martedì 20 gennaio 2009

L’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama. Un’analisi non celebrativa della democrazia Usa

L'ultimo imperatore




Oggi è il giorno di Barack Obama? Come uomo, può darsi. Ma è anche il giorno della democrazia Usa? No.
Spieghiamo le ragioni del nostro dissenso proponendo ai elettori un’analisi spettrale della democrazia americana. E sicuramente non celebrativa.

Una disamina particolarmente importante, qui in Italia, sorta di lontana provincia del neo-Impero statunitense… Dove si subito è attribuito un ruolo salvifico al nuovo presidente americano Barack Obama. Inchinandosi a quella teologia democratica di marca Usa, così cara alla stragrande maggioranza dei mass media mondiali. Di qui la necessità di fare il punto su una democrazia come quella americana, che invece nella sostanza lascia molto a desiderare.
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Un democrazia minoritaria
Durante le primarie e le presidenziali del 2008, culiminate con la vittoria di Barack Obama, sulla quale torneremo in sede di conclusioni, per i mass media sembra siano esistiti solo Barack Obama, John McCain, Joseph Biden e Sara Palin. Si è discusso di programmi e prospettive, soprattutto in politica estera. Si sono confrontati i meriti dei due candidati, le “capacità umane”, il colore della pelle, scendendo nei più minuti particolari delle vite private. Ma quasi mai si è sottolineato un fatto fondamentale: che i presidenti spesso sono votati da meno del 50 % degli aventi diritto. Di più: chi vince di solito deve accontentarsi di meno della metà dei voti espressi. Pertanto il presidente degli Stati Uniti finisce per rappresentare a mala pena un 25 % di quel 50 % che vota: grosso modo 50 milioni di elettori sui circa 100 che si recano a votare. Il nuovo presidente, perciò considerando l’area del non voto (almeno altri 100 milioni), è espressione di una minoranza: un quarto dei cittadini.
Qualche dato non guasta.
Innanzitutto va ribadito che storicamente la partecipazione elettorale degli americani è sempre stata molto bassa (intorno al 50 %). E di riflesso sono state altrettanto basse le percentuali di voto che hanno permesso l’elezione di alcuni presidenti. Ad esempio Lincoln fu eletto nel 1860 col 39,8%, Woodrow Wilson nel 1912 col 41%, Clinton nel 1992 con 43%. Inoltre, benché negli ultimi quindici anni gli indici di partecipazione abbiano raggiunto livelli stabilmente bassi con una graduale ripresa in occasione delle elezioni presidenziali del 2004-2008 (1988: 50,11%; 1992: 55,09; 1996: 49,08; 2000: 51,31; 2004: 55,69; 2008: 61,6 stimato ), va ricordato che già nel 1924 i votanti scesero al 49%. Non migliore è la situazione nelle elezioni congressuali e di midterm (di metà mandato presidenziale) che “attirano” di media meno del 40% degli elettori. Nel 1998, in piena bufera Clinton-Lewinski votò il 36 %, la percentuale più bassa dal 1942. (In argomento si veda l’onesta esposizione storica di B. Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei 1865-2002, Giunti 2002, con ricca bibliografia; nonché per i dati statistici qui riportati: http://en.wikipedia.org/wiki/United_States_presidential_election ; con ampia e buona sitografia).
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La forza del dollaro
All’inizio degli anni Novanta E. J. Dionne in Why Americans Hate Politics (Simon and Schuster, New York 1991) ricondusse l’assenteismo elettorale all’incapacità dei politici di capire i veri problemi della gente. Secondo Dionne, progressisti e conservatori invece di proporre politiche concrete preferiscono lanciarsi in fumosi dibattiti ideologici: i primi difendono il dio-individuo, i secondi il dio-mercato, trascurando entrambi l’uomo (americano) così com’è.
In realtà questa è solo una parte della storia. Dionne ignora la struttura fortemente oligarchica del potere in America: dai partiti alle grandi imprese. Che non incoraggia il voto (a cominciare dalle procedure di registrazione dell’elettore…), ma favorisce la disuguaglianza sociale, educativa e il quietismo: se sei in fondo alla scala, evidentemente lo meriti, così ammonisce l’ideologia americana. E stando alle statistiche, chi non vota appartiene proprio alle fasce più povere: quelle dei perdenti, di coloro che non hanno fatto strada nella vita, soprattutto perché privi di titoli di studio.
Del resto la distribuzione sociale della partecipazione elettorale americana riflette la scala dei redditi, e in particolare l’istruzione: più si è in alto, perché istruiti, più si va a votare. Il 92% per cento di coloro che hanno un’istruzione universitaria vota. Mentre non vota il 90 % di coloro che hanno appena un’istruzione elementare. Secondo alcune statistiche, gli alti livelli di analfabetismo e la scarsa capacità di comprendere comunicazioni scritte (problemi che riguardano quasi la metà della popolazione adulta) impedirebbe addirittura a molti cittadini di registrarsi e votare ( si veda Cartosio, op. cit., pp. 173-179 ).
Si tratta di un meccanismo infernale: più aumentano povertà e deprivazione intellettuale, meno la gente va a votare (perché non capisce, perché l’istruzione costa, perché è rassegnata, perché è abituata a ubbidire), e più cresce il potere, privo di mandato democratico, già nelle mani, per naturale inerzia sociale, delle ricche classi dominanti e, per osmosi, del complesso militare-industriale. Un settore che include anche l’ industria delle comunicazioni, quella petrolifera ed elettronica.
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L'Eldorado liberista
Ma entriamo nel merito della “questione sociale americana”. E’ di moda in Europa e in Italia celebrare il modello sociale Usa. Che, si dice, sia dalla parte dei meritevoli. Vediamo allora come funziona.
Chi incensa il modello americano dovrebbe riflettere su due fatti. Il primo, è che negli Stati Uniti la mobilità geografica è due volte maggiore di quella europea. Il secondo, è che il tasso americano di concentrazione dei redditi è molto più alto del nostro, che non è sicuramente basso): negli Usa, in media, il 20 % più ricco della popolazione assorbe il 60 % del reddito nazionale, mentre in Europa si è intorno al 35-40 % ( si veda per ulteriori approfondimenti www.census.gov/hhes/www/poverty.html - http://www.europa.eu.int/comm/eurostat - www.worldbank.org/data/ ) .
