si comporta da stato (e che dunque legifera e controlla ) e di un mercato che si comporta da mercato ( e che quindi scambia beni e non produce, almeno direttamente, quelle stesse le regole cui poi dovrebbe obbedire).
Semplificando: dove c’è il predominio di una sfera sull’altra, prevale il furto ( o dello stato o del privato) a danno della comunità. Dove c'è equilibrio conflittuale, la comunità prospera. Ecco la lezione della storia moderna: quella di un capitalismo socialmente ben temperato, grazie al dualismo permanente, necessario e creativo tra stato e mercato. Dove il "tasso" di onestà dipende, come dire dalla qualità della "lotta per le regole", condotta, in primis dalle istituzioni politiche. Si tratta di una chiave sociologica molto interessante, quella della sociologia del conflitto, che va da Gumplowicz a Dahrendorf, intelligentemente reinterpretata da Prodi in termini storici.
Un dualismo che vede soprattutto nei secoli XVI-XVIII il
conflitto tra Stato Assoluto (ma in via di democratizzazione) e
"Repubblica internazionale del denaro" (banchieri e finanzieri). Dal
quale scaturirà il moderno capitalismo, con i suoi pregi e difetti. Conflitto -
come nota Prodi nelle sue riflessioni finali – che nel secolo XIX sfocerà nella
vittoria dei sistemi imperiali (in particolare quello britannico) . Detto
altrimenti: nello “stato chiuso”. E dunque nel predominio del pubblico sul
privato. Al quale però succederà dopo la parentesi dei totalitarismi e del
welfarismo, un mercato fin troppo aperto, quello della globalizzazione senza
regole: del predominio del privato sul pubblico.
Molto interessante è la ricostruzione dell’evoluzione dell’idea di furto:
Molto interessante è la ricostruzione dell’evoluzione dell’idea di furto:
.
“Il concetto e la prassi di “furto -
scrive l’autore - sono cambiati radicalmente in Occidente insieme ai concetti
di ’ricchezza’ e di ‘povertà’… Questo mutamento ha costituito una componente
importante sulla strada verso la modernità. Si è passati dalla concezione
immobile basata sulla tradizione biblica e sulla legge naturale, ripresa dal
diritto romano, del furto come violazione del principio fondamentale della
giustizia (suum cuique tribuere: quindi furto come sottrazione di cosa
altrui invito domino) a una concezione dinamica del furto come infrazione delle
concrete regole della comunità umane nel possesso e nell’uso dei beni di questa
terra, come violazione fraudolenta di un patto contrattuale, sia formalmente
stipulato tra due o più soggetti, sia implicitamente compreso nei patti di
convivenza di una comunità” (p. 109).
.
.
Questo per il passato. E oggi? Secondo Paolo Prodi:
.
“Il problema è che davvero è scomparso
il confine tra il furto e il comportamento onesto, tra il lecito e l’illecito:
al centro della scena si pongono a mio avviso tre problemi fondamentali: il
formarsi di un capitalismo finanziario del tutto nuovo, delocalizzato
invisibile e irresponsabile; il problema della limitazione delle risorse del
pianeta…; il problema delle minacce incombenti sulla sopravvivenza
dell’ambiente naturale…” (p. 377).
.
.
Problemi “politici” non di poco conto. Ai quali uno
storico difficilmente può rispondere. Forse si potrebbe chiedere a Romano
Prodi. Ma solo dopo aver letto il bel libro del fratello Paolo.
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Posta un commento