Il libro della settimana. Stefano Cavazza ed Emanuela Scarpellini, Il secolo dei consumi, Carocci, Roma 2006, pp. 246, Euroa 17,10
http://www.lafeltrinelli.it/products/9788843036165/Il_secolo_dei_consumi/Stefano_Cavazza.html |
Per Marx, il capitalismo ottocentesco era un vampiro
che succhiava il sangue dei lavoratori: li sfruttava senza dare nulla in
cambio. Invece per Sombart, il capitalismo del primo trentennio del Novecento
ricordava un’ape capace di saper succhiare miele da tutti i fiori: ricambiava i
sacrifici dei lavoratori con salari più altri e merci a buon mercato, la cui
vendita rinvigoriva l’espansione del capitalismo.Come è noto, la metafora di
Marx risale al primo libro del Capitale pubblicato nel 1867, quella di Sombart
al terzo e ultimo volume di Capitalismo moderno, uscito nel 1927.
In realtà avevano entrambi ragione. Se l’Ottocento ci mostra un capitalismo che
accumula senza troppi scrupoli sociali, nel Novecento, al contrario, ne rivela
invece anche troppi. Certo, non tutti disinteressati, ma sicuramente frutto di
una nuova consapevolezza, che si fa strada, per la prima volta, con Henry Ford.
Quale? Che il sistema capitalistico, se vuole prosperare, ha bisogno di
produttori e, soprattutto, di consumatori. Convinzione che si rafforzerà dopo la
grande crisi economica degli anni Trenta. E troverà compimento nella seconda
metà del secolo, in quelle forme fisiologiche (e non patologiche, come in
alcuni casi) di individualismo protetto dal welfare. Forme capaci di conciliare
alti consumi privati, protezione ed equità sociale, grazie alla costante
crescita dell’economia capitalistica e del prelievo fiscale. Ma si tratta di
politiche, queste ultime, oggi giudicate sospette, soprattutto dai cosiddetti
liberisti.
Sombart, in certo senso, ha mostrato maggiori capacità prospettiche. Ma non in
assoluto, dal momento che, come spesso si dice, ride bene chi ride ultimo. E
Marx, a sua volta, potrebbe prendersi una bella rivincita…
A chi invece desideri approfondire l’ascesa e il trionfo dell’ homo consumans
si consiglia la lettura dell’interessante volume curato da Stefano Cavazza ed
Emanuela Scarpellini, Il secolo dei consumi. Dinamiche sociali
nell’Europa del Novecento (Carocci, Roma 2006, pp. 246, euro 17,10), due
giovani storici: Cavazza insegna a Bologna, la Scarpellini a Milano.
Nonostante il taglio accademico del titolo, il libro è avvincente e ben
scritto. E, quel che più conta, sostanzialmente privo di quei birignao gergali,
che spesso rendono impervia, allo stesso specialista, la lettura di libri
dedicati a temi pur intriganti.
Il “secolo dei consumi” viene raccontato e indagato in sette saggi. Una
suddivisione, “a incastro” e per argomenti, che permette al lettore di
ripercorrere, se non proprio cronologicamente, le modalità principali
attraverso cui la società novecentesca si è trasformata in società dei
consumatori.
Nel primo saggio, dedicato all’evoluzione dei luoghi di consumo, Emanuela
Scarpellini, mostra come il passaggio dalla bottega ottocentesca ai giganteschi
centri commerciali di oggi, sia legato a una gigantesca opera di
razionalizzazione economica. Rivolta a garantire un migliore controllo delle
rete distributiva e, soprattutto, evitare pericolose crisi di sovrapproduzione.
Il tema della razionalizzazione rimanda a quello del consumo, come necessità di
prevenire e orientare i bisogni del consumatore. L’ argomento è affrontato da
Paolo Capuzzo, il quale evidenzia come la caratteristica principale del
capitalismo novecentesco rispetto a quello ottocentesco, così criticato da
Marx, sia stata proprio quella di privilegiare il consumo rispetto alla
produzione. E dunque di allargare, in modo programmato, la sfera dei
consumatori.
