Un modesto consiglio a chi abbia voglia di immergersi nella lettura della legge di bilancio (*): nulla di nuovo, non c’è spallata.
Non si trova un’idea capace di provare la diversità del governo Meloni, dichiaratamente di destra, rispetto ai precedenti governi, alcuni emergenziali, altri di centrosinistra. Insomma, la solita legge di bilancio.
È bene essere chiari ( tanto, nemico più, nemico meno): il vero problema non è quello di estendere i limiti per l’uso del POS a sessanta euro o a cinquemila euro per l’impiego del contante (art. 69). Oppure di cambiare il nome alla tassa sugli extraprofitti in contributo di solidarietà (art. 28). O ancora di azzerare le pendenze con il fisco sotto i mille euro (tutto il Titolo III, artt. 22-48).
Il vero problema, come abbiamo sempre scritto, è di mentalità: mentalità “statalista”. Il governo Meloni, come i precedenti, anche se “eletto dal popolo” come si proclama ai quattro venti, di libero mercato e di libertà economica proprio non ne vuole sapere. Non è un governo liberale. E spieghiamo perché.
Per la semplice ragione che resta imprigionato all’interno di un logica di scambio sociale di tipo welfarista: un taglio qui, un incremento lì, e così via, secondo la solita logica redistributiva da governo Prodi, come a proposito del taglio del cuneo fiscale: robaccia socialdemocratica. Si può parlare del solito trade off, per usare il liguaggio di coloro che hanno studiato alla London School of Economics. In realtà, un mercato delle vacche sociali, se ci si perdona la caduta di stile, che rinvia all’ operato di un onnivoro stato liberalsocialista o socialdemocratico, intoccabile nel suo impianto, ma saccheggiato di volta in volta da governi di predoni politici di destra e di sinistra a caccia di consensi.
Solo qualche spunto.
Si noti subito l’ occhiuto atteggiamento del governo Meloni verso le criptovalute (artt. 30-36), giudicate, non come una normale forma di investimento, che andrebbe lasciata crescere liberamente, anche con morti e feriti come il primo capitalismo, e non giudicata invece come una specie di cavallo di troia della peggiore speculazione secondo la raffinata visione della scuola socialista e fascista.
Solo per dire un’altra: la legge di bilancio va a colpire perfino i compratori sulle piattaforme digitali (art. 26). Si vuole sapere tutto, anche a costo stroncare una nuova forma di libero mercato.
Si dice che si deve lasciare “governare il governo”. Certo. Ma questa legge di bilancio comprova le peggiori previsioni sulla sua natura statalista. Ripetiamo: identica a quella dei governi precedenti. Per capirsi: novità zero. Poco importa che i predoni siano di destra o di sinistra. Il punto è che non sono liberali.
Un ultimo fondamentale esempio: il lettore non si faccia ingannare dalle chiacchiere, tradotte in articoli di legge, sulla flat tax (art. 13). Siamo davanti a una modestissima rimodulazione fiscale alla luce – si faccia attenzione – del principio di progressività. Principio ormai sancito dalle costituzioni welfariste, inclusa quella italiana all’ art. 53. Che più o meno recita così: ciò che i cittadini sono tenuti a versare deve essere proporzionale all’ aumentare delle loro possibilità economiche, ossia della base imponibile.
Detto altrimenti, il tributo cresce con il crescere del reddito. Principio che andrebbe invece radicalmente soppresso, tornando al principio di proporzionalità, che prevede che il tributo dovuto dal cittadino resti costante e non muti, qualunque sia la base imponibile.
Ecco l’ autentica rivoluzione. Ecco ciò che può provare la natura liberale di un governo.
Il vero veleno del principio di progressività è nel suo agganciamento alla spesa pubblica. Scelta sulla quale, a parte gli ultimi moicani liberali della scienza delle finanze, si preferisce tacere. Insomma, il re è nudo, ma non si deve dire.
Il veleno è nel fatto che più aumenta la spesa pubblica, più la progressività sociale dei tributi si estende.
Qui la vera funzione distruttiva di ogni attività economica della progressività: il dato è psicologico. Più ci impegna nel migliorare le proprie condizioni, più si viene spinti, da un fisco onnivoro, a lavorare meno. Perché impegnarsi se poi si viene derubati dal fisco?
Guai però a denunciare questa situazione. Mai turbare il sonno del contribuente che continua a credere di godere di servizi gratuiti, che invece paga profumatamente. Spesso due volte, pagando il professionista privato, perché i servizi pubblici sono inaffidabili e malfunzionanti.
Invece il ritorno al principio di proporzionalità andrebbe a recidere il cancro spesa pubblica alla radice.
Dal momento che in assenza di entrate crescenti dovute al principio di progressività, i governi “spenderecci”, per dirla con un grande economista liberale dell’Ottocento, ci penserebbero bene a spendere e spandere.
Apriamo un inciso. Sotto questo aspetto, anche le imposte indirette sono da preferire alle dirette. Però a una precisa condizione: non devono anticipare né posticipare la legge della domanda e dell’offerta di beni, ma assecondarla. Insomma, non come avviene per l’ Iva, tributo indiretto e proporzionale per eccellenza, sottoposto invece a frequenti ritocchi, per alcuni terroristici. “Rimodulazioni” che, di fatto, hanno tramutato l’Iva in tributo di tipo progressivo. Se ci si passa l’espressione: una presa in giro del contribuente. Chiuso inciso.
Già vediamo l’economista e il politico, welfaristi fino alla cima dei capelli a prescindere dal colore politico, scuotere la testa, classificandoci tra i pazzi furiosi: “Come? Il principio di progressività? È un principio di giustizia sociale redistributiva guai a toccarlo! Chi è contro questo principio è dalla parte dei ricchi! ”.
Atteggiamento questo, condiviso dai governi di destra e di sinistra, che spiega perfettamente per quale ragione Giorgia Meloni, in perfetta linea con i precedenti governi, parli impunemente di una legge di bilancio “ in favore dei poveri”.
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://www.ansa.it/documents/1669740961467_LEGGE.pdf –