Il libro della settimana. Natalino Irti, Nichilismo giuridico, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, pp.VIII-148, Euro 16,00.
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Viene prima il diritto o la società? Messa così, la domanda
non è di quelle che invitino a continuare la lettura… Tuttavia l’interrogativo
è meno astratto di quel che sembri. E spieghiamo subito perché.
Per alcuni viene prima la volontà giuridica del legislatore, che come un piccolo dio, cerca di plasmare la società a sua immagine. Per altri invece è la società stessa a darsi le leggi, attraverso quei filamenti invisibili che uniscono le volontà umane. Nel primo caso sono le leggi a foggiare i costumi, nel secondo sono i costumi a modellare le leggi.
In genere, come ha insegnato Montesquieu, sarebbe preferibile che le leggi riflettessero costumi consolidati, proprio per evitare pericolose fratture tra legislatore e società. Si tratta però di una preoccupazione che il diritto moderno, e in particolare quello di derivazione razionalista e illuminista, ha sempre tenuto in scarsa considerazione.
Perciò si tratta di una questione molto seria. Che non può essere lasciata - come si diceva un tempo per la guerra - ai soli generali, e dunque, nel caso specifico, ai giuristi… Non è un puro problema teorico da professori: è una questione politica. Dal momento che chi ritiene che il diritto preceda la società, finisce quasi sempre per inerpicarsi lungo un sentiero piuttosto pericoloso. Perché attribuisce al diritto, derivante dalla volontà di un legislatore (spesso eletto da minoranze…), una funzione esclusivamente educatrice o formatrice. Che spesso però rispecchia, non il sentire comune, ma soltanto quello delle élite dominanti.
Ciò però non significa che debbano essere ignorati contributi importanti, come quelli di Natalino Irti. Un giurista, oggi assai raro, che riesce al tempo stesso, come dire, a essere nel mondo ma non del mondo. In che senso? Irti, professore di diritto civile e accademico dei Lincei, è anche noto e apprezzato avvocato d’affari, già vicepresidente dell’Enel, membro del Cda Iri e del Comitato Privatizzazioni. Un attivismo professionale - ecco il suo “essere nel mondo”… - , che non gli ha però impedito di scrivere libri non di non comune apertura per un giurista. Di qui il suo “non essere del mondo”, in primis quello dei pedanti fautori di un diritto astratto, formalistico, e sganciato dalla filosofia e dalle scienze sociali .
Si pensi a un libro controcorrente come L’ ordine giuridico del mercato (Editori Laterza, Roma-Bari, 2003, nuova edizione), dove Irti, ricorda ai “liberisti della cattedra” che il mercato non è mai frutto di naturalistiche “leggi economiche”, ma di “decisioni politiche”: quando lo “Stato si ritira dall’economia e ‘privatizza’ beni e imprese, non c’è vuoto di politica (…), ma pienezza della politica, di quell’umano volere che ha scelto un dato regime della proprietà e degli affari” (p. IX). Per farla breve: si tratta di “volontà politica tradotta in statuizioni giuridiche” e infine economiche.
Oppure un testo intrigante come Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto (Editori Laterza, Roma-Bari 2005, 5° edizione), dove Irti riprendendo Schmitt e puntualizzando la natura spaziale e volontaristico-politica del diritto, demolisce “certo fiducioso neo-illuminismo”. Che, come scrive, “da un lato, riscopre le ‘magnifiche sorti e progressive’, e, dall’altro, offre in compensazione universali diritti dell’uomo. I quali in assenza di un diritto naturale che i neo-illuministi non ardiscono di riproporre, appaiono sospesi nel vuoto, privi della volontà storica degli Stati (perché altrimenti non sarebbero né universali né dell’astratto ‘uomo’, ma ‘particolari’ e di concreti ‘uomini’), e privi, a un tempo, di qualsiasi altro fondamento” (p. 100).
Ecco, il problema dell’assenza del fondamento, conduce a quello che è il tema del suo ultimo libro, Nichilismo giuridico (Editori Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. VIII-148, euro 16,00). Un testo, che tra l’altro, si pone la domanda da cui siamo partiti: viene prima il diritto o la società?
Irti non ha dubbi, viene prima la società. Secondo l’autore il “nichilismo giuridico” nasce proprio dalla “solitudine a cui oggi si è “consegnata (…) la volontà umana” (p. 22). Solitudine che è al tempo stesso esistenziale e sociale: l’inevitabile prodotto dissolutivo della modernità secolarizzante: di lì viene il diritto “nichilista”. “ Cadute le garanzie di natura o di ragione, - scrive Irti - il diritto si aggrappa a principî intra-mondani : spirito del popolo, unità dei codici, Stato-nazionale, ideologie politiche, e via seguitando. Ma essi si rivelano per ciò che sono: criterî storici ed effimeri, proiezioni della volontà che ha bisogno di appoggiarsi a qualcosa di ‘vero’ e di stabile. E dopo, allorché queste unità e totalità si disgregano e dissolvono, la volontà rimane ancora solitaria; nessuna voce più risuona dal di fuori, e intorno grava un terribile silenzio, il vuoto agghiacciante dell’universo” (p. 23). E dal “vuoto” non può che sorgere un diritto provvisorio, instabile, che culmina nel vorticoso, e solo apparentemente virtuoso, succedersi di norme giuridiche, emanate, modificate, abrogate, eccetera.