Il problema dell’ “allargamento del mercato”, rinvia a quello del “tempo
libero”, esaminato da Stefano Cavazza. Lo studioso, partendo dal dato della
costante riduzione delle ore di lavoro (passate dalle 70 ore settimanali della
fine dell’Ottocento alle 40-35 ore di oggi), spiega come certi diritti sociali,
dalla pensione alle ferie pagate, siano stati funzionali allo sviluppo del
consumismo di massa. Il necessario corollario sociale di un capitalismo, capace
appunto, di suggere nettare da tutti i fiori: di trasformare l’accresciuto
tempo libero in nuova e redditizia “industria”, grazie allo sviluppo del
turismo e dei divertimenti di massa .
Il saggio di Silvia Salvatici si occupa invece del rovescio della medaglia: dei
commessi, di coloro che sono, o meglio erano, al servizio dei consumatori. Un
testo ricco di gustosi riferimenti storici (come ad esempio l’accenno
all’articolo pubblicato nel 1932 sulla rivista della Rinascente, dove si
spiegava alle commesse, il tratto psicologico della “clientela femminile”: la
loquace, la laconica, la bisbetica, eccetera). Una vera arte, quella del
vendere, oggi non più richiesta, o comunque resa superflua dalla diffusione del
self-service.
Roberta Sassatelli affronta il tema dei rapporti tra differenze di genere e
consumi. Un dato su tutti: l’ascesa del consumismo sarebbe solo apparentemente
segnata dall’attenuazione formale delle diversità tra uomini e donne. Dal
momento, come nota l’autrice, che oggi, malgrado la crescente libertà di
shopping per entrambi i sessi, il consumo spesso riflette un’emancipazione
femminile non qualitativa, fittizia: dove la differenza tra i sessi, si
riaffaccia come ostentazione delle rispettive “quantità” di beni acquistati.
Del resto come mostra il saggio di Stephen Gundle, dedicato al rapporto tra
consumo e spettacolo, è molto difficile sottrarsi alla pressione dei mass
media. Basta accendere la televisione per accorgersi di quanto lo shopping sia
legittimato, attraverso la reiterazione di modelli “divistici”. Dove il “fare
spese” è presentato come stile di vita brillante e socialmente approvato. Di
qui anche l’importanza dell’immagine mediatica delle marche, come evidenzia
Adam Arvidsson, il cui studio sull’universo pubblicitario chiude il volume. Non
si vende più il prodotto, ma lo stile di vita imposto da una certa marca (o
brand) : “con le scarpe Nike, ci si sente attivi ed atletici, ma in un
determinato modo (…) con la borsa Prada si è eleganti, in un determinato modo”
(p. 215). E così via…
Un volta chiuso il libro, non si può però non pensare, a quanta strada abbiano
percorso il capitalismo e i lavoratori dai tempi di Marx. Oggi in Occidente il
benessere è diffuso, e le persone comuni programmano tempo libero, vacanze,
shopping, come mai prima nella storia. Tuttavia l’imperativo al consumo ha i
suoi lati negativi. Come giudicare, ad esempio, quel bisogno, da molti sentito
come “dovere morale”, di cambiare automobile una volta all’anno? Oppure alla
“necessità”, avvertita spesso dai giovanissimi, di sostituire ogni tre mesi il
“vecchio” modello di telefonino con uno “nuovo”? C’è il rischio insomma, già
intuito da Sombart, di chiudersi aridamente in se stessi, e valutare l’altro
solo in funzione dei beni “esibiti”.
Resta poi un altro problema: la costante crescita dei consumi ha bisogno di
stabilità sociale. Il “buon” consumatore necessita di certezze sociali:
pensioni, tempo libero retribuito, stipendi e salari decorosi. O se si vuole,
di alcune “dosi fisiologiche” di individualismo protetto, da “somministrare”
attraverso l’uso accorto della leva fiscale e della spesa pubblica. Tuttavia
l’introduzione di una sempre maggiore flessibilità, che i liberisti presentano
come necessaria alla crescita del sistema, rischia - se spinta oltre un certo
limite - di mettere in discussione la stabilità sociale, e dunque di influire
in modo negativo sulla crescita stessa. E pertanto sulla sorte del capitalismo.
E qui, a coloro che hanno l' udito fine , non sarà sfuggita la risata omerica
di Marx.
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Posta un commento