Sul rapporto tra sinistra e ceti medi ne
abbiamo lette di tutti i colori. Crediamo però che l'analisi dell'amico Teodoro
Klitsche de la Grange colga nel segno e aiuti a capire le ragioni della profonda crisi politica
che tuttora tormenta eredi e orfani del Pci.
Buona lettura. (C.G.)
La sinistra e i ceti
medi,
da Berlinguer a Prodi
di Teodoro Klitsche
de la Grange
Da alcuni anni (meglio sarebbe dire decenni)
la propaganda del centrosinistra, tutta imperniata su Berlusconi come
Male/Nemico assoluto, e indicato tale perché è un… satiro, diseducatore e così
via, mi fa venir in mente un famoso articolo di Enrico Berlinguer, esemplare di
un pensiero realmente politico (e di sinistra).
Scriveva il segretario del Pci subito dopo il golpe di Pinochet in Cile che
“tra proletariato e la grande borghesia – le due classi antagoniste
fondamentali nel regime capitalistico – si è infatti creata, nelle città e
nelle campagne, una rete di categorie e di strati intermedi, che spesso si
sogliono considerare nel loro complesso e chiamare genericamente «ceto medio»”.
E prendeva atto che, pur essendosi formata in Italia una consistente e combattiva
classe operaia, questa era tuttavia “una minoranza della popolazione del nostro
paese e della stessa popolazione lavoratrice”. Citando altri elaborati del Pci
Berlinguer rilevava che “per gruppi decisivi di ceto medio il passaggio a nuovi
rapporti di tipo socialista o socialisti non avverrà che sulla base del loro
vantaggio economico e del libero consenso, e che in una società democratica che
si sviluppi verso il socialismo sarà garantita la loro attività economica” ne
consegue che “la strategia delle riforme può dunque affermarsi e avanzare solo
se essa è sorretta da una strategia di alleanze. Anzi, noi abbiamo sottolineato
che, nel rapporto tra riforme e alleanze, queste sono la condizione decisiva
perché, se si restringono le alleanze della classe operaia e si estende la base
sociale dei gruppi dominanti, prima o poi la realizzazione stessa delle riforme
viene meno e tutta la situazione politica va indietro, fino anche a
rovesciarsi” e “Naturalmente, la politica delle alleanze ha il suo punto di partenza
nella ricerca di una convergenza tra gli interessi economici immediati e di
prospettiva della classe operaia e quelli di altri gruppi e forze sociali”. Ne
consegue che, in una società così stratificata l’azione politica non sia
effettuata “in modo da sospingere in posizione di ostilità vasti strati di ceti
intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande
maggioranza della popolazione… Questo è certamente uno dei problemi vitali che
ha dinnanzi a sé un governo di forze lavoratrici e popolari”. Seguiva la famosa
proposta del “compromesso storico” e il rifiuto dell’alternativa di sinistra
“la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel
popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate,
conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che
sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della
sopravvivenza dello Stato democratico… Ecco perché noi parliamo non di una
«alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica»”. In altri
termini il rifiuto del bipolarismo/bipartitismo e la scelta per la grande
coalizione con i cattolici (oltre ai socialisti).
Si dirà che la prospettiva di Berlinguer è datata, perché in larga parte dovuta
a condizioni storiche distanti anni-luce dalle attuali (in primo luogo per il
crollo del comunismo). Tuttavia c’è un nucleo d’intuizioni che regge al decorso
del tempo e tuttora appare utile per indirizzare una politica di sinistra che
non si riduca alle querule denuncie delle satiriasi di Berlusconi.
È quello che fa derivare l’azione politica dall’articolazione sociale, che
indica nei ceti medi l’alleato preferenziale e nel tener conto degli interessi
dei medesimi nell’attuare politiche che non siano, per vocazione, minoritarie.
A valutare sulla base di queste considerazioni – in cui, accanto a Gramsci c’è
molto Bernstein, come nella tradizione socialdemocratica del XX secolo – la
politica del centrosinistra nell’ultimo quindicennio se ne vede chiara la
distanza (e l’errore) abissale.
Se infatti c’è stata una costante della politica dei governi di centrosinistra
– sia quelli “mascherati” (Ciampi e Dini) che in quelli manifesti (Prodi,
D’Alema e Amato) – è di non tener conto degli interessi dei ceti medi – neanche
di quelli “produttivi” (la distinzione è ovviamente, labile), e anzi
d’irritarli.
Lo prova in primo luogo la politica fiscale: che non colpisce i redditi elevati
ed elevatissimi (difficili oltretutto da colpire in mercati “aperti”), ma
quelli delle classi intermedie. Ma non è il solo esempio: oltre alle
privatizzazioni, spesso risoltesi nel passaggio d’imprese dalla mano pubblica a
grandi capitalisti privati, c’è – soprattutto – la pervasiva presenza di
un’amministrazione di scarsa efficienza (il cui costo pesa su tutti e quindi
sul ceto medio) e, più ancora, funzionale, più che alla resa di servizi –
spesso mediocri – a un occhiuto controllo politico-sociale; per finire con una
giurisdizione che a detta dello stesso Procuratore generale della Cassazione,
ha un’efficienza più o meno pari a quella del Sao Tomé, e che, anch’essa,
abbassa l’efficienza e l’appetibilità per gli investimenti esteri del sistema –
Italia.
In queste condizioni la pretesa di ottenere un consenso maggioritario si
allontana per la sinistra: i tre milioni di voti persi nel 2008, grazie al
disastroso secondo governo Prodi, che riuscì perfino ad irritare i ceti medi
facendo cose condivisibili (come una larga percentuale delle “lenzuolate”
Bersani), ne è la prova.
Onde credere di scalfire il consenso a Berlusconi, basantesi (anche e
soprattutto) sul blocco sociale imperniato sul ceto medio, sperando in un
improbabile soprassalto moralistico (da beghine) è a metà tra l’irreale e
l’umoristico. E da la misura della decadenza di una sinistra vieppiù incapace
di coniugare analisi teorica ed azione politica. Quello che da Gramsci a
Berlinguer aveva sempre saputo fare.
Teodoro Klitsche de la Grange
Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).
Nessun commento:
Posta un commento