Immigrazione.
La cultura dell’ et-et
La crisi sociale del Nord Africa e gli
sbarchi di Lampedusa, sull'onda dell'allarmismo mediatico, rendono ancora più
infuocato il dibattito sull'immigrazione. Cerchiamo di fare il punto.
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I dati
In base a dati Istat, non freschissimi
(2009) ma più che sufficienti per farsi un’idea, al primo gennaio 2008 gli
immigrati hanno superato la soglia dei quattro milioni (4.328mila, di cui sono
3.677mila regolari), 346mila in più rispetto al 2007. Nel 2030, secondo studi
condotti da alcuni centri di analisi e ricerca (ad esempio Fondazione
Migrantes), presumibilmente - e per alcuni quanto stiamo per dire equivale a un
“uppercut”- gli immigrati presenti in Italia saranno circa 8 milioni, con un
aumento del 137% sul 2008. Il Nord-Ovest accrescerebbe i propri residenti
stranieri del 154%, il Nord-Est del 152%, il Centro del 128% e il Mezzogiorno
del 75%. Se oggi ci sono in media 6 stranieri ogni 100 italiani, nel 2030 ce ne
saranno 14,9 (nel Settentrione il rapporto salirebbe a 22, mentre nel
Mezzogiorno a 3,8). Passando all’analisi delle fasce d’età, nel 2030 nel Nord
avremmo uno straniero ogni tre italiani sia tra i minorenni che tra i giovani
adulti (18-34enni), mentre tra i 35-44enni si ipotizza un rapporto di quattro a
dieci.
Attualmente gli immigrati dell’Est Europa rappresentano il 43% degli stranieri
residenti in Italia. Il primato di presenze va alla Romania che al 1° gennaio
2008 conta 625mila unità (l’87,% in più rispetto al 2007). Segue l’Albania con
402mila presenze. Al terzo posto il Marocco con 366mila immigrati. Registrano
elevati tassi di crescita anche la
Polonia (+34%), la
Moldova (+23,2%) e l’Ucraina (+10%), cui si affiancano il
Bangladesh (+19,6%) e l’India (+11,6%). Non è detto però che l’Est Europa sia
destinata a svolgere un ruolo di “primo” serbatoio dei flussi migratori. Si
prevede infatti che Serbia, Montenegro, Polonia, Ucraina e Romania per il 2030
avranno una sostanziale stabilizzazione (assieme alla Cina) dei flussi. Le
nazionalità destinate a crescere in modo esponenziale sono quelle
latinoamericane (Ecuador e Perù), asiatiche (Filippine, Bangladesh, Pakistan,
India) e africane (Senegal, Nigeria ed Egitto).
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Le due culture
Questi i dati nudi e crudi. Perciò non si
può far finta di nulla. Il vero problema è che l’Italia della politica non
sembra pronta culturalmente. In sostanza, finora, hanno avuto la meglio due
culture contrapposte: quella della “porta aperta a tutti” cara alla sinistra e
alle gerarchie cattoliche e quella del “ padroni in casa nostra”, privilegiata
da certa destra, non solo leghista. Un vicolo cieco.La cultura della “porta
aperta a tutti” dà per scontato l’inserimento del migrante nel nuovo contesto
socioculturale, grazie al conseguimento di un lavoro, all’affitto di una casa,
alla cittadinanza. Si tratta di un approccio universalistico, che considera
ininfluenti le differenze socioculturali. O comunque superabili nel tempo,
grazie all’utilitaristica adesione da parte del migrante, divenuto
“immigrato-cittadino”, alle istituzioni di adozione, attraverso la creazione di
un’area franca di “fedeltà repubblicana”.
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"Padroni in casa nostra"?
La cultura del “padroni in casa nostra”, dà
invece per scontato che il migrante sia presuntivamente pericoloso. Si pensi,
ad esempio alle dichiarazioni di un Borghezio. Di qui l’impossibilità di
inserire il migrante, in quanto “cellula” potenzialmente “patogena” all’interno
di un tessuto “sano”. Siamo davanti a un approccio particolaristico che
considera determinanti le differenze socioculturali, forse troppo. Tuttavia, i
migranti, pur essendo considerati pericolosi vengono classificati, a livello
governativo, come appartenenti a nazionalità con “potenziali” criminogeni
diversi. E così il filippino sarà sempre più “addomesticabile” del rumeno.
