martedì 6 giugno 2006


La riflessione
Società del rischio 
o del coraggio?




Il XIX secolo teorizzò che l’uomo civilizzato della società industriale sarebbe vissuto in un clima di pace: sereno, soddisfatto, consapevole dei propri diritti, l’uomo del futuro avrebbe goduto delle grandi conquiste della scienza e della tecnica.
A tutti è noto che purtroppo non è andata così. Oggi, nel XXI secolo, l’uomo vive male: incertezza, angoscia e paura segnano la sua condizione in tutti i campi. Sul terreno economico (insicurezza del posto di lavoro), sociale (apprensioni diffuse per l’ incolumità fisica e la protezione dei beni posseduti ), politico ( timori di guerre e attentati terroristici), scientifico (diffidenza verso l’ambiguo linguaggio degli scienziati) e ambientale (paura di catastrofi ecologiche, provocate dall’ intensivo sfruttamento tecnologico della natura).
Alcuni studiosi hanno definito la nostra società come “società del rischio”. Se la società del tardo XIX secolo, o della seconda metà del XX, era una società della sicurezza, basata su alcuni punti fermi (valori borghesi, crescita economica, welfare), la nostra è una società dell’ “insicurezza”, priva di valori stabili. Ma questo è risaputo.
Meno noto è che la società del rischio tende a generare individui vulnerabili: uomini e donne con una particolare disposizione a essere moralmente feriti, incapaci di difendersi e reagire, e quindi bisognosi di aiuto. Il confuso groviglio di paure sociali produce in misura crescente individui, così oppressi dalla vita (o comunque che si ritengono tali), da rifugiarsi in un mondo privato, fatto di microcertezze (piccole abitudini quotidiane: vedere un film, andare a cena al ristorante, fare shopping, un piccolo viaggio, eccetera): un universo privatissimo “inaccessibile” allo spaventoso mondo delle “macroincertezze” .
L’equilibrio tra i due mondi è garantito dall’accettazione di massa della “macrorealtà” , così com’è: esternare le proprie paure e imputarle alla società del rischio, significherebbe infatti, per i singoli rimettersi in gioco, e soprattutto porre in discussione le microcertezze: le piccole e in apparenza piacevoli abitudini. Dal momento che la perdita del posto di lavoro per ragioni “politiche” ( magari per “troppa” attività sindacale…), implicherebbe il venire meno di quelle risorse economiche che consentono però di vivere all’ombra, delle microcertezze individuali.
Tuttavia più si allarga la sfera sociale e soprattutto ideologica del rischio, più l’individuo si chiude in se stesso rifiutando ogni responsabilità politica e sociale: la “cognizione” (ma forse si dovrebbe parlare di “rappresentazione”) del rischio genera paura, e la paura persone timorose di perdere quel poco che hanno, e disposte a tutto pur di conservarlo. Ciò significa pure che l’ “esercizio del coraggio” viene sempre più delegato alle istituzioni: si rafforzano così i poteri di eserciti e forze dell’ordine, gli unici professionisti autorizzati a gestire i “rischi” della repressione poliziesca e militare . Il che in linea di principio non sarebbe sbagliato, se non fosse che al rafforzamento concreto delle istituzioni segue regolarmente quello dell’ideologia del rischio e della dissuasione. Si assiste al seguente fenomeno: per un verso le istituzioni politiche, economiche, sociali, creano un clima di allarme che le rafforza, e per l’altro le stesse istituzioni vietano ai singoli di intervenire, trattandoli come minori incapaci d’agire, anche in situazioni dove potrebbero cavarsela da soli, come soccorrere una persona o impedire che qualcuno sia ingiustamente maltrattato…
Ora, non si desidera assolutamente celebrare l’ individualismo del cowboy: del pistolero che si fa giustizia da solo. Ma non va neppure incoraggiata o giustificata l’ “ideologia del rischio”. Che punta alla costruzione sociale di un individuo impaurito, funzionale agli attuali equilibri politici ed economici. Tuttavia, come mostra, nei suoi aspetti negativi il modello americano,  il cittadino armato e   troppo “intraprendente”, dire regola produce solo altra violenza.
Il coraggio, non va mai confuso con la temerarietà o la prepotenza. Il punto è che chi non lo possiede, non può darselo da solo. Servirebbe un nuovo modello culturale: più che di società del rischio, che purtroppo già esiste, si dovrebbe teorizzare una auspicabile ideologia del coraggio. Ma ci vorrebbe appunto coraggio…

Carlo Gambescia

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