Il che significa che nell’Eldorado liberista si perde lavoro molto spesso e, di conseguenza, si perde o si cambia anche l’abitazione... Perché per trovarne un altro, molti sono costretti a trasferirsi da un lato all’altro degli States: la mobilità territoriale del lavoratore è dunque elevatissima. Ma l’essere disposti a spostarsi non basta. Per quale motivo? Perché, dal momento che la ricchezza è molto concentrata, le possibilità di ascesa sociale ai piani più elevati, nonostante la grande mobilità geo-economica del lavoratore, sono piuttosto ridotte. Altro che meritocrazia… E tutto ciò genera sradicamento, insicurezza e povertà. Certo, la retorica ufficiale celebra l’individuo e le sue opportunità d successo. Un traguardo che in termini di grandi numeri (come alla lotteria), è possibile ma poco probabile, soprattutto per coloro che non hanno mezzi, relazioni o doti eccezionali.
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Dove i poveri non hanno scampo
Gli Stati Uniti sono un ottimo esempio di come funzioni, in assenza di controlli sociali, l’anima darwinista del capitalismo. In primis la selezione finisce per premiare i più forti e non i migliori: vince chi è più dotato di risorse familiari, relazionali, istruzione e spietatezza negli affari; doti (in particolare le prime tre) che appartengono a chi è già in alto nella scala sociale. Di qui lo sviluppo di un nucleo ridotto di attori sociali (i grandi oligopoli), di un lavoro poco sindacalizzato e molto flessibile, e di una politica completamente sottomessa ai gruppi di pressione economici.
Per farla breve, la selezione-razionalizzazione capitalistica americana implica alti profitti, bassi salari e assenza di mediazioni pubbliche. Quindi nessuna forma di assistenza sociale e pensionistica, obbligatoria e pubblica: chi cade (e spesso si tratta di individui già in basso nella scala), difficilmente riesce a rialzarsi, mentre chi è già in alto procede nella sua corsa, come se nulla fosse. Esistono forme di assistenza caritativa dovute soprattutto alle Chiese e alla buona volontà dei singoli stati, ma chi vi aderisce viene subito inquadrato (e a vita) nella categoria dei falliti sociali. In buona sostanza chiunque sia povero e malato non ha scampo.
Insomma, si tratta di un modello sociale per ricchi, o al massimo per coloro, che hanno doti per diventarlo: il sistema ignora sistematicamente le diseguali condizioni di partenza degli individui, finendo così per privilegiare chi è già ricco. Il quale, di conseguenza, lo diviene sempre di più. Se nel 1979 il 5 % della famiglie americane più ricche guadagnava 10 volte di più del 20 % di quelle più povere, oggi la proporzione è salita a 25 a 1. Il titolare di una corporation nel 1980 guadagnava (mediamente) 42 volte il salario di un suo operaio, oggi guadagna mille volte in più... Bill Gates e soci Microsoft (il volto “umano” e moderno del capitalismo Usa) hanno un reddito pari al Pil del Pakistan: la famiglia Walton (Wal-Mart), pari a quello dell’Egitto e così via… ( si veda per approfondire http://www.ilo.org/ e www.forbes.com/people ).
Il sistema americano produce diseguaglianza a velocità esponenziale. E la sua crescita economica, tuttora magnificata in Europa, è dovuta per verso a un ingiusto modello sociale, e per l'altro alla posizione egemonica degli Usa nella politica mondiale, in particolare dopo il 1989-1991. Un'egemonia che alimenta il complesso militare-industriale. E che, a sua volta, ne è alimentata...
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La vittoria di Obama come vittoria della "pubblipolitica"
Per chi si accontenta della forma (un nero alla Casa Bianca) e di alcune vaghe promesse ( come quella di alzare le tasse sui ceti abbienti) la vittoria di Barack Obama è una svolta. Ma si tratta di una vera svolta? Come abbiamo visto, dal punto di vista elettorale, pur avendo ancora dati stimati sull’affluenza, sembra abbia votato il 60 per cento degli aventi diritto. Di conseguenza Obama resta il presidente di poco più di una minoranza di elettori ( ovviamente le stesse considerazione sarebbero valse anche se avesse vinto McCain).
Ecco - come del resto abbiamo già notato - il vero problema della “democrazia americana”, è quello di come dare voce legittima a quei due quarti, grosso modo, di cittadini che non votano né per i democratici né per i repubblicani. E potrà riuscirvi un presidente che ha raccolto il favore elettorale della solita minoranza "civilizzata" di votanti? E che pur essendo nero non proviene socialmente dal "popolo nero"? Dal momento che Barack Obama, per mentalità e curriculum, è un raffinato prodotto di quella borghesia di colore, che passa per Harvard, Columbia (come il neopresidente) e altre prestigiose università. Una borghesiafieri di avercela fatta, per alcuni sprezzante, ma da sempre dominata dall' ansia di prestazione nei riguardi dei bianchi. E che è malvisti - proprio per la sudditanza ai valori wasp (white, anglo-saxon protestant) - dai neri poveri, che sono più della metà di tutti i poveri negli Stati Uniti, e con altrettanto sospetto dagli altri gruppi etnici, al di là di un labile consenso elettorale frutto di astute manovre mediatiche.
Parliamo, insomma, di un presidente sostanzialmente privo di qualsiasi reale legittimità elettorale e sociale. Un discorso, ripetiamo, che in caso di vittoria sarebbe valso anche per McCain. Dal momento che entrambi i candidati “pescavano” - cinque per cento in più o in meno - nella stessa ristretta pozzanghera elettorale.
Il problema della democrazia americana è strutturale e riguarda l'assenza di una qualsiasi forma di legittimazione popolare. Il governo concerne un ristrettissimo gruppo di potere economico e militare (si pensi, a suo tempo, alla scelta pro-Obama del generale Powell, ritiratosi ma sempre potente), che di volta in volta coopta i prescelti su basi fiduciarie. E questa volta è stato il turno di Obama. Poi "venduto" elettoralmente dai superpagati maghi della pubblipolitica a una minoranza di votanti (per alcuni gonzi), cronicamente "affamati" di telenovelas elettorali, come l' eroe senza macchia e senza paura. Chi si contenta gode. Perciò non crediamo in alcuna svolta. Anche perché proprio l’enorme quantità di finanziamenti elettorali di cui ha goduto Barack Obama - che sembra non abbia eguali - non depone a favore di una presidenza al di sopra delle parti.
O se si preferisce di un "Government of the People, by the People, for the People".

