venerdì 2 gennaio 2009

Riflessioni
Dai saldi alla decrescita?



Sembra che da oggi, 2 gennaio 2009, il destino dell’economia italiana e mondiale sia legato, come non mai, ai saldi. Non è un battuta, basta sfogliare i giornali (come qui: http://seidimoda.repubblica.it/dettaglio/Previsioni:-top-o-flop/55705 ).
In effetti, e per dirla rozzamente, un sistema che si regge sui consumi, come quello capitalistico, ha necessità che la gente consumi. Il “volano” dell’economia è nei consumi: più si consuma, più si produce; più le imprese vendono, più crescono profitti e salari.
Tuttavia l’ago della bilancia sembra pendere in favore dei profitti ( e secondo il vecchio Marx da sempre...). E con particolare gravità nelle situazioni di crisi economica. E per una semplice ragione: tutti rischiano di tirare la cinghia, ma chi è alto ha un potere contrattuale maggiore nei riguardi della politica (come istituzione). O se si vuole più forza per influire a proprio vantaggio sulla ripartizione profitti-salari.
E si tratta di una questione sociologica e non solo economica.
Di regola, nella società post-1945, l'idea stessa di crisi economica è sempre stata percepita dai diversi gruppi sociali come potenzialmente riduttrice del proprio stile di vita, inevitabilmente collegato, in una società dei consumi, al crescente possesso di denaro. Di qui la strenua difesa della propria condizione sociale. Se c’è una caratteristica che distingue la società attuale, questa è data dalla angoscia di perdere ciò che si possiede. Si teme di perdere, come non mai, quel poco o tanto che si possieda. E lo si vuole difendere strenuamente. E a maggior ragione in una crisi molto seria come quella attuale.
Ovviamente la difesa è collegata alla propria posizione nella scala sociale. E quanto più si è in alto, tanto più ci si difende meglio. Dando per scontato il non intervento della politica in ambito redistributivo, come continua a dettare, pur con qualche timido ripensamento, l’ideologia neo-liberista.
Ora, in un quadro del genere, dove i salari si riducono e i profitti restano comunque sempre consistenti, imporre alla gente di consumare, approfittando dei saldi, è offensivo e ridicolo.
Che fare allora? Tre possibilità.

Uno. Intervenire politicamente sulla ripartizione profitti-salari, con occhio attento anche alle rendite sociali (spesso frutto di speculazioni finanziarie e immobiliari). Tenendo però presente che in una situazione di crisi, come l’attuale, la “torta da dividere” tende comunque “oggettivamente” a divenire più piccola. Di qui perciò la necessità "sviluppista" di produrre di più, ma sempre in un quadro oligopolistico.
Due. Ridurre i consumi e ritmi produttivi puntando sulla modificazione del tenore di vita di tutti. E dunque utilizzando la crisi come volano di una decrescita economica generalizzata. Ma come convincere gli oligopolisti a cambiare strada ? Si tratta di un antico quesito: si può insegnare all'uomo ad essere libero, se ogni uomo a un'idea diversa della libertà? Certo, lo si può, favorendo la libertà formale. A che prezzo però? Quello di trascurare la libertà sostanziale...
Tre. Conciliare crescita produttiva dei beni collettivi (scuola, università, cultura sanità, trasporti, edilizia pubblica, energie alternative) e “decrescita” degli stili di vita consumistici. Ferma restando la necessità di introdurre una più equa ripartizione profitti-salari.
Naturalmente le tre soluzioni impongono maggiore attivismo governativo. O se si preferisce crescente interventismo pubblico. Con il rischio però, soprattutto nel caso di scelta "decrescista" (seconda e terza possibilità), di scatenare perverse dinamiche di tipo autoritario. Perché, per dirla brutalmente, il vero nodo della questione è nella difficoltà di introdurre la sobrietà individuale per legge collettiva. E principalmente di come persuadere gli oligopolisti a tornare sui propri passi.
Certo, in linea teorica, si può preparare il terreno puntando sull’auto-educazione e sull’auto-organizzazione sociale. Due forme di “azionismo sociale” che però richiedono tempi lunghi. E in modo particolare al cospetto di un’economia capitalistica, che dal punto di vista della temporalità sociale (per dirne solo una...), si regge in chiave programmatica e previsionale su rendiconti economici, finanziari e patrimoniali di tipo mensile, trimestrale, semestrale e annuale…
Di qui, anche per chi sia in buona fede, il rischio del leninismo: quello di affrettare i processi sociali ricorrendo soltanto all'uso della forza...

Carlo Gambescia 

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