Anche perché si aprono continuamente crepe, che legislatore cerca di “chiudere”, ricorrendo alle tecniche di un “diritto [che] nasce dalle forze in campo, da rapporti di volontà, affidati a contingenza e causalità. Ogni norma è labile e provvisoria” (p. 24).
Quali sono le “frequentazioni” culturali dell’autore? Irti cita, a parte Schmitt, pensatori che di solito i giuristi poco apprezzano o conoscono: Nietzsche, Sartre, Camus, Valéry, Ortega, Simmel, Severino. Con quest’ultimo, Irti ha pubblicato l’avvincente Dialogo su diritto e tecnica (Editori Laterza, Roma-Bari 2001). Dove entrambi sostengono che il diritto sia ormai divenuto una pura tecnica “produttiva” di norme per e del mercato: il diritto “ricava le cose dal niente e le riporta al niente”. E’ un puro “fare” umano che distrugge e edifica: dà e toglie la vita.
Irti però, a differenza di Severino, ritiene che “il frammentismo normativo” possa stimolare “proposte ideologiche” E sceglie come modello di “nichilismo attivo” l’ homme révolté di Camus. Si tratta, come è noto, di un uomo che accetta la sua condizione per quel che è, e va avanti incontro alla vita, senza rimpianti per trascorse età dell’oro. “Il nichilismo - scrive Irti - ci salva e protegge; smaschera falsi idoli, da cui pensavamo di trarre il nostro ‘valore’. E tutto risolve nelle differenze della volontà, nel loro conflitto, nel loro vincere o soccombere. Esso non è rinuncia, ma accettazione; non è inerte angoscia, ma serena fraternità col divenire” ( p. 148).
Nichilismo giuridico, come ogni libro ricco di stimoli, può essere letto con profitto dal giurista, ma anche dal sociologo, dal politico intellettualmente curioso, nonché da chiunque sia intrigato dagli aspetti filosofici del diritto. Inoltre, è uno studio che presenta il diritto come “fatto sociale”. Dal momento che lo riconduce al divenire, o comunque a una decisione politica, che ha dietro di sé un ordine sociale, volontaristico ma concreto. E non un legislatore, convinto di sapere in astratto quale sia il “vero” bene dei cittadini. E magari d’ imporlo in modo totalitario.
Per alcuni viene prima la volontà giuridica del legislatore, che come un piccolo dio, cerca di plasmare la società a sua immagine. Per altri invece è la società stessa a darsi le leggi, attraverso quei filamenti invisibili che uniscono le volontà umane. Nel primo caso sono le leggi a foggiare i costumi, nel secondo sono i costumi a modellare le leggi.
In genere, come ha insegnato Montesquieu, sarebbe preferibile che le leggi riflettessero costumi consolidati, proprio per evitare pericolose fratture tra legislatore e società. Si tratta però di una preoccupazione che il diritto moderno, e in particolare quello di derivazione razionalista e illuminista, ha sempre tenuto in scarsa considerazione.
Perciò si tratta di una questione molto seria. Che non può essere lasciata - come si diceva un tempo per la guerra - ai soli generali, e dunque, nel caso specifico, ai giuristi… Non è un puro problema teorico da professori: è una questione politica. Dal momento che chi ritiene che il diritto preceda la società, finisce quasi sempre per inerpicarsi lungo un sentiero piuttosto pericoloso. Perché attribuisce al diritto, derivante dalla volontà di un legislatore (spesso eletto da minoranze…), una funzione esclusivamente educatrice o formatrice. Che spesso però rispecchia, non il sentire comune, ma soltanto quello delle élite dominanti.
Ciò però non significa che debbano essere ignorati contributi importanti, come quelli di Natalino Irti. Un giurista, oggi assai raro, che riesce al tempo stesso, come dire, a essere nel mondo ma non del mondo. In che senso? Irti, professore di diritto civile e accademico dei Lincei, è anche noto e apprezzato avvocato d’affari, già vicepresidente dell’Enel, membro del Cda Iri e del Comitato Privatizzazioni. Un attivismo professionale - ecco il suo “essere nel mondo”… - , che non gli ha però impedito di scrivere libri non di non comune apertura per un giurista. Di qui il suo “non essere del mondo”, in primis quello dei pedanti fautori di un diritto astratto, formalistico, e sganciato dalla filosofia e dalle scienze sociali .
