Il libro della settimana. Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulle rendite, Mondadori, Milano 2006, pp. 135, Euro 16,00 .
http://www.ibs.it/code/9788804557227/alvi-geminello/una-repubblica-fondata.html |
La parola rendita non ha perso forza evocatrice. Certo,
risale agli economisti classici della prima metà dell’ Ottocento, che la
usavano per additare i guadagni più o meno leciti dei proprietari terrieri. Se
la si pronuncia oggi fa subito pensare ai film anni Settanta dei fratelli
Taviani, di Vancini e Lorenzini sul Risorgimento tradito. E davanti agli occhi,
subito scorrono i volti arcigni dei latifondisti e quelli smarriti dei soldati
costretti a far fuoco su bianche folle di eroici contadini inermi. Immagini
accompagnate dal suono assordante dei tamburelli di una Taranta: un ritmo
ripetitivo e travolgente, che nel buio del cinema, rimbomba nelle orecchie
dello spettatore. Ah! “Quanto è bello lu murire acciso”…
Chissà se Geminello Alvi aveva in mente le stesse infuocate colonne sonore,
mentre scriveva Una Repubblica fondata sulle Rendite, Mondadori ,
Milano 2006, pp. 135, euro 16)… Probabilmente sì. Perché il suo libro - un bel
saggio di economia con tanto di dotte tabelle - man mano che lo si legge,
risuscita potentemente nel lettore, la stessa voglia di “murire acciso” per una
giusta causa. Funziona insomma come uno di quei film. Evoca, istruisce e
risveglia. Anche i nemici.
Con una differenza di fondo però. Secondo Alvi, oggi, i signori delle rendite non sono più i proprietari terrieri ma coloro che fruiscono di “interessi sui titoli di stato, gli affitti degli immobili, e le pensioni” (p.10) . Il che può a prima vista lasciare perplessi… Passi per il bot-people, quasi estinto, e per gli chi lucra sugli affitti, ma perché includere i pensionati che non sempre navigano nell’oro…
Ma riassumiamo per concetti il libro di Alvi, sorvolando sugli impegnativi elenchi di cifre.
Secondo l’ autore negli ultimi trentacinque anni in Italia il peso della quota di reddito spettante ai lavoratori dipendenti si sarebbe ridotta di circa un dieci per cento. Per contro sarebbe cresciuto di un importo più o meno pari quella delle rendite e dei profitti. E questo nonostante che il rapporto tra lavoratori dipendenti e indipendenti sia addirittura cresciuto a favore dei dipendenti. Si dirà, ma come può sopravvivere un’Italia senza il reddito prodotto dai lavoratori dipendenti? E soprattutto come fanno questi ultimi a vivere, visto che sono diventati addirittura di più? Grazie alle rendite.
E qui il discorso di Alvi si fa più sottile. L’Italia riesce a tirare avanti perché la sua ricchezza si è “patrimonializzata”. Le famiglie sono diventate più ricche, in particolare negli ultimi quindici anni: si possiedono più immobili e titoli azionari. E soprattutto, c’è sempre, anche se ridotta, la pensione percepita da uno dei membri della famiglia.
E qui è giusto ascoltare l’autore: “ Ci sono sì in Italia, 13 milioni e mezzo circa di salariati nel settore privato la cui parte di prodotto cala e i cui redditi unitari pure. Vanno però ricompresi nel totale di 23 milioni di famiglie italiane che seguitano a incassare soprappiù di affitti, interessi, pensioni, stipendi statali. In Italia il criterio sociale per distinguere e capire, non è la classe ma la famiglia. E il problema è dunque valutare il flusso che continua, di rendite, posticini da professoressa o ai ministeri” (p. 26).
Certo, statali e professori qui insorgeranno, dal momento che stipendio e soddisfazioni lasciano a desiderare. Come i possessori di case vessati da Ici e altre tasse locali. Così pure i titolari di bot, sempre meno redditizi, come ammette lo stesso autore. E non hanno torto. Ma neanche Alvi lo ha. E quel che è rimarchevole della sua analisi è il dato macroeconomico: scende il lavoro produttivo, sale quello improduttivo, appesantito da rendite erogate a pensionati ancora cinquantenni ( circa cinque milioni di pensionati su sedici ). Ogni lavoratore mantiene quasi un pensionato e mezzo. E la forbice è destinata a crescere a danno dei lavoratori.
