Celebriamo
la Festa della
Donna il giorno dopo. È una scelta voluta, e di protesta. Come è intenzionale
la scelta della donna da ricordare: Lea Garofalo (nella foto), uccisa e sciolta
nell’acido dal convivente e dai suoi complici perché aveva scelto di
collaborare con la giustizia. Magistratura che, una volta istituito il
processo, ha rigettato nei riguardi degli imputati il riconoscimento dell’
aggravante mafiosa... Non è certo un bel modo di "celebrare" la
giustizia, né, per dire, la
Festa della Donna, visto che il rigetto del PM risale a pochi
giorni fa. Decisione, detto per inciso, in linea con la sorprendente
derubricazione del reato da omicidio di stampo mafioso a omicidio passionale,
già decisa nello stesso processo dal giudice Grisolia. Di qui, la nostra
protesta. Ora, lasciamo la parola all'amico Roberto Buffagni (*) che,
purtroppo, riesce a cogliere il punto della questione anche questa volta.
Perché purtroppo? Non certo per Buffagni che scrive e argomenta benissimo, ma
per la giustizia italiana... (C.G.)
Il caso di Lea Garofalo
di Roberto Buffagni
Non so se avete sentito del processo per l’assassinio di Lea
Garofalo. Se volete informarvi, andate al sito www.stampoantimafioso.it e
trovate tutto, compresa la cronaca del processo tuttora in corso. E’ una storia
di ‘ndrangheta, mafia calabrese di gran moda dopo la strage di Duisburg. Di
solito, non seguo le storie di mafia sui giornali. Da quarant’anni sento
parlare di lotta alla mafia, di ribellione della società civile, della
democrazia contro la criminalità organizzata, e via dicendo. Da quarant’anni
vedo gli eroi e i martiri che una volta morti ammazzati fanno anche il miracolo
dell’immediata moltiplicazione degli amici, dei discepoli, dei medium-portavoce
e dei protettori in alto loco. Fin dalle celebri serie TV della Piovra che
fecero la (meritata) fortuna di Michele Placido si realizzano tanti film,
fiction, libri e dibattiti sulle mafie. Intanto le mafie si confermano settore
in espansione e se la passano alla grande. Due estati fa, verso le undici di
sera, scendendo le scale di casa mia (sita nelle campagne del modenese, non del
cosentino o del palermitano) guardo dalla finestra e vedo sfavillare, a un paio
di chilometri di distanza, una magnifica aurora boreale: una mafia ha
incendiato centinaia di cassoni per la frutta, impilati nel piazzale di una
cooperativa agricola che non aveva capito l’antifona. Quando il discorso cade
sull’argomento e non ho il buon senso di stare zitto, dico cose che suscitano
preoccupate reazioni tra gli astanti, tipo “Rifacciamo la guerra al
brigantaggio, però stavolta contro i briganti veri, invece che contro i leali
sudditi di Sua Maestà borbonica! Mandiamo l’esercito, e non a dirigere il
traffico! Legge marziale, stato d’assedio!” e altre esternazioni da ex
colonnello degli Alpini al primo manifestarsi del morbo di Alzheimer-Perusini.
Però, nel luglio 2011 mi
è capitato di leggere una notizia che mi ha scosso, e garantisco che a
cinquantacinque anni, con quello che ho visto e non solo visto succedere in
Italia, per scuotermi ce ne vuole. La notizia diceva che il dr. Filippo
Grisolia, presidente il processo per l’assassinio di Lea Garofalo, aveva
accolto la richiesta dei difensori e derubricato l’imputazione da omicidio di
stampo mafioso a omicidio passionale. (Pochi giorni fa, il PM Marcello
Tatangelo ha respinto anche la richiesta di parte civile di contestare agli
imputati l’aggravante di aver agito con modalità mafiose, adducendo ragioni
tecniche, in quanto si tratta di un’aggravante “a dolo specifico”: dev’essere
l’unica finalità dell’azione, mentre gli imputati avrebbero agito per una serie
di motivazioni).
