Giordano Bruno sociologo ante litteram?
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Nel corso di una ricerca sulle origini sociologiche dell’ idea di giustizia
sociale, ci siamo imbattuti nel seguente passo dei Dialoghi morali di Giordano
Bruno (titolo imposto da Giovanni Gentile, curatore della raccolta, alla triade
filosofica bruniana dello Spaccio de la Bestia trionfante, della Cabala del cavallo
pegaseo, e De gli eroici furori). Un passo, forse "minore" ma di
grande importanza sociologica, che trasforma il pensatore nolano in una specie
di sociologo ante litteram.
Bruno risponde, discutendo del rapporto tra Fortuna, Giustizia e Virtù, a una
domanda che tuttora molti si pongono: perché le ricchezze siano spesso in mano
dei malvagi. Ecco la sua risposta: tutto questo dipende dalla «Fortuna» ,
perché è in se stessa «equalità»; «io Fortuna», si legge, « sono una giustizia
che non ho da distinguere, non ho da far differenze; ma… ho da ponere tutti in
certa equalità, stimar tutti parimenti, aver ogni cosa per uno, e non essere
più pronta a riguardare a chiamar uno che un altro, e non più disposta a donar
ad uno che ad un altro, ed essere più inclinata al prossimo che al lontano… e
però quando dono, non vedo a chi dono; quando toglio, non vedo a chi toglio:
acciò che in questo modo io vegna a trattar tutti equalmente e senza differenza
alcuna. E con questo certamente io vegno ad intendere e fare tutte le cose
equali e giuste, e giustamente ed equalmente dispenso a tutti. Tutti metto
dentro d’un’urna, e nel ventre capacissimo di quella tutti confondo, imbroglio
ed exagito. E poi zara a chi tocca; e chi l’ha buona ben per lui e chi l’ha
mala, mal per lui» (p. 691).
Va notato, quanto sia lontana l’impostazione bruniana da quella cattolica, che,
per giustificare la ricchezza, invocava la Provvidenza , come da
quella protestante, che faceva discendere la ricchezza dalla Predestinazione.
Due impostazioni che restano tuttora ottimi strumenti di controllo sociale, per
facilitare la rassegnazione e contenere l’invidia verso i potenti.
Notiamo, di passata, che Machiavelli invece invitava gli uomini a sfidare, con
ogni mezzo (lecito o meno), la
Fortuna , e quindi a farsi parte attiva, per dirla
sociologicamente, nei processi di mobilità politica e sociale.
Però, ecco il punto, Bruno indica una via d’uscita nella virtù, intesa non come
pura abilità sociale e politica (alla Machaivelli), bensì quale pura bontà
d'animo (predisposizione al bene). Il suo ragionamento è questo: dal momento
che la Fortuna
non implica alcuna scelta e che il numero dei posti di comando è
necessariamente ridotto, i virtuosi dovranno essere più numerosi dei malvagi.
Se ciò accadrà, la Fortuna
ricadendo su un numero maggiore di virtuosi gioverà, senza volerlo, alla
società
Perciò, secondo Bruno, da un lato c'è la Fortuna , che non tiene in alcuna considerazione,
meriti e demeriti riguardo all’acquisizione o perdita della ricchezza,
dall’altro la necessità, per dirla modernamente, di governare i processi
sociali, favorendo la formazione di uomini buoni o virtuosi.
Ma in che modo? Bruno non risponde. Forse perché consapevole che la bontà,
fatto individuale, non può essere decretata per legge. E che, in fondo, la
bontà è da sempre patrimonio solo di ridotte minoranze, se non di puri e
semplici individui socialmente ininfluenti.
Insomma, gli uomini, nella generalità, non sono angeli, né posso essere
costretti a diventarlo. Di qui divisioni, lotte, conflitti, guerre… Il che
significa, altra lezione del nolano, che il sociologo deve studiare la realtà
per quello che è e non per quello che dovrebbe essere. E qui Bruno, suo
malgrado, incontra Machiavelli.
Carlo Gambescia
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