L’Italia, insomma, pur restando in qualche modo a galla, rischia di non crescere più e soprattutto di favorire forme parassitarie di consumo e lavoro improduttivo: un mix di pub, servizi legali e commerciali, turismo di massa e comparsate televisive, come sottolinea con steineiriano ribrezzo morale Alvi. Attività facilitate anche dalla ricerca imprenditoriale di profitti crescenti, in ambiti spesso speculativi. E non più nei settori manifatturiero e della ricerca: in calo il primo e in ritirata il secondo. Inoltre, la crescita dei profitti societari sarebbe stata favorita negli anni Novanta dai proventi delle privatizzazioni, finiti nelle tasche dei grandi oligopoli privati italiani. Profitti, definiti “post-sovietici”, per analogia con le privatizzazioni sovietiche, che con un colpo di bacchetta magica trasformarono i monopoli statali a quelli privati.
La “Repubblica delle Rendite”, così almeno pare di capire, durerà fin quando reggerà il precario equilibrio tra gli italiani che riescono a vivere individualmente e un’ Italia che collettivamente riesce sopravvivere, ma sempre più fiaccamente… Anche perché la crescente globalizzazione rischia prima poi di mettere in crisi un accoppiamento così poco giudizioso.
Chi sono i colpevoli? Quila
Taranta assume un andamento indiavolato. Al ritmo frenetico
di una “pizzicata” alla Vinicio Capossela, Alvi martella i rentier e chiama in
correo mezzo Stivale.
Le “sinistre e le consorterie sindacali”, colpevoli di aver fatto salire tra il 1996 e il 2001 la pressione fiscale su un lavoro, già impoverito; l’imprenditoria priva di coraggio e idee;la Banca Centrale
Europea, che con i suoi bassi tassi di interesse ha favorito la speculazione
mobiliare, e dunque il rafforzamento della rendita; l’ Euro, frutto di un
cambio con la lira fuori proporzione, che ha ulteriormente impoverito il magro
reddito del lavoro; i governi che non hanno tagliato le pensioni. E che dopo
l’Euro hanno sprecato i proventi della riduzione dei tassi di interesse in
rendite e costruzioni di cimiteri, parcheggi e stadi (il quarantasei per cento
degli investimenti: un’ironia più che fondata…). Invece di trasferirle a salari
e lavoro.
Che dire? E’ un libro scomodo, ma sul serio. Le sue sferzanti critiche non faranno guadagnare molti amici all’autore. Non tutti amano ballare la taranta, e per giunta sulla graticola di dati e cifre.
Inoltre quel che probabilmente può dar fastidio è proprio la filosofia che anima il libro. Frutto di un liberalismo sociale e intelligente, che non ha nulla a che vedere col liberismo volgare di certi professori al servizio dei poteri forti. Un liberismo antico, quello di Alvi, alla Tocqueville, che spicca per originalità in un mondo intellettuale dove è fin troppo facile dichiararsi liberali e quel che è peggio liberisti...
Perciò, la taranta di Alvi, ad acuni potrà pure non piacere, ma merita di essere ascoltata. In religioso silenzio e sino in fondo.
Con una differenza di fondo però. Secondo Alvi, oggi, i signori delle rendite non sono più i proprietari terrieri ma coloro che fruiscono di “interessi sui titoli di stato, gli affitti degli immobili, e le pensioni” (p.10) . Il che può a prima vista lasciare perplessi… Passi per il bot-people, quasi estinto, e per gli chi lucra sugli affitti, ma perché includere i pensionati che non sempre navigano nell’oro…
Ma riassumiamo per concetti il libro di Alvi, sorvolando sugli impegnativi elenchi di cifre.
Secondo l’ autore negli ultimi trentacinque anni in Italia il peso della quota di reddito spettante ai lavoratori dipendenti si sarebbe ridotta di circa un dieci per cento. Per contro sarebbe cresciuto di un importo più o meno pari quella delle rendite e dei profitti. E questo nonostante che il rapporto tra lavoratori dipendenti e indipendenti sia addirittura cresciuto a favore dei dipendenti. Si dirà, ma come può sopravvivere un’Italia senza il reddito prodotto dai lavoratori dipendenti? E soprattutto come fanno questi ultimi a vivere, visto che sono diventati addirittura di più? Grazie alle rendite.