Sapendo cos’era successo, la cosa era effettivamente un po’ forte. Lea Garofalo
era un donnino calabrese, figlia d’una famiglia di ndranghetisti importanti,
che, trovato un compagno di vita nel suo ambiente, Carlo Cosco, a diciassette
anni ci aveva fatto una figlia oggi ventenne, Denise. Una dozzina d’anni fa,
Lea si disgusta di vivere in quel modo e con quella gente. Lascia Cosco, e si
rivolge agli organi di polizia giudiziaria. Racconta quel che sa, chiede
protezione e aiuto per iniziare una vita diversa per sé e per la figlia. Non
succede niente. Cioè, da un canto Lea non ha commesso crimini in proprio, e
dall’altro le sue deposizioni non danno luogo ad azioni giudiziarie. Perché?
Non lo so. Forse, come ha detto in aula il difensore del suo compagno di vita e
assassino, Lea “riferiva notizie che conoscevano tutti, anche i sassi”, tant’è
vero che “nessuna Procura della Repubblica ha ritenuto attendibili le [sue]
testimonianze.” Come collaboratrice di giustizia, dunque, Lea vale poco, e le
danno una protezione light. La mandano un po’ in giro per l’Italia insieme alla
figlia passandole qualche soldo, ma non le creano la nuova identità necessaria
per ricominciare. Nel frattempo, Cosco ha già saputo attraverso i suoi canali,
meno intasati da Law’s delay ed insolence of Office[1], che la madre di sua figlia
sta a Campobasso. D’altronde Lea, visto il trattamento ricevuto dalla Giustizia
italiana, ha rinunciato a nascondersi, e per sopravvivere conta su due punti a
suo favore: è sorella di un pezzo grosso della ‘ndrangheta, uno molto più
importante di Cosco; e Cosco è pur sempre il padre di sua figlia. Così, avendo
anche bisogno di soldi per Denise, si sente al telefono con Cosco, che infatti
si dimostra molto disponibile, e nel maggio del 2009, quando si rompe la
lavatrice a casa di Lea, premurosamente le manda subito un tecnico. Il tecnico
però non può eseguire la riparazione (non può ammazzare Lea) perché quel giorno
Denise, invece di liberare il campo andando a scuola, è rimasta a casa con la
febbre, e il suo assassinio non è previsto dalla commessa.
Bè, a questo punto non ci voleva un veggente per capire come andava a finire.
Lea lo capisce benissimo. Infatti scrive – a mano, come un testamento olografo
- una lettera aperta al Presidente della Repubblica italiana Giorgio
Napolitano, tipico atto di chi non spera più niente in questo mondo. Nella
lettera di Lea si leggono brani che, sebbene l’autrice, titolare di licenza
media inferiore, avesse poca dimestichezza con gli splendori della lingua
italiana, attingono un’ innegabile forza espressiva: ad esempio, “Signor
Presidente della Repubblica, chi le scrive è una giovane madre, disperata allo
stremo delle sue forze. […] Siamo da circa 7 anni in un programma di protezione
provvisorio. In casi normali la provvisorietà dura all'incirca 1 anno, in
questo caso si è oltrepassato ogni tempo e, permettetemi, ogni limite. […]
Vengo ascoltata da un magistrato dopo un mese delle mie dichiarazioni in
presenza di un maresciallo e di un legale assegnatomi, mi dissero che bisognava
aspettare di trovare un magistrato che non fosse corrotto. […] Oggi mi ritrovo,
assieme a mia figlia isolata da tutto e da tutti, ho perso tutto, la mia
famiglia, ho perso il mio lavoro (anche se precario) ho perso la casa, ho perso
i miei innumerevoli amici, ho perso ogni aspettativa di futuro […] e sa qual è
la cosa peggiore? La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta,
dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la
morte… indegna inesorabile! […] Lei oggi, signor presidente, può cambiare il
corso della storia, se vuole può aiutare chi, non si sa bene perché, o come,
riesce ancora a credere che anche in questo paese vivere giustamente si può
nonostante tutto!”
Non succede niente. I giornali non pubblicano la lettera; o meglio, qualche
giornale locale come il “Quotidiano della Calabria” la pubblica, ma solo quando
Lea è diventata celebre, cioè dopo che l’hanno ammazzata e sciolta nell’acido.
