Il Governo Prodi e le "grandi" riforme
Moderati e riformisti,
una cronistoria
Le polemiche di questi giorni tra sinistra moderata e
radicale possono rappresentare un’occasione per riflettere su “moderatismo” e
riformismo come concetti politici e storici.
Basta aprire qualsiasi dizionario di politica per scoprire che nessuna voce è
dedicata all’argomento. Grande peso è invece attribuito al riformismo. E ciò
non deve stupire, dal momento che il riformismo è di solito giudicato
benevolmente dai politologi. E’ visto come una sintesi politica, resa
necessaria dalla moderna divisione tra destra e sinistra, scaturita dalla
rivoluzione francese e consolidatasi nell’Ottocento: la destra si oppone al
cambiamento, la sinistra vuole cambiare tutto, il riformista punta invece sul
compromesso tra le idee degli uni e degli altri.
E i moderati? Durante la rivoluzione si assunsero l’onere i girondini, tutti
giornalisti e avvocati al servizio di una nascente borghesia provinciale: prima
misero sotto accusa il re, perché ne ostacolava l’ascesa, poi tentarono di
salvargli la testa, affinché difendesse i privilegi della neoborghesia da cui
provenivano. Nessuno li ascoltò e finirono quasi tutti ghigliottinati. Salvo
poi tornare - durante il Termidoro (dopo la morte di Robespierre) - i
sopravvissuti, sui banchi della Convenzione, ovviamente ancora in cerca di
buoni affari. Di qui la cattiva fama del termine. Ma cerchiamo di essere più
chiari.
In primo luogo, il riformismo è un compromesso finalizzato alle riforme mentre
il moderatismo è un compromesso rivolto alla conservazione dello status quo. Un
errore che spesso si commette è quello di identificare da un lato riformismo e
democrazia e dall’altro moderatismo e antidemocrazia. In realtà, riformismo e
moderatismo non appartengono a un sistema politico particolare: sono fenomeni
trasversali e ciclici. Napoleone condusse a termine, con grandi riforme,
l’opera della rivoluzione francese (ad esempio la codificazione legislativa).
Cavour, grazie all’invenzione del centro politico, pose le basi
dell’unificazione. Anche Mussolini, che era un dittatore, mediò per più di
vent’anni tra fascismo moderato e radicale, riuscendo così ad attuare alcune
riforme (certo in chiave verticistica e autoritaria). De Gasperi, col suo
“centrismo riformista”, favorì il successivo sviluppo economico ( i personaggi
storici ricordati, possono più o meno piacere, ma dal punto di vista più ampio
delle costanti sociologiche - ed è bene ripeterlo - le "riforme"
(vere) introdotte restano mentre i regimi politici, democratici o
meno, passano). Per contro, il “riformismo” di Napoleone,
Cavour, Mussolini, De Gasperi, venne travolto, oltre che da errori, limiti
interni e cattiva fortuna, anche da "contro-ondate" più o meno lunghe
di moderatismo . La Francia
postnapoleonica, esaurita dalle guerre, penserà solo ad arricchirsi. L’Italia
del dopo Cavour, piena di debiti, punterà prima sulla “lesina” (con la destra
storica), poi su sperperi e corruzione (con la sinistra depretisiana), e infine
sul clericalismo (con Giolitti). Ma quella di sprofondare nel moderatismo è una
sorte toccata anche l’Italia del dopo Mussolini e De Gasperi. Con Moro Fanfani,
Andreotti Craxi, Prodi, Berlusconi, e ora, ancora Prodi, si è avuta e si ha
solo una politica segnata da grandi annunci, ma da pochissime riforme. Come
prova il pietoso stato in cui tuttora versano ospedali, scuole, università e
altri servizi pubblici.
In secondo luogo, va distinto il moderatismo politico, come ideologia, dal
moderatismo elettorale o sociologico. In genere la stragrande maggioranza delle
persone è sfavorevole a mutamenti troppo radicali: vuole soprattutto sicurezza.
E di solito, le rivoluzioni scoppiano solo quando il consenso si è dissolto per
ragioni economiche (tassi elevati di disoccupazione e povertà), politiche
(costante indebolimento della catena di comando), sociali (crescita di una
criminalità diffusa), culturali (progressivo isolamento delle élite). La vera
arte, o quintessenza del moderatismo ideologico, è trovare il giusto punto di
equilibrio tra promesse non mantenute e conservazione di un minimo di consenso
sociale. Oggi si punta sulla paura del ceto medio di impoverirsi, ma anche su
aspettative di miglioramento. In questo senso il moderatismo ha bisogno di
tassi di sviluppo anche modesti ma costanti. Solo così può consentire ad alcuni
di conservare privilegi, anche minimi, e a tutti gli altri di sperare di
ottenerne ottenerne, grazie alle promesse di futuro benessere.
Fino a quando? Probabilmente fino alla prossima crisi economica, che i prezzi
petroliferi in ascesa preannunciano molto seria. Insomma, il moderatismo vive e
muore di economia. Ma se cadono i nostri girondini, dove sono i riformisti,
quelli veri, in grado di sostituirli? Purtroppo, come la storia insegna,
appaiono, solo dopo che i rivoluzionari hanno tagliato “qualche” testa.
Carlo Gambescia
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