E qui il discorso di Alvi si fa più sottile. L’Italia riesce a tirare avanti perché la sua ricchezza si è “patrimonializzata”. Le famiglie sono diventate più ricche, in particolare negli ultimi quindici anni: si possiedono più immobili e titoli azionari. E soprattutto, c’è sempre, anche se ridotta, la pensione percepita da uno dei membri della famiglia.
E qui è giusto ascoltare l’autore: “ Ci sono sì in Italia, 13 milioni e mezzo circa di salariati nel settore privato la cui parte di prodotto cala e i cui redditi unitari pure. Vanno però ricompresi nel totale di 23 milioni di famiglie italiane che seguitano a incassare soprappiù di affitti, interessi, pensioni, stipendi statali. In Italia il criterio sociale per distinguere e capire, non è la classe ma la famiglia. E il problema è dunque valutare il flusso che continua, di rendite, posticini da professoressa o ai ministeri” (p. 26).
Certo, statali e professori qui insorgeranno, dal momento che stipendio e soddisfazioni lasciano a desiderare. Come i possessori di case vessati da Ici e altre tasse locali. Così pure i titolari di bot, sempre meno redditizi, come ammette lo stesso autore. E non hanno torto. Ma neanche Alvi lo ha. E quel che è rimarchevole della sua analisi è il dato macroeconomico: scende il lavoro produttivo, sale quello improduttivo, appesantito da rendite erogate a pensionati ancora cinquantenni ( circa cinque milioni di pensionati su sedici ). Ogni lavoratore mantiene quasi un pensionato e mezzo. E la forbice è destinata a crescere a danno dei lavoratori.
L’Italia, insomma, pur restando in qualche modo a galla, rischia di non crescere più e soprattutto di favorire forme parassitarie di consumo e lavoro improduttivo: un mix di pub, servizi legali e commerciali, turismo di massa e comparsate televisive, come sottolinea con steineiriano ribrezzo morale Alvi. Attività facilitate anche dalla ricerca imprenditoriale di profitti crescenti, in ambiti spesso speculativi. E non più nei settori manifatturiero e della ricerca: in calo il primo e in ritirata il secondo. Inoltre, la crescita dei profitti societari sarebbe stata favorita negli anni Novanta dai proventi delle privatizzazioni, finiti nelle tasche dei grandi oligopoli privati italiani. Profitti, definiti “post-sovietici”, per analogia con le privatizzazioni sovietiche, che con un colpo di bacchetta magica trasformarono i monopoli statali a quelli privati.
La “Repubblica delle Rendite”, così almeno pare di capire, durerà fin quando reggerà il precario equilibrio tra gli italiani che riescono a vivere individualmente e un’ Italia che collettivamente riesce sopravvivere, ma sempre più fiaccamente… Anche perché la crescente globalizzazione rischia prima poi di mettere in crisi un accoppiamento così poco giudizioso.
Chi sono i colpevoli? Qui
Le “sinistre e le consorterie sindacali”, colpevoli di aver fatto salire tra il 1996 e il 2001 la pressione fiscale su un lavoro, già impoverito; l’imprenditoria priva di coraggio e idee;
Che dire? E’ un libro scomodo, ma sul serio. Le sue sferzanti critiche non faranno guadagnare molti amici all’autore. Non tutti amano ballare la taranta, e per giunta sulla graticola di dati e cifre.
Inoltre quel che probabilmente può dar fastidio è proprio la filosofia che anima il libro. Frutto di un liberalismo sociale e intelligente, che non ha nulla a che vedere col liberismo volgare di certi professori al servizio dei poteri forti. Un liberismo antico, quello di Alvi, alla Tocqueville, che spicca per originalità in un mondo intellettuale dove è fin troppo facile dichiararsi liberali e quel che è peggio liberisti...
Perciò, la taranta di Alvi, ad acuni potrà pure non piacere, ma merita di essere ascoltata. In religioso silenzio e sino in fondo.
Carlo Gambescia
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