Sempre dopo la morte di Lea, dal Quirinale faranno sapere che a loro non è
arrivata posta. Chissà, forse un disguido: certo che se Lea mandava una
raccomandata a. r. era tutt’altra cosa. E arriviamo a Milano; è una serata del
novembre 2009, cinque mesi dopo la lavatrice di Campobasso. Denise ha finito le
scuole superiori, vorrebbe andare all’Università. Ci vogliono i soldi, Lea non
ne ha. Prende appuntamento con Carlo Cosco per parlarne. Naturalmente la
sconsigliano, ma lei all’appuntamento va lo stesso. E’ stanca, vuole farla
finita? “and by a sleep, to say we end the heart-ache, and the thousand Natural
shocks that Flesh is heir to? 'Tis a consummation devoutly to be wished”[2]. O
nonostante tutto, non riesce a credere che il padre di sua figlia la voglia
ammazzare sul serio e di persona? Non lo so, vedete voi. Fatto sta che fa
un’ultima passeggiata insieme a sua figlia (per gli spiriti e gli stomaci
forti, c’è anche il video in rete, ripreso dalle telecamere di sorveglianza
stradale del Comune di Milano) e poi incontra Cosco, che la sequestra, la fa
salire su un furgone che si è fatto prestare da un cinese, la porta in
un’officina dell’hinterland milanese, insieme a certi amici suoi la tortura per
sapere nei dettagli che cosa ha detto alla polizia, la uccide, la scioglie
nell’acido, e quando i parenti chiedono che fine ha fatto casca dalle nuvole,
ipotizza vacanze ai Caraibi.
Denise va a stare con il padre e i parenti in Calabria, perché deve convincerli
che non è pericolosa, altrimenti c’è il rischio che ammazzino anche lei
(segnalo en passant che tra i complici di papà nell’omicidio della mamma c’era
anche un ragazzo calabrese di cui Denise si era innamorata, un suo
fidanzatino).
A questo punto, comincia a succedere un sacco di roba. Succede che arrestano
Cosco e i suoi complici, e li traducono in giudizio. Parte il processo,
presieduto come dicevo dal dr. Filippo Grisolia. Testimone chiave dell’accusa,
Denise Cosco. Succede che l’imputazione viene derubricata dal dr. Grisolia da
omicidio di stampo mafioso a omicidio passionale: insomma, a quanto pare Cosco
avrebbe ammazzato Lea perché ferito nei sentimenti e nell’onore dall’abbandono
e dal tradimento della compagna di vita; se poi l’ha ammazzata in quel modo,
dipenderà dalla cultura del suo ambiente (un po’ di multiculturalismo non
guasta mai). Tra i vari benefici che comporta la derubricazione, c’è anche la
possibilità di accedere al patrocinio gratuito. Cosco dichiara un reddito di
10.000 € circa, e dunque può nominare suo difensore il noto professionista
milanese Avv. Daniele Sussman Steinberg, che presenterà la parcella al contribuente
italiano. Succede che si insedia il Governo Monti, e che il dr. Grisolia
ottiene la nomina a capo di gabinetto del Guardasigilli Paola Severino. Il dr.
Grisolia abbandona immediatamente il processo Garofalo. Esercitando il loro
diritto, i difensori esigono che siano escussi daccapo tutti i testi davanti al
nuovo presidente della Corte, dr. Anna Introini. Alle polemiche, il dr.
Grisolia risponde che non se lo aspettava, e che comunque il processo va
avanti. Vero, però se non arriva a sentenza entro il luglio 2012, gli imputati
escono per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Due deputati PdL,
A. Mantovano ed E. Crosetto, lanciano un appello alla “ben nota sensibilità”
del Guardasigilli perché “disponga che la completa assunzione del nuovo
incarico da parte del dott. Grisolia gli permetta di completare almeno il
processo in questione” com’è d’altronde nella “prassi, raccomandata dal Csm e
dall' Anm, che chi cambia funzione salva le pendenze più importanti, per
evitare rischi (sussistenti nel caso specifico) di liberazione per decorrenza
termini degli imputati, e comunque gravi disagi per i testimoni.” Non succede
niente. Evidentemente, il dr. Grisolia non può fare il part time al Ministero.