Si pensi a un libro controcorrente come L’ ordine giuridico del mercato (Editori Laterza, Roma-Bari, 2003, nuova edizione), dove Irti, ricorda ai “liberisti della cattedra” che il mercato non è mai frutto di naturalistiche “leggi economiche”, ma di “decisioni politiche”: quando lo “Stato si ritira dall’economia e ‘privatizza’ beni e imprese, non c’è vuoto di politica (…), ma pienezza della politica, di quell’umano volere che ha scelto un dato regime della proprietà e degli affari” (p. IX). Per farla breve: si tratta di “volontà politica tradotta in statuizioni giuridiche” e infine economiche.
Oppure un testo intrigante come Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto (Editori Laterza, Roma-Bari 2005, 5° edizione), dove Irti riprendendo Schmitt e puntualizzando la natura spaziale e volontaristico-politica del diritto, demolisce “certo fiducioso neo-illuminismo”. Che, come scrive, “da un lato, riscopre le ‘magnifiche sorti e progressive’, e, dall’altro, offre in compensazione universali diritti dell’uomo. I quali in assenza di un diritto naturale che i neo-illuministi non ardiscono di riproporre, appaiono sospesi nel vuoto, privi della volontà storica degli Stati (perché altrimenti non sarebbero né universali né dell’astratto ‘uomo’, ma ‘particolari’ e di concreti ‘uomini’), e privi, a un tempo, di qualsiasi altro fondamento” (p. 100).
Ecco, il problema dell’assenza del fondamento, conduce a quello che è il tema del suo ultimo libro, Nichilismo giuridico (Editori Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. VIII-148, euro 16,00). Un testo, che tra l’altro, si pone la domanda da cui siamo partiti: viene prima il diritto o la società?
Irti non ha dubbi, viene prima la società. Secondo l’autore il “nichilismo giuridico” nasce proprio dalla “solitudine a cui oggi si è “consegnata (…) la volontà umana” (p. 22). Solitudine che è al tempo stesso esistenziale e sociale: l’inevitabile prodotto dissolutivo della modernità secolarizzante: di lì viene il diritto “nichilista”. “ Cadute le garanzie di natura o di ragione, - scrive Irti - il diritto si aggrappa a principî intra-mondani : spirito del popolo, unità dei codici, Stato-nazionale, ideologie politiche, e via seguitando. Ma essi si rivelano per ciò che sono: criterî storici ed effimeri, proiezioni della volontà che ha bisogno di appoggiarsi a qualcosa di ‘vero’ e di stabile. E dopo, allorché queste unità e totalità si disgregano e dissolvono, la volontà rimane ancora solitaria; nessuna voce più risuona dal di fuori, e intorno grava un terribile silenzio, il vuoto agghiacciante dell’universo” (p. 23). E dal “vuoto” non può che sorgere un diritto provvisorio, instabile, che culmina nel vorticoso, e solo apparentemente virtuoso, succedersi di norme giuridiche, emanate, modificate, abrogate, eccetera.
Anche perché si aprono continuamente crepe, che legislatore cerca di “chiudere”, ricorrendo alle tecniche di un “diritto [che] nasce dalle forze in campo, da rapporti di volontà, affidati a contingenza e causalità. Ogni norma è labile e provvisoria” (p. 24).
Quali sono le “frequentazioni” culturali dell’autore? Irti cita, a parte Schmitt, pensatori che di solito i giuristi poco apprezzano o conoscono: Nietzsche, Sartre, Camus, Valéry, Ortega, Simmel, Severino. Con quest’ultimo, Irti ha pubblicato l’avvincente Dialogo su diritto e tecnica (Editori Laterza, Roma-Bari 2001). Dove entrambi sostengono che il diritto sia ormai divenuto una pura tecnica “produttiva” di norme per e del mercato: il diritto “ricava le cose dal niente e le riporta al niente”. E’ un puro “fare” umano che distrugge e edifica: dà e toglie la vita.
Irti però, a differenza di Severino, ritiene che “il frammentismo normativo” possa stimolare “proposte ideologiche” E sceglie come modello di “nichilismo attivo” l’ homme révolté di Camus. Si tratta, come è noto, di un uomo che accetta la sua condizione per quel che è, e va avanti incontro alla vita, senza rimpianti per trascorse età dell’oro. “Il nichilismo - scrive Irti - ci salva e protegge; smaschera falsi idoli, da cui pensavamo di trarre il nostro ‘valore’. E tutto risolve nelle differenze della volontà, nel loro conflitto, nel loro vincere o soccombere. Esso non è rinuncia, ma accettazione; non è inerte angoscia, ma serena fraternità col divenire” ( p. 148).
Nichilismo giuridico, come ogni libro ricco di stimoli, può essere letto con profitto dal giurista, ma anche dal sociologo, dal politico intellettualmente curioso, nonché da chiunque sia intrigato dagli aspetti filosofici del diritto. Inoltre, è uno studio che presenta il diritto come “fatto sociale”. Dal momento che lo riconduce al divenire, o comunque a una decisione politica, che ha dietro di sé un ordine sociale, volontaristico ma concreto. E non un legislatore, convinto di sapere in astratto quale sia il “vero” bene dei cittadini. E magari d’ imporlo in modo totalitario.
Carlo Gambescia
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