Insomma, il particolarismo implica una specie di razzismo differenzialista:
prima gli italiani, poi i filippini, eccetera…
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Nomadi e sedentari
Nomadi e sedentari
Come uscire dal vicolo cieco dell’aut-aut
del “tutti dentro o tutti fuori”? Puntando sull’ approccio socioculturale.
Tradotto: va preso in considerazione il “brodo” di cultura e relazioni in cui
vive il migrante. Quando arriva in Italia, di regola, il migrante si trova già
inserito in un circuito socioculturale di connazionali: persone con cui divide
valori, desideri, ma anche bisogni e paure. Sono in genere strutture claniche,
parentali, familiari, che spesso vanno a intersecarsi con le strutture illegali
che gestiscono l’immigrazione, in patria e all’estero, indirizzandola verso
specifici settori: dalla prostituzione allo spaccio di droghe, ma anche
all’accattonaggio e al lavoro nero. Pertanto il migrante viene subito cooptato
all’interno di tali strutture, che talvolta, per i paesi extraeuropei, godono
anche di appoggi consolari. Spesso perché il migrante deve ripagare il
“viaggio” o perché gli è più facile “relazionarsi” socialmente con i suoi
“simili”, coi quali divide un vischioso ma confortante “brodo” socioculturale,
imbevuto di tradizioni, bisogni, ricatti e sentimenti. In genere 2 migranti su
3 tendono a restare immersi nel “loro brodo”, o perché vogliono ritornare
presto nel paese di origine, o trasferirsi, più avanti, in una nazione terza.
Ecco perché è corretto definirli migranti e non immigrati. Da ciò discende la
difficoltà istituzionale di stabilire un “contatto”. Siamo davanti all’antico
problema del complesso rapporto tra culture nomadi ( o semimobili), quelle dei
migranti, e culture sedentarie ( o stabili), quelle dei paesi “riceventi”, E le
culture (stabili o mobili che siano) non possono mai essere troncate con un
secco colpo di spada.
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Le ambiguità del mercato
Da ultimo va ricordato che il mercato
capitalistico per un verso non facilita l’integrazione culturale del migrante,
spesso ridotto a puro fattore lavoro, mentre per l’altro, favorisce le
migrazioni imponendo, quando occorre, al lavoratore-migrante di trasferirsi
seguendo le fluttuanti necessità del ciclo economico. Insomma, il mercato capitalistico,
proprio perché basato su valori materiali, non può contrastare “spiritualmente”
i suoi effetti economici di ricaduta sul “brodo” socioculturale cui abbiano
accennato.In questo senso la cultura della “porta aperta” può favorire, in un
clima già alterato dagli inesorabili meccanismi utilitaristici del mercato, la
riproduzione, per reazione protettiva, di vischiosi e pericolosi legami
comunitari. In che modo? Facilitando sia la nascita e lo sviluppo di una
criminalità etnica (una specie di “contro-stato”) , sia la violenta reazione
identitaria e religiosa (una specie di contro-chiesa, si pensi ai diversi
fondamentalismi…) dei migranti solo formalmente “nazionalizzati”. Come nel caso
esemplare degli “immigrati citoyens” delle periferie-ghetto francesi.
Per contro, la politica del “padroni in casa nostra” con il pendant della
poliziesca “tolleranza zero”, può limitarsi soltanto a reprimere. Rischiando
così di giocare a livello istituzionale il ruolo di “Guardia Bianca” del
capitalismo. Con l’ulteriore pericolo di favorire la crescita del razzismo
diffuso, dal momento che si indica un nemico: il migrante. Ma anche di
innescare possibili contro-risposte identitarie, persino da parte delle
comunità più stabili di non recente immigrazione.
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La cultura dell'et-et
La cultura dell'et-et
Concludendo, che fare?
Barricarsi dentro o aprire a tutti? O puntare su una terza via, all’insegna
dell’ et-et, fatta di strutture flessibili, giuridiche e sociali, ancora da
inventare. Capaci di separare, ma non troppo, il migrante dal suo “brodo” e al
tempo stesso di regolamentare gli accessi senza però infierire.
Tutto qui. Purtroppo riconosciamo, almeno per ora, di non avere risposte
pronte.
Carlo Gambescia
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