Però il Ministro Severino, dandoci conferma della sua “ben nota sensibilità,” a
proposito di Denise Cosco dice che “sotto il profilo umano rimane il profondo
disagio e la sincera vicinanza a una testimone che vedrà rinnovato il suo
dolore”.
Sapute queste cose, per la primissima volta nella mia vita mi metto a scrivere
lettere ai giornali, come un pensionato. Scrivo ai principali quotidiani di
destra, sinistra, centro, opinione. Non succede niente, nessuno pubblica. Leggo
che Massimo Gramellini, in una trasmissione TV, ha detto che in aula il dr.
Grisolia s’era comportato “da vero papà” nei confronti di Denise, e gli scrivo
illustrandogli la dissonanza cognitiva tra l’appellativo “vero papà” e le
decisioni processuali del dr. Grisolia. Gramellini gentilmente mi risponde e mi
dice che approfondirà la vicenda, che ne scriverà: poi però non scrive niente.
Gli scrivo di nuovo e sono anche, fatto per me più unico che raro, abbastanza
sgarbato, così che mi tocca riscrivergli e scusarmi. Poi scrivo a tutti i
componenti la
Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, riassumendo
la vicenda e invitandoli a chiedersi se era indispensabile che tra tutti i
magistrati in servizio, proprio il dr. Grisolia venisse nominato capo di
gabinetto del Guardasigilli, il tecnico Paola Severino. Non succede niente.
Cerco anche di parlarne al filo diretto della rassegna stampa mattutina di
Radio Tre. Non succede niente, non mi passano mai il giornalista. Poi qualche
giorno fa succede qualcosa. Sempre a Radio Tre, alle dieci del mattino, la
rubrica “Tutta la città ne parla” sceglie di trattare l’argomento del processo
Garofalo. Una signora (non ricordo il nome, mi dispiace) che lavora in una
associazione antimafia ha mandato una lettera al Ministro della Giustizia Paola
Severino, lamentando che nel processo Garofalo si sia derubricata l’imputazione
da omicidio di stampo mafioso a omicidio passionale, e protesta che non è
successo niente: nessuno le ha risposto. Alla velocità della luce, mando un
sms, naturalmente firmato con nome e cognome, al conduttore della trasmissione
radiofonica, e gli condenso in una folgorante pillola com’è andata la faccenda.
Il conduttore reagisce immediatamente. “Riceviamo un sms molto articolato sulla
vicenda…” Io tripudio. Il conduttore continua: “Non possiamo leggerlo tutto”
(sono dieci righe) “ma è importante quel che ci segnala, è cioè il ruolo di
Denise Cosco, una giovane donna che coraggiosamente si ribella alla mafia.” E
insieme alla signora dell’associazione antimafia e a una sociologa, prosegue
per tutta la mezz’ora della trasmissione ad analizzare in chiave
femminista-surrealista il nuovo ruolo delle donne sia nelle varie mafie, sia
nelle varie antimafie istituzionali e non. Delle curiose scelte processuali e
di carriera del dr. Grisolia, degli assassini che potrebbero uscire a luglio
prossimo, di Denise che rischia la pelle, zero. Insomma, non succede niente.
Mi do dello scemo, e ricordando a me stesso i miei tanti sarcasmi sulla figura
del cittadino scomodo, mi riprometto di lasciar perdere e non pensarci più.
Passano alcuni giorni e mi torna in mente questa brutta faccenda. Allora scrivo
questo pezzo per il blog dell’amico Carlo Gambescia, anche per celebrare la Festa della Donna, e in
particolare di una donna coraggiosa e sfortunata. Mi sento un po’ meglio, non
tanto ma un po’ meglio sì. Lui lo pubblicherà. Non succederà niente.
Roberto Buffagni
[2] “E
con una dormita, dire che mettiamo fine/ al crepacuore e ai mille colpi che
Natura/ lascia in eredità alla carne? E’ una soluzione/ che anche il devoto può
desiderare” . Come sopra, mia traduzione dallo stesso monologo .
(*) Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro,
attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista,
musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e
Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la
fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...
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