Il dolce far niente rivalutato?
Buongiorno pigrizia
Molti di sicuro rammentano il rumore suscitato lo scorso
anno dal libro della saggista francesce Corinne Maier, Bungiorno pigrizia,
tradotto in Italia da Bompiani. Addirittura, alcuni recensori, scrissero che
dopo quello dell’immaginazione sarebbe finalmente giunto, grazie al libro della
Maier, il momento della pigrizia al potere.
Ricordiamo la "sovversiva" tesi della Maier
(che si rivolge in particolare ai "colletti bianchi") : siate pigri e
sovvertirete il sistema.
Di qui una serie di consigli sull’ “arte e la necessità di fare il meno possibile nell’impresa”, o di come “imboscarsi”, per usare un gergo da caserma: fare finta di lavorare, di eseguire gli ordini, di preoccuparsi del destino dell’azienda, e così via. Sotto questo aspetto il libro ricorda più che l’incendiario Manifesto di Marx ed Engels, un pompieristico manualetto di sopravvivenza.
Di qui una serie di consigli sull’ “arte e la necessità di fare il meno possibile nell’impresa”, o di come “imboscarsi”, per usare un gergo da caserma: fare finta di lavorare, di eseguire gli ordini, di preoccuparsi del destino dell’azienda, e così via. Sotto questo aspetto il libro ricorda più che l’incendiario Manifesto di Marx ed Engels, un pompieristico manualetto di sopravvivenza.
Ma non vogliamo proporre alcuna una recensione tardiva
del libro. Ma solo qualche riflessione. Infatti in questi giorni di proteste,
più o meno giustificate, dell' "Italia che produce", sarebbe
interessante tornare a sfogliarlo, perché Buongiorno pigrizia, pone un
problema vero: quello dei ritmi di vita in una società sempre più convulsa e
competitiva.
A questo problema oggi la gente risponde in tre modi: c’è chi si tuffa nel lavoro (una minoranza di individui “in carriera“); chi subisce passivamente (la maggioranza delle persone); e infine, chi viene emarginato perché non vuole o non può “adeguarsi”(una minoranza di eccentrici, contestatori, clochard , eccetera).
A questo problema oggi la gente risponde in tre modi: c’è chi si tuffa nel lavoro (una minoranza di individui “in carriera“); chi subisce passivamente (la maggioranza delle persone); e infine, chi viene emarginato perché non vuole o non può “adeguarsi”(una minoranza di eccentrici, contestatori, clochard , eccetera).
Il punto è che la maggioranza preferisce subire il
“sistema”, e assorbirne i ritmi massacranti. Tuttavia se la pigrizia, come
rifiuto del lavoro eccessivo, se non proprio del lavoro in sé, si diffondesse e
quindi i comportamenti descritti dalla Maier divenissero fenomeno di massa, il
“sistema” potrebbe incrinarsi. Subito però sorgerebbe un altro problema: quello
della produttività.
Attualmente la regola è: più lavoro, più produttività, più consumi. Se la pigrizia andasse al potere suonerebbe invece così: meno lavoro, meno produttività, meno consumi. Questo perché, come è noto, la minore produttività porta sempre con sé minore sviluppo, e di conseguenza, anche stili di vita modesti, se non proprio spartani. Di più: il calo della produttività imporrebbe anche un gigantesco riorientamento produttivo dell’economia capitalistica in senso non consumistico. Un solo esempio, magari banale ma efficace per capire: se le automobili non serviranno più, perché nessuno avrà più fretta di arrivare in tempo al lavoro, che ne faremo delle fabbriche automobilistiche, e soprattutto dell’indotto? Va perciò messo in conto che una rivoluzione produttiva di tale ampiezza, almeno in una prima fase, potrebbe produrre una drastica diminuzione del tenore di vita delle persone coinvolte, soprattutto di operai e impiegati.
Alcuni studiosi sostengono invece che la bassa produttività degli uomini potrebbe essere compensata da quella della macchine. E’ una vecchia tesi che coniuga socialismo umanitario, scienza e ideologia del progresso, che però sottovaluta un aspetto importante: una società che dipenda totalmente dalle macchine, oltre a essere vulnerabile sotto l’aspetto delle risorse e dei controlli tecnici, potrebbe generare una classe di tecnocrati, probabilmente peggiore di quella capitalistica, perché composta di “credenti” in un determinismo salvifico ancora più pericoloso di quello economico: quello della scienza.
Attualmente la regola è: più lavoro, più produttività, più consumi. Se la pigrizia andasse al potere suonerebbe invece così: meno lavoro, meno produttività, meno consumi. Questo perché, come è noto, la minore produttività porta sempre con sé minore sviluppo, e di conseguenza, anche stili di vita modesti, se non proprio spartani. Di più: il calo della produttività imporrebbe anche un gigantesco riorientamento produttivo dell’economia capitalistica in senso non consumistico. Un solo esempio, magari banale ma efficace per capire: se le automobili non serviranno più, perché nessuno avrà più fretta di arrivare in tempo al lavoro, che ne faremo delle fabbriche automobilistiche, e soprattutto dell’indotto? Va perciò messo in conto che una rivoluzione produttiva di tale ampiezza, almeno in una prima fase, potrebbe produrre una drastica diminuzione del tenore di vita delle persone coinvolte, soprattutto di operai e impiegati.
Alcuni studiosi sostengono invece che la bassa produttività degli uomini potrebbe essere compensata da quella della macchine. E’ una vecchia tesi che coniuga socialismo umanitario, scienza e ideologia del progresso, che però sottovaluta un aspetto importante: una società che dipenda totalmente dalle macchine, oltre a essere vulnerabile sotto l’aspetto delle risorse e dei controlli tecnici, potrebbe generare una classe di tecnocrati, probabilmente peggiore di quella capitalistica, perché composta di “credenti” in un determinismo salvifico ancora più pericoloso di quello economico: quello della scienza.
La pigrizia può perciò essere un buon grimaldello per
recuperare la nostra libertà. Tuttavia, ed è questo il punto che va chiarito,
potrebbe trattarsi di una libertà scomoda: anche dal denaro e dai consumi. Una
rinuncia che probabilmente non tutti vogliono o possono fare. Dal momento che
il ruolo di gratificazione sostitutiva giocato dai consumi verso un lavoro
opprimente (purtroppo non tutti i lavori possono essere creativi…) è tuttora
culturalmente apprezzato e largamente interiorizzato. Quindi alla resistenza passiva
suggerita dalla Maier andrebbe affiancata una rivoluzione più profonda.
Si dirà, ecco il solito sermoncino sulla cultura dell’ Essere che deve
sostituire quella dell’Avere. Certo, nulla di nuovo, ma se non si tenta di
associare la pigrizia, o il non lavoro, al valore forte della trasformazione
interiore, che cosa resta? Poco, molto poco: nell’ipotesi migliore, il
velleitarismo di una Maier, nella peggiore, il cinismo degli impiegati di Camera
Cafè.
Carlo Gambescia
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