venerdì 23 gennaio 2009

Alessandro Portelli, Obama 
e la logica delle istituzioni americane



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Quali sono i rapporti tra immaginario e politico? A questa relazione pensavamo ieri leggendo l’interessante articolo di Alessandro Portelli dedicato all’America di Obama, apparso sul Manifesto (http://alessandroportelli.blogspot.com/2009/01/obama-e-la-ri-fondazione-dellamerica.html ), nonché sul suo blog ( http://alessandroportelli.blogspot.com/2009/01/obama-e-la-ri-fondazione-dellamerica.html ) .
Diciamo subito che Portelli nel suo editoriale si muove da osservatore partecipante (nulla di male, per carità…), proprio all’interno di quella dicotomia, tutta americana, individuata molti anni fa, nella scia dei lavori di Lasch sulla sinistra Usa (vecchia e nuova), da Piero Bairati (Gli orfani della ragione. Illuminismo e nuova sinistra in America, Sansoni 1975), uno storico prematuramente scomparso negli anni Novanta. Un bel libro, ancora utile.
Portelli, infatti, sembra accettare come dato di fatto sociologico e storico la natura illuministica della politica statunitense. Dicotomia che consente tuttora agli attori della politica americana di dividersi, partendo dall’accettazione dei valori nati dalla Rivoluzione Americana (diritto alla vita, eguaglianza, ricerca della felicità), sulla volontà o meno delle istituzioni di realizzarli storicamente. Per farla breve: la logica politica americana sarebbe la logica stessa della modernità, basata sul contrasto tra la ragione come valore e la ragione come strumento. Ovviamente non siamo noi i primi dirlo...
Ora, una parte dello schieramento politico democratico, che per comodità definiamo vecchio-nuovo liberal, composto di timidi riformisti (e qui si pensi ai clintoniani, "sessantottini" pentiti o compiuti, dipende dai punti di vista...), ritiene che le istituzioni politiche americane, siano già aderenti, di per se stesse, ai valori rivoluzionari. E che abbiamo bisogno solo di qualche piccolissimo ritocco. Mentre un’altra parte, composta di nuovi liberal, fermi al messaggio libertario degli anni Sessanta (sempre più rari) ma anche di radical vecchi e nuovi, (ancora più rari, perché fuoriescono per certo "tasso di socialismo" nelle "vene", dallo stereotipo "diritti civili" pilotati dall'alto dei nuovi liberal), reputa le istituzioni politiche esistenti come negatrici dei valori rivoluzionari.
Si tratta di una dialettica interna alla sinistra, ma che nel riferimento al valori di fondo, scaturiti la Rivoluzione Americana, finisce per estendersi (e qui andiamo oltre Bairati) anche alla destra: ai repubblicani costituzionali e democratici (non estremisti e razzisti). I quali tuttavia interpretano tali valori in chiave più nazionalista che universalista. Ma questa è un’altra storia. Qui basti un accenno.
Riassumendo, diciamo che la lotta politica americana si divide in due filoni, quello illuministico-positivo (destra e sinistra moderata) e illuministico-negativo (nuova sinistra liberal e radical, correnti, a grandi linee, cui si sente vicino il Portelli, osservatore partecipante). Per i primi, pur con sfumature diverse gli Stati Uniti di oggi sono il migliore dei mondi possibili, per i secondi non lo sono affatto. Per i primi gli Stati Uniti (la promessa ideale racchiusa nella "Costituzione") e America (le "Istituzioni Reali") coincidono, per i secondi no.
Ora Portelli per un verso sviluppa le sue critiche agli Stati Uniti (non America) di Bush e anche di Clinton, sulla base della contraddizione (individuata dalla scuola illuministico-negativa) tra istituzioni e valori. Per l’altro però non riesce a ricondurre in modo convincente - o almeno così pare a noi - Obama all’interno della scuola illuministico-negativa. Se non puntando sull’importanza dello "spostamento" di immaginario politico, provocato dalla vittoria di Obama. Dando così per scontato che Obama rappresenti l’America (e non solo gli Stati Uniti). Ma quale America? Quella di certo immaginario "critico" americano … Si vedano gli accenni di Portelli a Woody Guthrie e Bruce Springsteen come ideali bardi dell’America di Obama: un' America che si dà idealmente la mano e che attraversa il Novecento per giungere, chiudendo il cerchio rivoluzionario della "promessa", fino a Lincoln e addirittura Washington... Ma anche l'appropriato riferimento di Portelli a Invisible Man di Ralph Eleison, un bel romanzo del 1952, dove però affiorava tutto il disperato disgusto di un giovane nero americano verso l’America delle istituzioni (gli Stati Uniti), capace solo di negare i valori (promessi). Oggi finalmente vendicato - così interpretiamo il pensiero di Portelli - dall’elezione del primo nero americano alla presidenza degli Stati Uniti. Il che è vero, ma solo in termini di immaginario politico.

Ora, considerato il carattere moderato del discorso obamiano di insediamento (del resto onestamente rilevato anche da Portelli), può bastare un cambiamento simbolico intravisto da alcuni intellettuali, magari presenti alla cerimonia, oppure i colti richiami letterari, per attribuire a Obama una forza rivoluzionaria, capace di vivificare le istituzioni secondo il "vero" spirito dei Padri Fondatori?
Crediamo di no . Il che dovrebbe far riflettere certa sinistra, così colta da sfiorare l'impoliticità, sul pericolo di attribuire un ruolo eccessivo all’immaginario nell’analisi della politica. O meglio del politico, per dirla con Carl Schmitt e Julien Freund. Ferma restando l’utilità di categorie storiche e concettuali come quelle individuate da Bairati. E non solo per studiare la realtà americana, ma per capire come tuttora la si continua a studiare.
Perché, in conclusione, crediamo Obama appartenga al filone illuministico-positivo. E che perciò, soprattutto per ragioni sistemiche, e dunque realistiche ( si veda qui:
http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2009/01/linsediamento-alla-casa-bianca-di.html ), sia tendenzialmente portato a privilegiare la logica delle istituzioni rispetto a quella dei valori.

Proprio come un Bill Clinton qualunque.
Carlo Gambescia 

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