Gli Usa e la lezione di Roma antica
Perciò quando si parla di esportare in Europa e in Italia il modello sociale Usa, va subito chiarito che si tratta di una società fortemente gerarchizzata, con circa 50 milioni di poveri e poche decine di migliaia di ricchissimi che tengono in pugno l’economia, non solo americana. E dove insicurezza e sradicamento producono criminalità divorzi, patologie mentali, con tassi doppi rispetto a quelli europei: un americano su due assume regolarmente psicofarmaci, e uno su tre ha avuto problemi di alcolismo ( per un quadro generale di veda http://www.who.int/ ). Il vero problema non è come imitare gli Usa, ma come tenersi alla larga da un sistema segnato più che da errori, da orrori sociali.
Altra questione fondamentale: fin quando l’America dei ricchi terrà sotto tutela quella dei non rappresentati? E’ difficile rispondere. Le oligarchie si dissolvono per consunzione morale. Barbari e proletariato interno, per dirla con Toynbee, di solito si limitano a infliggere il colpo di grazia. Finora i gruppi economici e sociali che contano si sono mostrati favorevoli al mantenimento del ruolo di predominio planetario dell’America. E il nuovo presidente Barack Obama si guarderà bene dallo scontentarli. In che modo? Puntando, come i suoi predecessori, sullo sviluppo economico e sulla sicurezza interna ed esterna; una vera manna per il complesso militare-industriale. E in tal senso è abbastanza significativa la nomina alla Segreteria di Stato di Hillary Clinton, nota, come del resto il marito Bill, per l’ interventismo militar-democratico… E la cooptazione nel quadri del governo di numerosi clintoniani, noti per il moderatismo.
Pertanto, per avanzare qualche timida previsione, i “barbari” dell’Islam fondamentalista continueranno a essere duramente contrastati. Mentre i “proletari” interni persisteranno nel rifiuto dell’arma del voto ma anche della rivolta…

Come concludere allora? Alcuni storici ritengono che l’impegno neo-imperiale possa acuire la già seria crisi economica Usa. Altri invece continuano a immaginare l’America come una nuova Roma capace di consolidarsi all’interno grazie alle conquiste esterne. Tutto è possibile. Anche perché se gli Stati Uniti ricordano Roma nell’età delle guerre puniche, i suoi nemici, russi compresi, per ora mostrano di non avere la stessa levatura militare dei Cartaginesi. Ma questa è un'altra storia.

Carlo Gambescia

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